Bernina: atto secondo

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Il rifugio Marco e Rosa si trova a 3609 metri di quota e questo lo rende il rifugio più “alto” della Lombardia e probabilmente di tutto l’arco alpino orientale. Lassù, sotto il Bernina e di rimpetto alla Cresta Guzza, il rifugio è gestito da un veterano di montagna d’eccezione: Giancarlo Lenatti detto “Il Bianco”. Dalle finestre del Marco e Rosa si può ammirare il Disgrazia ed è forse anche per questo, per avere quella meraviglia sempre davanti agli occhi, che il Bianco ha preso dimora lassù: sua è infatti la prima eccezionale discesa con gli sci dalla nord del Disgrazia!

Quando usciamo dal rifugio la luce del sole inizia a rischiarare l’orizzonte mentre le stelle, che hanno brillato tutta notte coccolate dal vento, scompaiono lentamente.  Franco, a cui la sera prima si era incartato lo stomaco, è di nuovo in forma: tutti e tre ci prepariamo ad attaccare il Bernina.

La maggior parte dei polacchi che dormivano al rifugio si addentrano verso la Svizzera ed il giro delle Belleviste: davanti a noi solo un paio di cordate ci precedono mentre con calma “pascoliamo” sulla neve ammirando l’alba. Il vento soffia ancora forte e solleva grandi scaglie di ghiaccio che, scosse nei raggi di sole, volano come risme di fogli di carta lanciati per aria: la giornata è strepitosa!

“Bagai, va bene far turismo! Ma il Bernina è dall’altra parte! Se proseguiamo andiamo in Svizzera!” Presi dalla voglia di esplorare ci eravamo allungati quasi alla sella prima di rimettere i nostri passi in direzione delle rocce del Bernina.

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Sulla neve però viaggiamo forte e siamo tutti in forma: senza difficoltà risaliamo veloci fino al primo ed unico crepaccio aperto raggiungendo di gran carriera le cordate che ancora tentennano nell’attaccare la roccia. Dopo la neve si deve affrontare la parte rocciosa della salita: sull’attacco troviamo qualche tratto di verglas (ghiaccio sottile) che copre alcuni tratti, nulla di preoccupante sebbene la traccia sulla neve (abbiamo scoperto dopo) portasse leggermente a sinistra della via attrezzata con fittoni ad anelli.

Superando un piccolo caminetto appoggiato siamo ritornati in cresta e sulla via. Lì c’è un primo passaggio di secondo grado rimontando  una placca appoggiata e ben appigliata. Arrampichiamo con i ramponi ai piedi facendo sicura sui vari ancoraggi presenti.  Giovanni, che sulla neve è un trattore, sulla roccia invece tentenna un po’ e per questo proteggiamo anche alcuni tratti che potrebbero essere fatti in conserva.

Subito dopo si raggiunge un prima punta sulla cresta a cui segue un piccolo traverso sulla neve che porta al punto chiave della salita: una salita verticale di terzo grado che si sviluppa per una trentina di metri d’altezza. Prima di raggiungere questa parete si deve superata una crestina di neve alla fine della quale si trovano delle comode catene su cui attrezzare la sosta. Le catene sono a strapiombo sul vertiginoso  canalone est ed è quindi importante assicurarsi bene e sfruttarle al meglio: allongiati alle catene togliamo i ramponi ed attacchiamo la roccia.

Con una certa invidia lascio che sia Franco a salire da primo e a godersi quel tratto d’arrampicata non particolarmente difficile ma decisamente appagante. Sabato era il suo compleanno e tirare da primo sul Bernina a 64 anni è di certo una bella soddisfazione. Il presidente se la cava alla grande nel passaggio chiave! Grande Presidente!

Superata la parte verticale vi sono ancora una decina di metri prima di raggiungere la parte sommitale della cresta e proseguire verso la cima italiana del Bernina: i 4020 metri della Punta Perrucchetti (o La Spedla). Dalla punta italiana vi è una cresta che attraversa quasi orizzontale fino ai 4049 metri della vetta Svizzera del Bernina. Normalmente la cresta è coperta di neve ma noi la troviamo completamente asciutta e rocciosa. Dubbioso inizio a fare i miei calcoli.

Raggiunta la cima italiana Franco ed io facciamo il punto recuperando Giovanni alla sosta. Arrampicando in tre siamo stati lenti, forse persino troppo lenti. Sulla roccia serve essere affiatati e veloci, sia sui passaggi che nelle manovre. Dal mio punto di vista eravamo arrivati fin lì in piena sicurezza ma mettendoci troppo (erano ormai quasi le nove e mezza). Indicando il folto gruppo di alpinisti che emergeva dalla svizzera e dalla Biancograt ho chiesto a Franco:  ”Che facciamo? Quando quelli arrivano qui diventerà parecchio affollato. Andare e tornare significa aggiungere un ora e finire diretti in fondo alla fila. Non so: ci servono un paio di doppie per scendere da qui e forse un’altra per uscire dalla ferrata.” – la mia mente ricordava ancora bene le scariche di sassi del giorno prima – “Io chiuderei qui, sulla cima italiana, e comincerei a tirarmi verso casa: la strada è lunga.”

Franco mi guarda, ride, toglie il guanto e mi offre la mano destra da stringere: ”Benvenuto in cima, vicepresidente! Guarda che posto magnifico!!”. Io e Franco ci intendiamo sempre! Anche Giovanni accetta di buon grado l’idea e tutti e tre ci stringiamo per una foto di gruppo (che è ancora sulla macchina fotografica di Franco al momento in cui scrivo).

La scelta si dimostra azzeccata perché tutto intorno a noi si animano “numeri da circo” capaci di far accapponare la pelle. Un tipo, uno di lingua tedesca, fionda diritto giù per il canale est e solo grazie a qualche intervento divino evita di finire giù nelle spaventose crepacciate. Non so cosa abbia combinato, so solo che l’ho visto partire a pelle d’orso sulla neve: un capo della corda legato in qualche modo alla vita mentre l’altro capo risaliva , libero, lungo la parete verso l’anello di calata venti metri più sopra. Non so se abbia sbagliato la doppia, se abbia fatto casino assicurandosi  alle catene o se sia stato il suo socio a cappellare calandolo.

Quello che so è che in quel tratto esci da una doppia su roccia per affrontare un traverso su neve, il che significa mettersi in sicurezza, liberare la doppia e indossare di nuovo i ramponi, aspettare il compagno, legarsi in cordata ed attraversare protetti: se cappelli rischi di finire in un buco o di farti cinquecento metri di dislivello su di uno scivolo verticale di neve che porta dritto ad una bara di ghiaccio.

Noi, al sicuro oltre quel passaggio, osservavamo dal basso come il “circo” si riprendeva a stento a quello spavento attrezzando una specie di recupero in un tripudio di urla e strilli multilingua. Credo che il tipo, venti metri sotto le catene ed appeso alla neve con lo sputo, abbia visto davvero la strega questo giro: solo qualche santo in paradiso gli ha salvato la pelle!

Ma ancora altri numeri da circo della giornata dovevano andare in scena. Oltre ai sassi che volavano ovunque c’era una folla di gente che, vestita da super-eroi, avanzava con il passo preoccupantemente incerto. Raggiungiamo un valtellinese con il figlio ventenne, un tipo con una bella faccia da montanaro ed una bella barba lunga. I suoi vestiti erano anche meno “fighi” e più consumati dei miei: sembrava un boscaiolo d’alta quota e per questo mi è stato subito simpatico. Viaggiando quasi sempre in conserva continuava a ripetere al figlio in dialetto stretto: “Dai in fretta! Andiamo via, andiamo via!”. Ed aveva dannatamente ragione!

Superato il Marco e Rosa discendiamo la ferrata arrivando fino all’uscita ed al problematico tratto finale. Il “Barba” ha calato il figlio e d’esperienza ha superato la scala raggiungendo sicuro la neve. Noi invece stavamo attrezzando una doppia sui pioli della ferrata per raggiungere la scala-ponte quando è partito un altro terrificante numero da circo bulgaro.

Una cordata a tre di polacchi aveva infatti optato per un calata diretta sul canale atterrando sul bordo del crepaccio che separa appunto il canale dalla roccia. Io non ho capito cosa abbiano combinato, sta di fatto che uno dei tre parte a pelle d’orso lungo il canale circondato da blocchi di neve grandi come lavatrici che gli sbattono addosso. La corda a cui è legato scorre come se non dovesse fermarsi mai lasciandolo correre impotente sulla pancia verso il basso. Finalmente la corda va in tensione mentre altri blocchi di neve rovinano a valle trascinandosi dietro a rotoloni anche uno zaino e delle racchette.

Il Barba ed il figlio, che stavano già scendendo all’indietro lungo il canale, si sono visti arrivare addosso parte di tutto questo macello senza però rimanerne, fortunatamente, troppo coinvolti nella scarica. Lo zaino rotolava come una palla verso i crepacci a valle e, misteriosamente, si è improvvisamente fermato prima di precipitare tra le pareti di ghiaccio.

I due soci di quello spanciato sulla neve erano dentro la crepacciata sommitale, mezzi sommersi dalla neve crollato avevano trattenuto il compagno solo facendo da contrappeso sul bordo del crepaccio. “Dai Marco, dai!!Veloce!! Via Via!” urlava il barba al figlio mentre come schegge schizzavano fuori dal canale.

Io ero esterrefatto: non ho mai visto combinare tante puttanate tutte insieme in un giorno solo! Davvero! Fortunatamente nessuno dei tre si è fatto male, ma solo Dio sa perché! Se tutti e tre avessero cominciato a rotolare giù per il canale nulla avrebbe potuto impedirgli di lasciarci la pelle! Noi finiamo la nostra doppia, infiliamo i ramponi (sempre ben assicurati!!) e seguendo l’esempio del Barba ce la diamo a gambe a tutta forza!

A valle, ormai al sicuro sul passo Marinelli, incontriamo due ragazzi conosciuti la mattina lungo la salita. Io due, giovanissimi ma ben preparati, erano partiti da Campo Moro la notte e si erano fatti il Bernina in giornata: davvero bravi! Chiacchierare con loro è stato come tirare una boccata d’aria buona in mezzo a tanta follia.

Al rifugio Carate ci fermiamo per una birra ed un po’ di affettato. Ormai erano le sei di sera, era tardi ma non c’era più da preoccuparsi. Raggiunto il bosco sottostante tiriamo fiato osservando il tramonto sullo Scalino: solo lo scorso anni Franco, Renzo ed io avevamo fatto lassù una magnifica salita. (Renzo quest’anno di anni ne compie 69!!)

Nonostate i brividi e gli imprevisti la nostra salita è stata di grande soddisfazione, il Bernina è davvero uno scenario straordinario ed il Disgrazia, che ammiccava compiacente, è stato una costante tentazione. (…al prossimo giro, al prossimo giro!)

Quello che però posso dirvi è che le nostre montagne, soprattutto quelle più famose e conosciute, stanno subendo una trasformazione forse epocale. Stanno cambiando in modo radicale e spesso salite un tempo semplici ora stanno diventando ragguardevoli.

Parallelamente si stanno affollando di “mine vaganti”: al netto del coefficiente umano durante la nostra salita non avremmo incontrato quasi nessun significativo pericolo o difficoltà. Se invece facciamo il conto delle porcate a cui abbiamo assistito c’è da essere felici di essere ancora tutti d’un pezzo. Quindi mi raccomando: attenzione, attenzione, attenzione!!

Vi saluto: sono in viaggio per la Carnia!

Davide “Birillo” Valsecchi

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