La via attraverso la roccia

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«A mio parere, ci sono tre tipi di disturbi che affliggono l’essere umano: malattie che causano la febbre, malfunzionamenti del sistema gastrointestinale e lesioni fisiche. Quasi sempre la causa di una disabilità è radicata in un malsano stile di vita, nelle abitudini irregolari, e in una cattiva circolazione. Se un uomo con la febbre pratica i propri esercizi di Karate fino a quando il sudore comincia a colare dal suo corpo scopre che la sua temperatura è scesa alla normalità, e che la sua malattia è stata curata. Se un uomo con problemi gastrici fa lo stesso cosa il suo sangue circolerà più liberamente alleviando così la sua angoscia. Le lesioni fisiche sono, naturalmente, un altro discorso, ma anche molte di queste possono essere evitate grazie ad un buon addestramento, esercitandosi in modo corretto con cura e cautela. Karate-do non è solo uno sport che insegna a colpire con calci e pugni, è anche una difesa contro la malattia e il malessere.» Queste sono le parole di Gichin Funakoshi con cui nel suo libro introduce la pratica del Karate-do secondo lo stile ShotoKan, di cui fu fondatore nel 1922.

All’età di 22 io mi trovavo in Pakistan, sdraiato nella mia tenda avevo lo stomaco ritorto, sudavo freddo ed avevo paura. Il giorno successivo avremmo iniziato una lunga marcia nell’ignoto alla scoperta di una valle al confine con l’Afganistan. Il mio corpo mi stava tradendo e la mia mente vagava in mille incertezze. Ero il più giovane e il meno esperto, potevo solo contare sulla mia resistenza ma in quel momento mi sentivo a pezzi. Potevo restare sdraito, commiserare nella mia tenda quello che sarebbe stato il mio fallimento. Fortunatamente non era ciò che mi era stato insegnato, non era ciò che volevo o potevo accettare.

Uscii dalla tenda nel cuore della notte. Il nostro campo era nel mezzo di un villaggio di pastori, piccole baracche di legno e fango all’ombra di alcune piante a ridosso dei campi coltivati. Completamente al buio trovai un piccolo spiazzo, unii i piedi e chinai il busto in avanti in un piccolo inchino e sussurai nel silenzio “heian shodan”.

Il primo katà della pace, la forma base che si insegna alle cinture bianche, agli studenti più inesperti. Lentamente mi girai verso sinistra ed iniziai con la prima tecnica. Non sapevo se qualcuno stesse guardando, avevo paura di apparire come un pazzo ma non potevo non fare nulla. Accorciai ogni passo, ridussi e contrassi ogni movimento affinchè mi servisse il minor spazio possibile. Era come se mi nascondessi mentre mentalmente cercavo di mantenere la giusta postura, la corretta sequenza. Il mio corpo non voleva saperne e la paura stava diventando panico e vergogna.

Iniziai ad ascoltare il mio respiro, il ritmo dei miei movimenti, di quei gesti familiari ripetuti centinaia e centinaia di volte nel fraterno abbraccio dei miei compagni, della palestra, del Maestro. Lentamente la mente si focalizzò sull’azione forzando il corpo a diventare un tutt’uno con la volontà. Senza che me ne accorgessi la mente divenne nuovamente quieta, il mio incedere fluido e rilassato. Sentivo il mio corpo, sentivo ciò che potevo fare ed i punti esatti in cui faceva male o ero incapacitato. Il sangue scorreva seguendo il respiro ed il diaframma scuoteva le viscere alleviando i crampi. Il mio corpo poteva non essere funzionante al 100% ma la mia mente non aveva più paura: ero nuovamente padrone della mia volontà e del mio destino.

Tornai nella mia tenda e finalmente riuscii a dormire. Il giorno successivo ero ancora affaticato ed indebolito ma la mia mente era entusiasta nell’affrontare quella nuova avventura.

Questo accadeva quindici anni fa. Qualche settimana addietro il mio maestro, con sua moglie ed il suo giovane figlio, è venuto a farmi visita ed io l’ho accompagnato attraverso la valle Ravella fermandoci a mangiare nei prati del Terz’alpe. Era una bella giornata di sole e, per concludere il pranzo, abbiamo aperto una bottiglia di grappa.

Sebbene non frequenti più la palestra e siano ormai rare le occasioni per praticare con il Maestro o con i vecchi compagni io so, in cuor mio, di essere un buon alievo ed un buon karateka. Molti anni fa, mentre con lui facevamo lezione ai bambini, mi chiese cosa pensavo fosse importante insegnare loro. Io inizia a rispondere con le classiche banalità e lui mi interruppe «Vedi Birillo, noi non insegnamo a questi bambini a tirare calci e pugni. No, quello lo possono imparare anche in strada. Noi insegnamo loro Karate ma potremmo insegnare loro anche tennis, pallavolo o qualsiasi altra cosa. Non è il Karate quello che conta ma quella parola che noi uniamo alla fine, Karate-Do. Il “Do”, la via, qualsiasi cosa va bene per insegnare la “via” ma è la “via” che noi dobbiamo puntare ad insegnare». Lo ascoltavo in silenzio mentre osservavamo, apparentemente distratti, i bambini mentre finivano gli esercizi di riscaldamento. Quello che è stato forse il discorso più lungo mi abbia mia fatto e probabilmente uno dei più importanti. «Dobbiamo insegnare la via affinchè attraverso essa trovino se stessi. Qualsiasi cosa decidano di diventare andrà bene, ma attraverso la via saranno al meglio delle loro potenzialità. Questo per loro ma anche per tutti noi: qualsiasi sia il loro meglio sarà qualcosa di cui tutti potranno trarne beneficio.»

Erano passati tanti anni da quelle parole e brindando con la grappa gli indicai le pareti dei Corni: «Sto arrampicando lassù da oltre un anno. Sto cercando di riscoprire le vecchie vie, le vecchie tradizioni, i vecchi maestri. Faccio parte di questi luoghi e qui ho tutta la libertà che mi serve: è dura, alle volte me la vedo brutta, ma mi fa molto piacere condividere ciò che scopro. Ci sono dei ragazzi che hanno cominciato ad arrampicare con me.»

Abbiamo riempito di nuovo i bicchieri e brindato:«Allora alla tradizione ed al suo futuro!» Guardandoci negli occhi era chiaro che avesse compreso i miei obbiettivi, sapevo di avere la sua approvazione.

Una volta, tanti anni fa, mi disse: «Karate signifca “mano vuota”. Con il tempo capirai che è la gentilezza ciò che racchiude questa “mano vuota”. Con il tempo capirai anche che vicino a questa gentilezza trova spazio la più sconfinata ed assoluta arroganza.» Io lo guardai stupito e lui sorrise divertito. «Solo una persona profondamente arrogante può credere di possedere forza e volontà per cambiare le cose quando è il momento di farlo». Ridemmo: quello fu un grande insegnamento.

Davide “Birillo” Valsecchi

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