Sul Pizzo Boga

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Le  guide riportano solamente la via “erredue monza” e descrivono in modo poco accattivante il Pizzo Boga, un imponente Bastione roccioso posto tra il Dente del Coltignone a Sinistra e la Val Calolden a destra. Stavo cercando qualche informazione storica ma ho trovato le solite cose ritrite, spesso svilenti: monotiri medio-facile, vie di discreto sviluppo e modesta difficoltà, roccia di qualità variabile e pericolo di caduta sassi decisamente elevato. Un tempo molto frequentato, oggi per principianti e corsi di roccia, bla bla bla… soliti discorsi da arrampicata sportiva: posso dirvi che la mia prima visita al Pizzo Boga, troppo spesso bistrattato, è stata decisamente positiva.

Quel posto, dimenticato e costellato da vecchi chiodi abbandonati, può davvero vivere per una seconda giovinezza per chi, armato di friend, nat e mazzetta, vuole “sperimentarsi” nell’arrampicata libera anzichè in quella vincolata. Certo, troverete scritte con la vernice, chiodi ed improbabili piantoni, spit autoperforanti con placchette in alluminio, catene e cavi metallici: tuttavia tutti questi “infissi” hanno un sapore decisamente retrò che a tratti rende l’esplorazione “archeologicamente” interessante.

Per quanto sia definita una “palestra” ha delle caratteristiche intrinsiche piuttosto ragguardevoli: la qualità della roccia alterna pasaggi compattissimi a grossi blocchi coesi tra loro da concrezioni tutte da valutare. Quindi, finchè non fate l’occhio a ciò che va evitato, puntate “basso” con il grado se uscite delle linee battute. Tuttavia questo equilibrio tra gradi abbordabili in trad e qualità della roccia tutta da comprendere rendono quel posto una palestra in senso piacevolmente molto più ampio.

Mi hanno raccontato (ma non ho ancora avuto occasione di andare a vedere) che nella balza inferiore, dove la roccia è migliore, sono apparse scritte “no spit” in azzurro che indicano alcuni itinerari dove è possibile esercitarsi nell’arrampicata tradizionale. Concettualmente un contro senso ma, purtroppo, con l’invasione delle “riattrezzature” sono sempre meno i luoghi in cui è possibile imparare ed impratichirsi con l’arrampicata libera senza doversi confrontare con difficoltà e gradi sporporzionati per la propria esperienza. Purtroppo molti luoghi, come ad esempio l’Angelone, che offrivano tradizionalmente questa possibilità (e di cui mi hanno dato conferma gente come il Guero, Josef e molti altri) ora sono stati “santificati e sacrificati” all’arrampicata sportiva o vincolata, ossia l’arte di “salire vie protette da spit precedentemente piazzati”. Un approccio radicalmente diverso dall’arrampicata tradizionale o libera, intesa (in modo riduttivo e parziale) come l’arte di “salire vie protette da attrezzatura posizionata nelle strutture naturali offerte dalla roccia” (definizioni scopiazzate dal sito di Gogna).

Se nell’arrampicata sportiva “chiudere” un 6a significa sentirsi dare della schiappa da quelli che sgignazzano impiastrati di magnesite, nell’arrampicata tradizionale affrontare a vista un V+ “nudo e crudo” significa iniziare a viaggiare un po’ dove più ti pare. Se decidete di passare “dal virtuosismo all’avventura” fatelo però a piccoli passi, senza strafare: la soddisfazione è comunque garantita ed indipendente dalle difficoltà.

Appena ne avrò occasione andrò a controllare se queste voci sulle scritte in azzurro sono vere e se davvero il posto merita una visita accompagnati dalla vostra serie di “amici”. Purtroppo io e Mattia avevamo solo mezza giornata e per questo motivo la nostra è stata una toccata e fuga. Visto il poco tempo a disposizione abbiamo puntato direttamente alla parte alta attaccando la Mozzanica-Tagliabue. La via è un po’ a fittoni, un po’ a piantane, un po’ a catene, un po’ a chiodi: è un po’ di tutto, ma principalmente bella.

Nonostante le frecce arancioni omnipresenti abbiamo allegramente incappato in un paio di fuori via in buona misura gradevoli. La sosta del secondo tiro è stata emblematica nel comprendere quanto la via venga recentemente ripetuta: la catena, posto sotto un’alta e bella placca, ha raccolto la terra ed il fogliame caduto dall’alto tanto da diventare una specie di “vaso pensile” su cui è cresciuta, non certo quest’inverno, una simpatica pianticella. Così mimetizzata l’abbiamo trovata solo quando, rassegnati, abbiamo iniziato ad organizzarci una nostra sosta alternativa. La roccia della placca è strepitosa ma il passaggio finale, definito di quinto, richiede un paio di movimenti in aderenza tutt’altro che banali.

Alla fine non sono riuscito a trovare informazioni sulla storia del Pizzo Boga ma, attraverso il racconto di due alpinisti sicuramente emblematici, ho scoperto perchè Boga e Cassin smisero di arrampicare insieme. Un storia raccontata da Giorgio Spreafico attraverso un dialogo (forse immaginario) contenuto nel suo libro “Torre Egger: Solo Andata”. I nomi e la storia di questi due “ragazzi” sono indelebilmente impressi nelle montagne di Valmadrera. Sull’Isola Senza Nome c’è una loro foto, un immagine che mi ha sempre colpito e che fatico a comprendere pienamente: da queste parti è davvero difficile non incrociare la loro storia e persino un foresto del versante nord come me non può che sentirsi coinvolto. Riporto qui sotto il passaggio del libro in cui ci raccontano chi fosse Mario “Boga” Dell’oro da Civate.

Davide “Birillo” Valsecchi


Racconto tratto da “Torre Egger: Solo Andata” di  Giorgio Spreafico

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Paolo Crippa “Cipo” ed Eliana De Zordo durante una chiacchierata al Rifugio Coldai.
Cavò piuttosto da una piccola tasca del portafoglio di lui una vecchia foto in bianco e nero, con i bordi seghettati, e la guardò con sorpresa:
“E questo chi è?”
“E’ il Boga.”
“Il chi?”
“Il Boga: Mario dell’Oro, uno di Lecco. Uno che scalava e che andava come un missile.”
“Morto?”
“Morto. Saltato in aria nel casello delle polveri della Fiocchi, una fabbrica di munizioni”
“Gesù, che fine. E tu cosa c’entri, con lui?”
“Era un cugino di mia mamma.”
“Ah. Forte forte?”
“Ce n’erano pochi che gli stavano dietro ai suoi tempi, prima della guerra. E mica solo a Lecco.”
“Io dei vecchi lecchesi ho in mente soltanto Cassin.”
“Be’, allora ci sei. Il Boga è stato anche un socio di cordata di Cassin. Ma era un dio di suo, eh, un dio. E’ una storia lunga…”
“Rieccolo con le sue storie lunghe… Dài, che ormai sono curiosa.”
“Vabbè, quello che conta è che già loro venivano da queste parti. L’ultima salita insieme l’hanno fatta proprio qui in Civetta nel trenta e qualcosa, una prima ripetizione di non so più quale via. Cassin quella volta lì è volato e ha avuto la sfiga di cadere proprio nel momento in cui il Boga aveva mollato la corda, perché aveva freddo alle mani e se le stava sfregando. Uno volo della Madonna, roba che quasi il Riccardo ci resta. Oh, il Boga poi è riuscito a tenerlo, e per farcela, le mani se le è anche conciate da buttare via. Ma la frittata ormai era fatta, e forse poi loro due non si sono più fidati del tutto l’uno dall’altro. Sai com’è, succede.”
Eliana rivide Paolo seduto davanti a sé, lo rivide cominciare a rimettere le sue cose nello zaino e lasciare per ultima sul tavolo, con apparente noncuranza, la macchina fotografica. Quando la prese tra le mani, invece, all’improvviso Cipo gliela puntò, inquadrò e scattò.
“Senza flash? Verrà nera, non c’è abbastanza luce” disse lei distendendo le braccia sulla spalliera della panca. “Peccato, pellicola sciupata…”
“Senza flash. Tanto lo sai che per me vieni sempre bella…”
Cipo lasciò anche questa frase sospesa, sperando che Eli la concludesse in qualche modo. Ancora una volta lei non lo fece. Disse invece: “E com’è finita? La storia del Boga e di Cassin, dico”.
“E’ andata che pochi giorni dopo l’incidente loro facevano già la gara a chi apriva la salita più bella sempre qui, alla Torre Trieste. Con altri soci di cordata, e naturalmente tutti e due da primi. Risulato: un vione da una parte ed un vione dall’altra, uno sullo spigolo e uno in piena parete. Fenomeni, ecco cos’erano.”
“Fine della storia? Non era poi così lunga…”
“Fine della storia. Il Boga era il Boga, ecco, era della famiglia, era un grande e non ha avuto paura di andare per la sua strada. Un bell’esempio, no? E’ per quello che me lo porto dietro. C’è chi tiene poster di cantanti in camera e chi invece tiene foto di alpinisti nel portafoglio…”

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