Bucce d’Arancia per Topo Pazzo

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dscf6276Seduti al bar dietro ad una media TeoBrex e Josef mi danno il tormento, continuano a menarmela che andando con IvyBoy sto prendendo il vizio di arrampicare sull’erba, tra rovi e roccia marcia. Anche Gianni se la ride, visto dove continuo ad infilarmi, ormai è convinto che la “mastrufolata” sia la mia vera passione. Io provo a convincerli, senza risultati, che la Crestina Verde sarà un vero ed autentico spettacolo (anche se in scala ridotta). Poi, spazientito dal loro insistere, mi lancio in una proposta “Se volete davvero che mi allontani dalle mie cose dovete portarmi sul granito. Se volete menarmela con sta storia della roccia solida è con il granito che potrete convincermi: sul calcare sono affezionato alle mie piante…”. Detto fatto, Josef raccoglie la proposta: “Giovedì passo a prenderti a casa alle 6:30. Dove andiamo è una sorpresa!”

Josef è una mina vagante quando vuole, ero preoccupato di finire in Valle dell’Orco o sul Bianco (…sai le risate a trovarsi in ambiente a tirare di braccia senza saper usare bene i piedi!). Fortunatamente Josef è anche uno con le idee chiare: “Ci vuole un po’ di tempo per capire tipi di roccia diversa, bisogna prenderci confidenza prima di affrontare le difficoltà. Andiamo a Machaby: è Gneiss e non granito, ma vedrai che ti piacerà”. Onestamente ero un po’ dubbioso. Mattia c’era stato qualche settimana fa con il corso AR1: “Tutta quella strada per una salita affrontata da principianti?” Ma Josef era assolutamente sereno: ”Vedrai, oggi arrampichiamo al sole e ripetiamo una classica dei 100 nuovi mattini”.

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Eccoci quindi all’attacco di “Bucce d’Arancia”. Dal basso la osservo scettico, assomiglia alla placca di Onda d’Ombra con la differenza che qui è chiodata e non ci sono detriti. Quando però attacco i primi metri i miei riferimenti cambiano e le differenze oggettive cominciano a farsi evidenti. L’umidità del mattino non aiuta i miei piedi e le spalle sembrano preoccupate di come la partenza sia tutta sulla punta delle dita. Cerco di tenermi ben verticale e stretto alla roccia, così come arrampico sul calcare incerto, ma qui non si muove nulla e quel tipo di progressione, funzionale in altri ambiti, è ora oltremodo faticosa. “No, così non funziona, qui devi mollare gli ormeggi”. Curiosamente mi torna alla mente un filmato in bianco e nero di Comici sui rudimenti dell’arrampicata: “l’arrampicatore inesperto si muove in modo incerto”. Il barricentro si allontana dalla parete, i piedi si alzano, le posizione si fanno più ampie o più strette del solito. Le transizioni non possono essere lente e progressive, quasi al rallentatore, come faccio di solito: devo spingere cambiando posizione senza strappi ma rapidamente. Devi fidarti della roccia.

Più avanti due mondi a confronto. Alzo le mani su piccole tacce e sposto il peso su una delle due gambe in modo da potermi sollevare con uno “squat”: una gamba spinge verticale e l’altra controbilancia. Sul calcare con Ivan uso spesso questa tecnica, spingendo in modo graduale e continuo “ascoltando” se l’appoggio regge o molla di botto, pronto con le mani e con la gamba in appoggio a controbilanciare eventuali crolli. Un movimento apparentemente semplice ma in realtà abbastanza complesso, in cui tutto il corpo deve addattarsi ad un vettore di spinta costante e lineare su un singolo punto (precario). La corda del fachiro che si innalza su se stessa: un’ottima soluzione per sollevare i miei 84kg quando altre opzioni non sono disponibili. Curiosamente riuscivo a fare qualcosa di simile anche in appoggio sulle placche concatenando insieme più movimenti. A volte il calcare devi per forza spingerlo in un certo modo modo perchè non salti, curiosamente la stessa cosa mi sembrava avvenire con l’aderenza.

Se i primi tiri studiavo la qualità della roccia e la mia capacità di sfruttarla, nei tiri successivi studiavo come gli apritori erano riusciti a salire e a proteggere prima della moderna richiodatura. Josef all’imbrago aveva cinque rinvii e questo dovrebbe darvi l’idea della mole di spit che ignorava ad ogni tiro: tuttavia aveva percorso quella via già nel ‘87 (io avevo 11 anni all’epoca) quando la chiodatura originale non aveva più di due o tre chiodi per tiro. “Nella relazione del libro di Gogna erano riportati tutti i chiodi con una X lungo il tracciato della via …e erano davvero pochi!”. Nel diedro ad incastro cerco i segni di vecchi chiodi ma non trovo nulla: certo, avranno anche “mastrufolato” sull’erba interna al diedro ma di certo avevano un gran pelo nel passar su in quel modo. Per me che inseguo Josef con la corda dall’alto “Spit o Non Spit” non fa una gran differenza, tuttavia il trapano qui ha davvero coperto e cancellato un vivido e straordinario esempio di coraggio e capacità umana. Al mio livello, con la chiodatura originale sarebbe un ragguardevole vione tutt’altro che scontato nell’esito: ora è un capolavoro imbrattato di ketchup da fast food.

Tiro la sesta lunghezza ma quando mi volto vedo Josef che mi fa sicura sorridente con le braccia incrociate: meglio non dare troppe sicurezze ai miei vecchiacci e ripassare dietro! Con una corda da 80 metri gli ultimi tiri si fondono in una spettacolare cavalcata a corda libera che mi godo rimontando veloce una roccia sempre più amica e sempre meno impegnativa. Quando arrivo in cima trovo Josef a piedi nudi che mi fa sicura sorridente mentre strozza la corda su un ramo. Lo guardo divertito (e rassegnato) ripensando alle parole di Levanov il Greco: «Nell’alpinismo esiste una regola fondamentale che vale anche per gli aviatori, i trapezzisti e i soprammobili preziosi: non cadere.»

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Giunti al forte di Machaby per l’ora di pranzo ci abbuffiamo ingollando birra e maccheroni con pomodorini secchi ed acciughe: il sole coccola la nostra digestione e poi giù verso valle. Quando siamo alla macchina la luce inonda ancora la valle: “Ci facciamo un monotiro prima di andare?” Chiede Josef. “Certo, perchè no!”. Rispondo ingenuo io.

Ci spostiamo di poco con la macchina arrivando alla base di una grande torre.”Qui c’è scritto Topo Pazzo: 80 metri, 3 lunghezze” leggo su una targhetta. “Davvero? Tre tiri?” Mi risponde divertito Josef mentre inizia a salire. Io gli do corda sereno, poi possano i 30 metri, arrivano e vanno anche i segni neri della mezza corda, 45, 50, 60, 70… Josef non si ferma più: se prima ero preoccupato per i cinque rinvii ora lo sono perchè la corda sta per finire! “Davide! Bona!” Finalmente. Due medie in corpo ed una porzione abbondante di crema chantilly alle castagne e devo trascinarmi su per un monotiro di 80 metri: mai stato furbo in vita mia!

La roccia è un gruviera di buchi che si alternano a placche e spaccature. Visto che la corda è lasca e quasi libera posso arrampicare dove più mi piace spaziando tanto a destra quanto a sinistra, spesso incasinandomi inseguendo soluzioni facili!! Dopo sessanta metri filati inizio a sentire la fatica osservando come questa influenzi le mie scelte ed i miei movimenti: “Devi farne di strada Birillo se vuoi vedere come è grande il mondo!” Mormoro tra me e me.

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Finalmente arrivo in cima alla torre. Il sole ha superato le montagne, siamo in ombra e si è alzato un venticello più freddo che fresco. Il buon Birillo sarà anche un paracarro però arrampica sempre con lo zaino d’ordinanza: del sacco appaiono un paio di caldi Gilet in pile. Tre doppie e siamo nuovamente alla base della torre pronti per la prossima tappa al bar. Al caldo dietro un piatto di affettati chiamo Bruna chiedendole della visita specialistica con “l’ortopedico delle ballerine della Scala”. Fortunatamente le notizie sono buone: nonostante la fisioterapia fatta fin qui sia stata piuttosto discutibile (per non dire assolutamente inefficace) non c’è nulla di preoccupante o irrimediable nel suo ditone. Ora con il giusto trattamento per fine anno la bergamasca dovrebbe essere nuovamente abile ed arruolabile! “Bene, facciamo surf tra le difficoltà e gli squali, ma direi che non ce la caviamo male…” Ingollo la mia birra felice per una giornata di sole su roccia solida.

Davide “Birillo” Valsecchi

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