Aldo, Giorgio e Marco

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Accompagnato dall’influenza sono mestamente rientrato dalla Carnia ed ora, mentre gli altri “bambini” giocano con la neve ed il ghiaccio armati di piccozza e ramponi, mi aggiro in pigiama dietro alle vetrate con aria sommessa ed una papalina di lana in testa. Così, per infierire oltre su me stesso, mi sono messo a sistemare e scartabellare la riviste della Biblioteca. Poi mi sono imbattuto in qualcosa che mi distolto da ogni malanno e che mi ha spinto in un viaggio fatto di scoperta ed affettuosa malinconia: un viaggio che inizia con un brivido freddo, quasi disorientante, ma che con lo scorrere delle parole diventa sempre più caldo, confortante, consolante.

In un ”Alp” del Marzo 1993 ho trovato un’ intervista di Alberto Benini, noto storico e scrittore dell’alpinismo lecchese, realizzata ad Aldo, Giorgio e Marco Anghileri. L’incipit d’apertura dell’articolo è una vecchia foto in bianco e nero dove Aldo tiene in braccio i suoi allora giovanissimi figli: chi conosce la straordinaria, ma anche terribile storia, degli Anghileri può ben capire come quell’immagine ti inchiodi all’improvviso davanti alla freddezza della sorte.

Quando ho conosciuto Marco (una solitaria e buia mattina di luglio in cima alla Grignetta senza sapere neppure chi fosse) suo fratello Giorgio era purtroppo scomparso da tempo: travolto in bicicletta dal destino quando solo aveva 27 anni. Ne avevo sempre e solo sentito parlare, ma non avevo quasi idea di cosa avesse fatto o di chi fosse. Ora anche Marco è scomparso, travolto nel 2014 sul pilone Centrale del Monte Bianco. Trovarli “insieme” in quest’intervista del 1993, quando avevano ancora 23 e 21 anni, è qualcosa di coinvolgente, capace di spazzare la tristezza lasciando spazio libero all’entusiasmo che li ha sempre contraddistinti.

Per questo motivo ho voluto trascrivere l’articolo: per coloro che li hanno conosciuti entrambi spero possa essere un bel ricordo, forse triste ma piacevole, per tutti gli altri una loro preziosa testimonianza da conservare. 

D.”B”.V.

La Famiglia Anghileri riunita attorno alla montagna
Alberto Benini – Alp Marzo 1993

In un libro giustamente considerato una pietra miliare per la storia dell’alpinismo, cioè “Due e un Ottomila” di Reinhold Messner, è pubblicata una fotografia di un uomo con due bambini sulle ginocchia. Quell’uomo è Aldo Anghileri (Aldino) e i due bambini, destinati a diventare da lì a quindici anni qualcosa di più di due promesse dell’alpinismo italiano, sono Giorgio e Marco, i suoi figli. Caso significativo perché quelle pagine sono arricchite da larghi stralci del diario che Aldino teneva in quei giorni critici in cui la spedizione del Lothse 1975, l’ultima grande spedizione nazionale italiana, era inchiodata al campo base dall’inclemenza del tempo , oltre che dalle oggettive difficoltà della parete. I fatti sono in gran parte noti e sono già stati oggetto di interminabili discussioni a quei tempi. Ma torniamo a quell’immagine in bianco e nero: il giovane uomo con gli occhiali è allora uno degli esponenti più significativi dell’alpinismo italiano. E’ autore di imprese di notevole spessore tecnico che gli hanno meritato il titolo di accademico e la partecipazione alla spedizione fortemente voluta da Cassin e dall’allora presidente del CAI, Sen. Giovanni Spagnolli, che per prima si ripromette di affrontare la parete sud del colosso himalayano. La spedizione, sarà bene specificarlo ad uso dei più giovani, allineava, oltre al capo spedizione Cassin, Gogna, Arcari, Barbacetto, Leviti, Curnis, Piussi, Gugiatti, Lorenzi e i “lecchesi” Conti, Giuseppe e Gigi Alippi, Anghileri, con Messner a fare da uomo di punta.

Spedizione nazionale del CAI al Lhotse, 1975: da sin., Gigi Alippi, Sereno Barbacetto, Riccardo Cassin, Franco Gugiatti, Aldo Leviti, Ignazio Piussi, Reinhold Messner, Alessandro Gogna, Fausto Lorenzi, Mario Curnis. In ginocchio: Giuseppe Det Alippi, Mario Conti, Gianni Arcari

La posizione di Anghileri è atipica: si trova alla cerniera fra il gruppo dei “lecchesi”, cui è legato sia per ragioni territoriali che per la comune appartenenza ai Ragni e quello dei più innovatori Gogna e Messner, coi quali divide la tenda. E’ in quella tenda che Aldino matura la decisione di abbandonare la spedizione, episodio che gli suscitò contro i fulmini del patrio alpinismo, con un gesto che denuncia in modo ancora non completamente chiaro, ma irrevocabile, la crisi di un certo modo di fare alpinismo. Di lì a qualche mese Messner e Habeler saliranno un ottomila in cordata a due, mettendo in pratica un discorso che era riecceggiato più volte in quella tenda. Ma perchè non si pensi che Anghileri sia solamente l’uomo del “gran rifiuto” ripercorriamo in breve la carriera di questo alpinista che da un lato incarna assai bene la figura dell’alpinista lecchese, da un altro se ne discosta per aver sovente fatto cordata con personaggi che non provengono da questo ambiente: Gogna, Piussi, Pellegrinon.

L’attenzione su di lui inizia nell’estate del 1964 quando (in 4 ore e mezza) percorre in solitaria la via Cassin al Badile, sulle orme di quello che con Bonatti e Mauri considera l’ispiratore del suo alpinismo: Herman Buhl. L’anno precedente, a soli 17 anni, con Bepi Pellegrinon aveva salito in inverno la cima Mugoni nel Gruppo del Catinaccio; nell’inverno del 1964 con Pino Negri (figura di grande rilievo anche se poco nota fuori Lecco) , Ermenegildo Arcelli e Andrea Cattaneo gli riesci la Cassin-Ratti alla Torre Trieste, cui seguirà l’anno dopo la prima invernale allo spigolo del Badile ancora con Pino Negri e Casimiro Ferrari. Lasciato l’alpinismo invernale (a cui farà un significativo rientro nel 1974 con il Pic Gugliermina) si dedica dal 1967 all’apertura, sempre con uno spirito molto aperto e moderno, di nuove vie.

Fra di esse spicca proprio nel’67 lo spigolo nord-ovest della Cima Su Alto, di cui Livanos (citato da Gogna) dice: “Di fronte a noi, lo spaventoso profilo dello spigolo illuminato dalla luna piomba nell’ombra nera. – Dì un po’, ti vedi su un affare del genere? – Ci stavo proprio pensando, e mi dava il mal di mare solo a guardarlo! – Che si tratti di una via del futuro, quando la nostra Su Alto costituirà solamente un itinerario di allenamento per mediocri salitori?” Aggiunge Gogna “Piussi, Molin, Anghileri, Panzeri e Cariboni fecero un capolavoro, perchè limitarono davvero l’uso dei mezzi: la loro fu un’impresa bella ed innovatrice”

Nel 1968 è il Gran Capucin a vederlo all’opera con Carlo Mauri, Cariboni, Ferrari e Negri per tracciare sulla parete est la Via dei Ragni. Nel 1972 con Gogna e Ravà lo spigolo nord-est della Brenta Alta e con gli stessi e Lanfranchi, la sud della Terza Pala di San Lucano. Nel 1973 Con Meles e Fumagalli, la sud della Busazza, una via dedicata al suo amico Ninotta Locatelli, mancato da poco. Come si può vedere non molte, ma molto significative le sue firme, cui s’aggiunge una serie impressionante di ripetizioni di cui vi risparmio l’elenco.

I due “bambini” della antica fotografia si direbbero oggi, con un’espressione tra l’antiquato e lo scherzoso, due “baldi giovanotti”: Giorgio (classe 1970) e Marco (classe 1972). Se per Marco, convertito solo da due anni alla montagna, dopo un’intensa attività calcistica, il curriculum si sbriga velocemente con la prima invernale della via del Pilone Centrale alla Cima Su Alto (inverno 1992) e il solito elenco di ripetizioni di alto livello, per Giorgio il discorso si fa lunghetto. Nel 1989 con Milani e Panzeri (il figlio di Ernesto, vecchio compagno di Aldino) le invernali al Diedro Casarotto allo Spiz del Lagunaz e l’Anghileri-Meles-Fumagali in Busazza. Dopo qualche altra ripetizione di prestigio, fra cui spicca la solitaria alla Anghileri-Gogna-Ravà alla Brenta Alta, arriva nell’estate del 1991 il “mese terribile”: BreackDance in Medale, Cavallo Pazzo al Sasso Cavallo, Via Paolo Fabbri 43 in Val di Mello e Anghileri-Piussi-Cariboni-Panzeri alla Su Alto: tutte in solitaria! Poi un gesto bello ed elegante dedicato a un amico morto in un incidente d’auto: l’apertura con Manuele Panzeri, della via Luca sulla Quanta Pala di San Lucanao: 500 metricon parecchio 7+ e un po’ di A3, tutto rigorosamente con chiodi normali.

Il colloquio si svolge nell’ufficio di Aldino, nella sede della ditta di importazione di materiale alpinistico, di cui è proprietario e della quale si occupa con la collaborazione dei figli.

>Giorgio, che senso ha per te il rifiuto dello spit in montagna?
Giorgio: «Qualche spit ho provato a metterlo ma in montagna non sento più l’avventura se li uso. Allora li lascio direttamente a casa perchè una volta che li hai con te sai che puoi usarli. Il salto in avanti lo si è fatto col Pesce di Koller, un salto paragonabile a quelli attuati da Rebitsch e Messner. Intendiamoci io non voglio far polemica, faccio così ma rispetto chi si comporta in modo diverso. Per me il Pesce è un punto di riferimento obbligato… una filosofia»

>Aldino, cos’era il vostro Pesce?
Aldino: «Mah, negli anni ‘60 – però ragazzi che cambiamento! – potevano essere la Vinatzer o la Soldà, forse le tre direttissime della Lavareto (Francesi, Tedeschi, Scogliattoli) oppure la Lacedelli-Ghedina che ho fatto l’estate che l’ha ripetuta Messner. Però quando ho fatto la Eisenstecken alla Rodadi Vaèl (era una via che ci tenevi a fare, ma andavi là in segreto perchè non si sapesse di un eventuale fallimento) in 8 ore con Galiber, l’abbiamo trovata dura, ma capivamo che avevamo ancora margine. Poi è arrivato Messner con le sue solitarie e s’è capito che lui stava iniziando qualcosa di più»
Marco: «Oggi queste nuove vie “fuori di testa” di Knez in Lavaredo o alla Scottoni sono valutate intorno al 9° – e con chiodi normali, ma il salto grande l’ha fatto Koller che ha guadagnato la placconata dove ora sale il Pesce: niente fessure, niente diedri e ha comunque deciso di salire lì. E ti giuro che dal sotto fa davvero paura.»
Giorgio: «E’ come quando Messner ha dimostrato che gli 8.000 si potevano fare senza bombole: la grande innovazione è quella»

>Aldo, tu fra i lecchesi sei stato uno dei pochissimi che ha cercato dei contatti negli ambienti esterni, come mai?
Aldino: «In effetti io, che sono nato nel 1946 (stessa annata di gente di gran classe, uno per tutti Reinhard Karl, anche se un po’ alla volta stiamo andando alla malora..) ho iniziato con Mario Burini (un accademico legato agli ambienti lecchesi) e con Casimiro Ferrari e Ninotta Locatelli, che forse era il più aperto… ammetto che il Casimiro, che era un po’ più vecchio di me, l’ho sempre un po’ subìto… in effetti gli alpinisti non lecchesi mi davano di più. Allora facevo il meccanico, non ancora il rappresentante e l’alpinismo era il modo per girare e conoscere amici. Nel 1964 incontrari Barbier e lo invitai al campeggio dei Ragni: lui si faceva una solitaria al giorno: Aste, Detassis… in sei giorni sei solitarie. La sera scendeva in paese a vedere se era arrivato un suo amico. Al campeggio al suo arrivo avvertii una “non serenità”. Eppure questi campeggi in qualche caso, prendi quello in Cecoslovacchia nel 1967, sono stati fonte di buone aperture»

>E voi giovani non sentite l’esigenza di contatti?
Marco: «Sì! Oggi sono un po’ pochi, forse scontiamo una certa facilità di viaggiare che porta un po’ di impermeabilità agli ambienti esterni. Danilo Valsecchi di recente ha proposto di promuovere gli scambi o gli incontri fra ragazzi di diverse città o nazioni».
Aldino: «Vedi, una volta il campeggio serviva a “girare”, oggi serve per stare in compagnia, una volta era l’unica occasione nell’anno per vedere posti nuovi, oggi fa piacere ritrovarsi con gli amici. Comunque per tornare ai contatti, nell’ambiente palpavi una certa invidia quando dicevi che avevi fatto una salita con Pelligrinon, Dal Bosco o Gogna»

>E l’ambiente lecchese come lo vivete?
Giorgio: «Mah, più che l’ambiente direi gli amici, al Cai non ci sono molti giovani. Ai Gamma siamo una bella compagnia, ma a Lecco andare in montagna è piuttosto normale»
Marco: «In piazza la sera capita di parlare, di confrontare esperienze, ma gran parte dei giovani sono più tentati dall’arrampicata sportiva che dalla montagna»
Aldino: «Fa piacere leggere dei propri figli sul Giornale di Lecco. Mi ricordo che un alpinista lecchese quasi trent’anni fa quando gli chiesero informazioni per fare un pezzo sulla sua salita invernale chiese “Ma ci sarà da pagare?”. Si era più ingenui allora, giravano meno notizie: ricoro che quando la spedizione del McKinley (1961) fece ritorno in città Cassin e compagni furono portati in trionfo su una Jeep con banda e fiaccoalta.»

>E la storia del Lothse?
Aldino: «Eravamo là in 14 e 15 avevano dubbi. Su questi dubbi al campobase di discuteva. Io facevo parte di una generazione sicuramente un po’ confusionaria. Dubbi e difficoltà furoni ingigantiti dal brutto tempo e dalle slavine che colpirono la spedizione. Io invece di aspettare al campo che il Lothse s’abbassasse o diventasse più facile, decisi che quello non era l’alpinismo che faceva per me. Dissero “Perchè sei andato se non eri sicuro di saper soffrire?” Cosa ne sapevo io? Era un’occasione, una via che molti sognavano di fare; un occasione così capitava ogni 10 anni. Bisognava andare. Ma intendiamoci: nel bene e nel male questa esperienza mi accompagna ancora oggi. Mi ha arricchito in maniera davvero considerevole. Forse questi “giovinastri” che progettano per l’anno venturo una spedizione in stile moderno a un prestigioso obbiettivo himlayano, forse soffriranno meno.»

>Senti Giorgio, spiegami questa storia delle solitarie che hai compiuto lo scorso anno
Giorgio: «L’estate scorsa stavo bene, ero caricato, avevo arrampicato tre o quattro giorni di fila e mi andava di provare qualcosa di più, qualcosa di diverso. Ho provato con BreakDance, poi con Cavallo Pazzo e a qual punto ero pronto per la Su Alto»
Marco: «Era davvero caricatissimo; eravamo lì in quattro per fare la Ratti-Vitali e lui mi fa “Io faccio lo spigolo! Ciao” e via»
Giorgio: «Dopo però ho fatto l’Eiger con Lorenzo Mazzoleni e poi più niente. Non è obbligatorio andare sempre. Per me è bello anche andare a camminare.»

>E tu, Marco, raccontaci dei tuoi inizi
Marco: «E’ solo due o tre anni che vado, anche se è qualche cosa con loro l’avevo già fatta. Una domenica sono andato in compagnia a camminare, quella dopo a fare una ferrata, da lì mi è scoppiata la passione ed eccomi qui»

>Dorme la notte un padre con due figli così?
Aldino: «Sìì, diciamo che dorme meglio quando magari alle due di notte arriva la telefonata che dice “Tutto bene”»

>Ma per il futuro cosa vedete? E che programmi avete? Marco sta sul vago, ma giurerei che ha in mente qualcosa…
Giorgio: «Quest’estate mi piacerebbe dedicarmi un po’ di più al ghiaccio, alle pareti nord. Fare delle vie di misto. Dopo tutta la roccia dell’anno scorso non vorrei specializzarmi troppo.»

>Ne approfitto per rilanciare: c’è qualcosa che su ghiaccio costituisca un punto di riferimento paragonabile al Pesce?
Giorgio: «Le tre nord, Le Droites, per i canalini percosi dalle vie moderne c’è un problema di condizioni»
Marco: «Per il discorso degli orizzonti futuri io vedrei non tanto una via, quanto la capacità di muoversi bene su qualsiasi terreno, magari da solo, inventandoti l’itinerario lì per lì.»

>In un attimo ci ritroviamo davanti le foto del Bianco appese nell’ufficio. Le dita seguono linee immaginarie: “su da questo sperone, girare, traversare… pensa in Himalaya… ma evoluzione è anche “divertirsi”.
Aldino: «Pensate ai concatenamenti. Quando Floriano Castelnuovo e Danilo Valsecchi infilarono Cengalo, Punta Sertori, giù dallo spigolo del Badile per finire con la nord-est: erano parecchi anni fa. Poi la stampa ha fatto dei concatenamenti cose per star, ma ce ne sono dal 3° all’8° grado, alla ricerca della “giornata vissuta lungamente”, il modo migliore per compenetrarsi con la montagna. Forse si potrebbe quasi smetterla di parlare di alpinismo, per sostituire il termine con “andare in montagna”, insomma, sentirsi a proprio agio in montagna. Sabato sono andato dal rifugio Bietti al Sasso Cavallo: non c’era un anima in giro e pensavo a Finale sarà pieno, in chissà quanti altri posti sarà pieno e qui nessuno. Poi domenica ho fotto la Oppio con loro e ho visto per la prima volta 30 persone al Sasso Cavallo. Merito o colpa dell’articolo su Alp. Malgrado tutto manca la fantasia. E scusa, ma già che sono lasciami spezzare una lancia in favore del vecchio chiodo, sai per noi a Lecco il fascino del ferro: sulla Oppio ne mancano un po’ e spererei che qualche giovane ne piantasse qualcuno. Lo sai che bel rumore fa un chiodo che entra bene? Ci sono certi chiodi di Oppio e Cassin che ancora oggi danno più affidamento di certi spit di 10 anni fa»

>Anche Marco e Giorgio annuiscono, anche se per loro la libera ha sempre quel qualcosa in più. Ma Aldino, alla fine, che cosa ti ha dato la montagna?
Aldino: «Mi ha fatto godere le mie fortune per dieci quindici anni, ma soprattutto mi ha insegnato che cos’è bello. Ti faccio un esempio: una volta tutti buttavano via le lattine, poi s’è capito che non si doveva fare, non si doveva sporcare in giro. Per noi è stata una conquista capirlo, e adesso che vedo a lecco le aiuole sporche e la scuola dove sono andato da bambino che sembra un rudere capisco che la montagna mi ha aperto gli occhi. Poi mi ha aiutato ad educare i miei figli, anche se non li ho mai costretti a venire con me. A questo proposito sarebbe bello creare a Lecco una scuola quasi permanente di montagna, che potrebbe essere un punto di riferimento anche per qui giovani che si trovano “a zero” come interessi, come iniziative»

Il colloquio in pratica finisce qui. Mentre mi avvio alla porta, accompagnato da Aldino, c’è ancora il tempo per un’ultima battuta «Lo sai cosa dico a quei due lì quando in estate alle cinque con ancora un mucchio di roba da fare? Andate, andate il mio “8a” adesso io me lo faccio qui»

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