Nordend: Buzzati e Zapparoli

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Nelle limpide giornate d’inverno, salendo sulle cime innevate dei Corni di Canzo, ci si trova davanti l’immenso spettacolo della parete Est del Monte Rosa: la più alta delle Alpi e l’unica con caratteristiche Himalayane. Questa foto, scattata qualche anno fa, mi è tornata alla mente rileggendo su internet “I Falliti” di Gian Piero Motti. In un passaggio infatti cita Dino Buzzati ed un suo articolo dedicato a Ettore Zapparoli. Così incuriosito, mi sono messo a cercare quest’articolo riuscendo a trovarlo. Come mi capita spesso ho iniziato a trascriverlo mentre lo studiavo con attenzione: la storia di Zapparoli mi ha inevitabilmente riportato con lo sguardo verso il gigante che troneggia ad Ovest dell’Isola senza Nome, il centro del mio piccolo mondo.

Dino Buzzati: Ettore Zapparoli

Benché io non sia mai stato là, lo vedo uscire dal rifugio Marinelli alla luce della luna e allontanarsi attraverso le rocce e poi sulla fosforescente neve, tric tric si ode il suono ritmico della sua picozza sulle pietre, tric tric e sempre più lontano e poi silenzio, lontano la sua sagoma scura tra i ghiacci, dritta, viva, fin troppo romantica, con la eleganza rigorosa di chi parte per l’eternità. (Era stato da me pochi giorni prima. Mi aveva detto di essere rimasto due giorni bloccato dal maltempo nel rifugio Resegotti. «E che cosa facevi?» Rise. «Niente, ascoltavo la musica del vento che fischiava contro i tiranti di metallo… come violini, suumm, suumm, facevano… Wagner, ricordi?»)

Così lo vedo farsi via via più piccolo e vago nel pallore della notte. Ma a questo punto, per quanto io sforzi la immaginazione, non riesco a vederlo scomparire. E’ sempre là che manovra con la picca, e un passo dopo l’altro, si addentra nello sterminato labirinto con attaccata la sua sottile ombre sghemba rovesciata in già lungo lo sdrucciolo. E’ separato ormai senza remissione da noi, dalle calde stanze, dagli amici seduti in circolo la sera, dalle lampadine accese sui legii dei principeschi pianoforti neri. Di là della frontiera, irraggiungibile, che non si volta neanche se urliamo, e mai si ferma. Eppure, per quanto egli si allontani spaventosamente, io continuo a vederlo là, solo, che lotta in mezzo ai ruderi fantomatici delle sue vitree cattedrali.

E benché io non ci sia stato, vedo pure la grande parete est del Monte Rosa, suo regno, non bella nel solito senso del vocabolo, bensì consegnata in un disordine selvaggio, scena sconvolta di sfatte rupi, tragiche macerie di ghiacci scaraventate giù, canali fradici che si intersecano tra i massi pericolanti, disgregazione delle cose, dove egli scorgeva le architetture della poesia, navate, cripte, pilastri, statue di moloc, giardini pensili, nicchie, colombari, cortiletti, capriate, cupole, zampe di leone, scalee, veneri bianche addormentate. Ma dovrebbe esserci qui lui a spiegarcelo, con i suoi stupefacenti paragoni.

Un uomo di ormai cinquant’anni se va incontro alla sorte, senza compagni, senza che nessuno lo sappia, come un ragazzo che fugga da casa. E’ un musicista, uno scrittore. Dicono che da giovane, quando scendeva dalle cime, sembrasse un biondo arcangelo. Qualcosa di vagamente angelico, di candido, è rimasto. Alto, asciutto, la bella faccia forte e buona, una eleganza naturale di stile britannico, si può dire ancora un giovanotto. Ma giovanotto fino a quando? Stupiva in Ettore Zapparoli quella freschezza continua di speranze e di progetti, come se la vita dovesse sempre cominciare. In questo senso era veramente giovanissimo.

Come artista non era mai stato fortunato. Un suo balletto, Enrosadira, aveva raggiunto la porta della Scala, era già stato annunciato in cartellone. Poi erano venute già le bombe, non se n’era più parlato. Ma proprio quella sua natura aperta all’avvenire compensava in certo modo la sfortuna. Con tutte quelle idee, quell’entusiasmo, per forza avrebbe dovuto fare strada. Gli accadeva però di incontrare gli amici della stessa età che avevano ormai posizioni solide, collaudata fama, moglie, figli già al liceo, segretaria, villa, automobile. Mentre lui si trovava quasi alla partenza; ed era solo. Ma, dolcissimo di animo, incapace di invida, gentiluomo per istinto, non se ne crucciava affato; o per lo meno dissimulava la tristezza con un pudore straordinario. Lo consideravamo l’«Artista», il fuori regola, il bohémien, un Peter Pan adulto, un personaggio ottocentesco nato col ritardo di un secolo. Di qui un impossibilità di innestarsi nella così detta vita. Di qui anche una dispersione del talento in troppi diversi tentativi. Con lui la gente stava con gioia perché era una persona geniale, schietta, umana, e parlava della musica e della montagna come nessuno, con straordinarie immagine, aggettivi, onomatopee, incantevoli nel loro barocchismo perché assolutamente sincere e originali. Ma soprattutto bisognava che narrasse le sue scalate solitarie, i bivacchi sopra i tremila, le tempeste; qui era il meglio di lui, le parole per quanto insolite e bizzarre suonavano di assoluta verità; e infatti nei suoi romanzi Blu Nord e Il silenzio ha le mani aperte, le parti più bello sono quelle di montagna.

Gli amici gli volevano bene ma poi, dopo la lunga chiacchierata, ciascuno se ne tornava ai fatti suoi e alla sua casa. E Zapparoli l’artista, il bohémien, andava solo per le vie deserte, rimuginando le speranze del domani. Sì, il meglio doveva ancora cominciare. Ma cinquant’anni son tanti. E viene il giorno in cui all’improvviso si misura la strada che rimane: ieri sembrava senza fine; ahimè come si è fatta corta, e stretta, e malagevole, e intorno non più foreste e ninfe ma cespugli secchi e all’orizzonte il polverone della steppa. Viene il giorno in cui l’animo giovane non basta perché la pelle si rattrappisce un poco, sulla faccia dell’arcangelo si scavano le rughe e intorno incalza una torma di ragazzi famelici mai visti. E allora nasce il dubbio che la grande storia, la quale doveva cominciare, non comincerà più, e che il tempo buono sia finito.

Ma gli restava la montagna. Molto più degli uomini la montagna era stata buona con lui; lassù Zapparoli aveva trovato gioie autentiche e perfino un riverbero di gloria. Ed egli le era grato, la avvicinava con rispetto e amore, non la attaccava a vanvera, ma dopo lunghi studi e tentativi; e si allenava con commovente scrupolo, al punto da fare in primavera lunghe camminate con il sacco carico di pietre. Certo, senza una buona investitura di fortuna, nessuno sarebbe mai riuscito a fare imprese come le sue, giochi di azzardo temerari su per orrendi pareteoni in isfacelo mitragliati da sassi e slavine.

A questo punto, mentre scrivo, vengono i rimorsi; di non essere stato più gentile con lui l’ultima volta che è venuto a trovarmi in redazione, di avergli detto crudelmente che un suo certo racconto non andava, di non aver avuto più umiltà e pazienza con lui che ne aveva tanta, di non aver saputo capirlo meglio quando per dignità taceva ciò che lo rodeva dentro, di scriver qui oggi cose che a lui dispiaceranno. Sono tuttavia sicuro che, mansueto e indulgente com’era, se egli fosse qui e leggesse queste righe – e chi può escluderlo? che ne sappiamo in fondo noi? – lui sorriderebbe, giurandoci che tutto è vero anche se non lo è, per non farci dispiacere.

Un uomo di cinquant’anni che comincia a sentire il peso della vita esce dunque di notte dal rifugio, e va incontro all’avventura. Sotto la grande lune, la parete grandeggia tra trasognate risonanze di crolli lontani. L’artista sfortunato e stanco torna all’unica creatura che, dopo il padre e la madre, sia stata buona con lui. Può darsi che poco fa, al rifugio, prima di partire, sdraiato in cuccetta, egli abbia a lungo fantasticato sullo squallido domani. Forse egli si vide non più giovanotto, non più Peter Pan, ma ormai esile vecchietto, senza più i genitori ch’erano le sue raduci, con tutto o quasi da cominciare ancora, solo, per le piovose strade di Milano, nel più sconsolato avvilimento, e le montagne distanti, inaccessibili. Forse si vide girare di qua e di là offrendo i suoi lavori letterari o musicali che probabilmente avevano bisogno di tempi più agevoli e quieti, proclivi all’arte, di gente raffinata; o battere alle perote dei giornali, degli editori, dei teatri, dei vecchi amici che hanno altro per la testa, degli amici distratti ed egoisti come me. Forse intravide questo malinconico tramonto di un pomeriggio che non c’era neanche stato. E intanto il frastuono di un mondo avido e straniero che non sapeva che farsene di lui.

La montagna sarebbe stata generosa anche stavolta? Sebbene a dirlo sembri infame, io mi domando se le grande parete non sia stata buona veramente. «Zapparoli, Zapparoli!» Noi gridiamo, facendo portavoce delle mani, ai ghiacciai che non rispondono; «Zapparoli, perchè non torni?». Ma in fondo, non siamo degli ipocriti? Che avremmo da offrirgli, se tornasse? Così invece egli è rimasto intatto, preservato nella sua sagoma di arcangelo, tratto via in una specie di trionfo, mentre il vento, le pietre, le nevi, le acque, i ghiacci suonano le sinfonie che’egli avrebbe voluto scrivere. E io lo vedo ancora là, che manovra con la picca, tremendamente sprovveduto e solo, piccolissimo, un bambino, nell’immensità misteriosa del santuario.

Dino Buzzati
Pubblicazione originale “Corriere della Sera”, 1° Settembre 1951
Ripubblicato poi in “I fuorilegge della montagna. Cime, uomini, imprese.

L’Accademico Ettore Zapparoli scomparve sulla Est del Rosa il 18 Agosto 1951, probabilmente travolto da una scarica di ghiaccio. Aveva 51 anni, essendo nato a mantova il 21 novembre 1899. La sua fine ebbe larga eco sui giornali, che dedicarono alla sua figura quello spazzo che le avevano spesso negato in vita. […] Zapparoli si è sempre cimentato da solo e su una parete, la Est del Rosa, che si caratterizza per il grande sviluppo (1500-2000m) e per i notevolissimi pericoli oggettivi. L’alpinismo di Zapparoli è alpinismo estremo nel senso moderno del termine, altrimenti non si comprende che cosi significhi cercare la via su un parete immensa come la Est del Rosa, battuta da ciclopiche scariche di ghiaccio che obbligano ad affrontare pendii di ghiaccio vivo a 70° percorsi continuamente da slavine di neve inconsistente. Per affrontare una via di questo genere (in solitaria) è necessaria una fortissima fiducia nelle proprie risorse fisiche e psicologiche, cioè una buona riserva di quello che una volta si chiamava “ardimento” e che è sempre stato una componente dell’alpinismo.  […] L’alpinismo è per lui soprattutto una forma di ampliamento della coscienza ed uno strumento di conoscenza estetica.  

«Ettore Zapparoli: alpinismo come musica» di Ledo Stefanini – Annuario CAAI 1991

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