Dentro l’Occhio del Ciclope

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Viviamo in un’epoca di avventure take-away, di emozioni in porzione singola. Bruna, la mia “attuale prima moglie”, dice che sono prigioniero dei miei archetipi. Da brava terapista cerca di analizzarmi senza comprendere che io non vivo in un mondo tutto mio: no, io sono “quel mondo”. I miei archetipi non mi vincolano, anzi, portati all’eccesso sono lo strumento con cui poter raggiungere un po’ di libertà in una realtà di costrizioni e limiti.

Già, ma la parola archetipo è interessante, complessa. Oggi, sul blog di Gogna, era riportato uno scritto del 1986 in cui Bonatti tira ballo Messner, Kukuczka e Cesarotto sul senso dell’alpinismo e dell’avventura. Si bisticciano tra loro senza accorgersi che sono stati proprio loro ad aver creato l’archetipo moderno, ed ormai antico, dell’alpinismo: il mito, la leggenda insuperabile. Si sono scontrati con i draghi più grossi e li hanno sconfitti, tutti. Non ne hanno lasciato neanche uno vivo. Oggi la maggior parte degli alpinisti di punta sono buffe caricature che gareggiano tra loro in duelli senza senso: chi la finisce prima, chi piscia più lontano, chi fa la stronzata più fotogenica o commercializzabile.

Siamo una generazione di sconfitti in un mondo di apparenze dove ogni gloria è già stata conquistata. Per questo molti di noi vagano raminghi, druidi tra le rovine di un tempo che fu, trovatori e cercatori che sembrano primitivi archeologi in cerca degli sbiaditi segni del mito.

Così l’avventura è forse tornata agli albori, ai gesti di sconsiderata generosità e coraggio vissuti nel silenzio di luoghi senza ormai più interesse, dimenticati. L’avventura abbandona l’oggettività della vittoria, del trionfo, dell’impresa per calarsi nella soggettività del pericolo, della difficoltà, dell’ignoto. Vincere quando si è forti è facile: essere scarsi e provare a non perdere, questa è la vera avventura!

Con questi pensieri mi sono messo in marcia: la grande parete del San Martino e l’occhio del Ciclope erano un’inutile mistero che doveva ancora essere risolto. Facendo qualche ricerca, dopo il mio primo sopralluogo, avevo scoperto che negli anni 80 una guida alpina aveva tracciato una ferrata per portare i propri clienti a visitare l’occhio. Viste le difficoltà del luogo, e la grande frana che aveva colpito la parete, tutto era stato inghiottito dal tempo. Non avevo idea di dove attaccasse questa ferrata ed andando a naso ero riuscito ad individuare la catena nella parte più esposta della salita. Purtroppo ero sul lato sbagliato di una valle verticale. Ero tentato di dare il giro alla valle e tentare sull’altro lato ma, tutto sommato, il mio avvicinamento sembrava ancora il più logico e sicuro: ci si alzava risalendo un comodo bosco e solo un traverso, tutto da valutare, separava dal muro verticale che porta alla cengia sovrastante. Il traverso, per quanto esposto ed invaso dai rovi, era una scelta difficile ma abbastanza certa. Così, ritrovandomi nuovamente su quella cengia più adatta alle bestie che agli uomini, ho tentato il lungo traverso.

Quaranta metri di giardinaggio verticale sopra uno strapiombo mi hanno consegnato sull’altro lato della valletta. Un viaggio impegnativo e soddisfacente quanto inutile: un cavo metallico, quasi inghiottito dalla vegetazione, rimonta infatti il lato destro della valle fino all’attacco del muro. Tuttavia non ero pentito della mia scelta che, nella sua genuina ignoranza, mi aveva portato esattamente dove volevo arrivare. Ora, teoricamente, non restava che affrontare il muro: l’unica soluzione possibile era purtroppo la vecchia catena ed il cavo metallico che gli correva accanto. Gli spit, su cui era frazionata la catena, erano di quelli autoperforanti piantati a mano. Avevano di certo i loro anni e di certo qualche buona sassata l’avevano presa. C’erano dei fittoni, alcuni in metallo, altri realizzati con vecchie punte del trapano. Non era uno scenario rassicurante visto l’esposizione e la verticalità del passaggio.

Prendo fiato e parto. Cerco di usare al meglio possibile i piedi per non pesare troppo sulla catena ma è davvero difficile: se salta anche solo uno spit riesco a tenere la sbandierata? Ho trenta metri di corda nello zaino ma anche una lounge da mezzo metro avrebbe fatto comodo. Rimonto e finalmente raggiungo l’albero a cui è fissata la catena. Il cuore batte forte, ma ormai il più è fatto… forse. Davanti a me l’occhio è trincerato dietro una cengia verticale, una pietraia sdrucciolevole invasa da una foresta di rovi: un inferno!

Da bambino, dopo l’asilo, avevo visto la bella addormentata nel piccolo cinema teatro di Canzo. Il pezzo più bello, ovviamente, era quello in cui il principe azzurro si lanciava con la sua spada attraverso i rovi affrontando il drago. Certo, poi baciava la principessa e partiva quella cosa noiosa  del “vissero per sempre felici e contenti”. Tuttavia, la settimana successiva, il principe azzurro avrebbe affrontato un’altra avventura, salvando e baciando un’altra principessa. Che dire, forse a quarantun’anni sono ancora questi gli archetipi che sanno consolarti quando ti trovi sovrastato da un labirinto di rovi.

Se i rovi sono una vera rogna, arrampicare sui sassi ostacolato dai rovi è un’odissea. Dopo mezz’ora avevo guadagnato solo una trentina di metri ed avevo speso letteralmente sangue e sudore per riuscirci. Non sapevo più in quale buco infilarmi ed ero sempre più stanco e coperto di tagli. L’idea di abbandonare si faceva sempre più pressante: “Se vai avanti così non ne hai più per scendere”Stavo per girare i tacchi sconfitto quando tra le spine ho intravisto un tronco, lungo poco più di mezzo metro e con diametro di una spanna. L’ho estratto dalle spire dei rovi ed ho iniziato ad usarlo come se fossi un naufrago nelle sabbie mobili. Lo lanciavo in avanti perchè schiacciasse i rovi e, a due mani, mi ci issavo sopra. Riaffondavo con le gambe tra i rovi e lo lanciavo nuovamente in avanti prima di issarmici sopra di nuovo. Una faccenda dannatamente faticosa ma funzionale!

Finalmente eccomi dentro l’occhio: che posto strano! All’improvviso i rovi scompaiono lasciando spazio solo a roccia arida e giallastra: si è al centro di una specie di forno solare e fa un caldo terribile. La volta è molto alta ed al centro dell’occhio c’è una specie di acquasantiera/terrazzo in cui cresce una grossa pianta nutrita dal costante stillicidio. Vorrei raggiungere la pianta ma dovrei arrampicare uno sperone di una quindicina di metri. La consistenza della roccia è strana e poco rassicurante: si sbriciola. Mi alzo sul lato destro della grotta ma desisto dall’idea di raggiungerne il centro e l’albero: “Birillo, c’è il viaggio di ritorno attraverso rovolandia: vediamo di concentrarci sul portare a casa la pelle ora…”. Così studio una linea che sul lato destro scenda attraverso le piante e gli spazi rocciosi lasciati liberi dai rovi. Ne scendo buona parte in libera ma comincio a sentirmi stanco ed il bordo della cengia è sempre più vicino: se scivolo e rotolo c’è buona possibilità di tuffarsi nel vuoto. Ad ogni passo i piedi sprofondano nei sassi e mantengo l’equilibrio attaccandomi dove posso. Cerco di ritrovare dall’alto il punto d’uscita della catena ma è nascosto dalla vegetazione. L’opprimente sensazione di essere in un pericoloso labirinto si fa più pungente delle spine dei rovi. Mi impongo di muovermi e pensare lentamente, ma la mente vorrebbe cavarsi in fretta. Tiro fuori dallo zaino la corda da trenta metri e la giro attorno ad una pianta per sfruttare un salto verticale privo di rovi. Piano piano mi calo a mano e, con circospezione, raggiungo finalmente la catena.

Pausa. Tiro fiato e mi impongo di riposare. Poi afferro la catena e comincio a scendere nel vuoto. Punto i piedi, lavoro d’impegno ma sono appeso, appeso a della ferraglia abbandonata tra i sassi ed i rovi. Arrivo alla base del muro con il fiato corto ed i respiri ritmati. Ansia! Mi obbligo a riposare ancora un attimo e poi comincio a seguire il cavo metallico. Più mi abbasso nella valle e più appare evidente come dall’alto sia una costante scarica di sassi. Il cavo qua e là è pestato, molto pestato, ed un paio di spit sono saltati lasciando il cavo lasco e quasi inutile. Sono attaccato a dei vecchi rottami metallici:  tutto sommato il mio traverso, logico e selvatico, sarebbe stata ancora la scelta migliore e forse più sicura!!!

Quando sono di nuovo ai piedi della valle mi riparo dietro uno sperone di roccia. Mi siedo e finalmente mi concedo un fiato d’acqua dallo zaino. Le braccia sono rosse di sangue, piene di tagli ma nessuno profondo: ho un sacco di piccoli buchi e tutti gocciolano coagulandosi. La tensione si allenta e per un attimo osservo le mani tremare: “Bella la vita quando ci si diverte!”. Mi guardo intorno, i problemi dovrebbero essere finiti e da qui dovrei poter raggiungere la falesia della Pala del San Martino. Non ci sono mai stato ma me ne hanno parlato: è una falesia a spit, sportiva, di sicuro c’è un sentiero comodo per arrivarci. Tra i sassi trovo il cranio di un piccolo animale: ad un primo sguardo sembrerebbe quello di un gatto (ai piedi del San Martino c’è un gattile) ma probabilmente è di qualche carnivoro più piccolo, una faina o qualcosa di simile. Lo infilo nello zaino: oggi è il compleanno del mio nipotino, regalo fatto!

Più rilassato studio il bosco e scopro che la Pala del San Martino è in realtà un grosso “sasso” appoggiato alla parete del San Martino tanto da formare una bella grotta passante e luminosa alle sue spalle. Inevitabilmente mi ci infilo e curioso un po’ quel strano scorcio ipogeo. Ho voglia di tornare a casa ma prima intendo dare un occhiata al grande camino della frana ed all’attacco della via Savini: famosa per le sue “soste a croce” e per il suo passaggio sotto un’ampio e caratteristico tetto. Rimonto quindi i sassi ammassi della frana fino ai piedi della parete: nel centro del grande crollo ci sono due infinite corde fisse che, in assenza di frazionamenti stretti, sembrano posizionate calandosi dall’alto (quindi più di trecento metri di corda stesa). Non sembra una faccenda da arrampicata, il tocco è più speleo o da disgaggiatore: probabilmente la parete viene, o veniva, monitorata. 

Per arrivare all’attacco della via Savini c’è una vecchia e marcia corda fissa, oppure un lungo giro tra rocce ed alberi. L’idea di ravanare ancora solo per vedere il primo fittone di una via non mi conquista: “Passo! L’attacco lo vediamo quando si torna a fare la via!”. Scatto qualche foto, mi godo per un istante il caldo del sole d’inverno ed i riflessi del lago: “Birillo, chi cerca trova, adesso però  andiamo a casa che è ora di pranzo: la tua avventura take-away finisce qui”.

Davide “Birillo” Valsecchi

Ps: ero così preso nel capire come affrontare il muro attrezzato che, salvo lo scatto alla punta del trapano, mi sono completamente dimenticato  (o disinteressato) di fotografare il passaggio. Incredibile… sto invecchiando! (cmq non è posto in cui infilarsi…)

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