La Nord del San Vittore

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Forse il mio è tutto un pretesto, qualcosa che non ha nulla a che fare con l’arrampicata o l’alpinismo: il disperato tentativo di scoprire se questo mondo è ancora in grado di custodire segreti, grandi o piccoli, che valga la pena svelare, per cui valga la pena sognare. Forse è per questo che più un posto è rognoso e dimenticato più sembra affascinarmi.

Risalgo lungo il sentiero dei Pizzetti, la mia prima tappa è il Rifugio Piazza e poi la Val Verde.  Ho imboccato la variante a sinistra, quella lungo il canale scoperta qualche giorno fa: è un po’ più impegnativa, decisamente meno frequentata. Ignorando le catene è anche molto più arrampicabile e godibile. “Jesus don´t want me for a sunbeam. Sunbeams are never made like me” Fischietto una canzone dei Nirvana che ormai ha quasi venticinque anni. Kurt Kobain si sparò in bocca con un fucile giusto sei mesi dopo averla cantata: insomma, bene ma non benissimo.

Mi sento a pezzi: ieri sera sono stato agli allenamenti di Karate-do e poi dritto dritto al Consiglio del CAI. Ho i muscoli vuoti ed una violenta fame latente. L’ultimo pasto è stata una pizza ai wurstel a pranzo del giorno prima ed ora sono in piedi a tazze di caffè e gallette di crusca d’avena, roba di Bruna, su cui ho spalmato un ignota marmellata di fichi trovata in dispensa. Una parte di me vorrebbe mollare il colpo e fiondarsi con i piedi sotto il tavolo di qualche trattoria. Un’altra parte di me invece è più possibilista: “Andiamo solo fino all’attacco del canale, facciamo un sopralluogo e torniamo indietro: solo una passeggiata”. Tuttavia c’è una parte di me che non parla mai, che si limita ad agire: ecco, quella è la parte che mi preoccupa.

Supero il rifugio Piazza e mi inoltro lungo il sentiero della Val Verde: il piano è semplice, ma la zona è complessa. Dal Belvedere del Pradello tempo fa avevo infatti visto delle grandi pareti che, nascosti nel cuore del Coltignone, si innalzavano dalle valli sottostanti restando sempre in ombra. In particolare la grande parete più a sud che potremmo considerare la Nord del San Vittore o del Regismondo.

Quindi dovevo solo capire quale fosse il lungo canale che si innalzava verso la cresta.Tuttavia, quando ci sei dentro, la faccenda non è così scontata come potrebbe apparire da lontano: tutta quella zona è un susseguirsi di parete e quinte rocciose che si alternano ed intersecano confondendo ogni geometria e prospettiva. Ci sono tre grandi canali di cui ancora conosco poco e nulla. Uno di loro ha un nome, “valle della farina”, e risale verso il Torrione Diaz, uno è quello che sto cercando e l’ultimo è un grande canale che però va a morire contro una grande parete senza raggiungere la cresta. Il sole però schiaccia roccia e paglione confondendo i bordi e trasformando le creste in un unica parete compatta.

Perdermi andando a caso non sarebbe una buona prospettiva ma la fortuna sembra venirmi incontro. In pratica è quasi impossibile sbagliare canale: è enorme!! Il sentiero della Val del Verde lo attraversa abbassandosi lungo i suoi lati grazie a delle catene fisse. Mi aspettavo una valle dal fondo roccioso (ed ostioso) ed invece è un ghiaione molto ampio stretto tra due pareti verticali. Completamente in ombra è decisamente più freddo di quanto mi aspettassi: mi infilo un maglione ed inizio a curiosare.

Il ghiaione è piuttosto inquietante, nulla che non abbia mai affrontato ma decisamente più soffocante. Si muove praticamente ogni cosa e ci sono grossi sassi “pestati” un po’ ovunque. Mi ricorda il Canale Masciadri sul versante Nord del Moregallo, solo più grande, più verticale e più cupo. Risalgo a quattro gambe cercando di “non scuotere troppo la montagna”,  dall’ alto appare un camoscio che, vedendomi, lascia il canale inerpicandosi per la parete erbosa che porta alla cresta di sinistra: “Mancava giusto un cornuto a mollar giù sassi in ‘sto casino!”

Non sono molto sicuro di quello che sto facendo, continuo ad avanzare solo per raggiungere il successivo punto di osservazione e scoprire come prosegue il canale. Tuttavia, in mezzo a quella ghiaia, ormai ho macinato un bel dislivello, decisamente più di quello che spetterebbe ad una semplice “occhiata di sopralluogo all’attacco del canale”. Nello zaino ho una statica da 30 metri e qualche fettuccia, ma non era nei piani cercare di risalire il canale ed uscire in cresta. L’idea di tornare indietro però non mi alletta, c’è la possibilità che qualche sasso smosso si affezioni e decida di rincorrermi mentre scendo. Così proseguo verso l’alto.

Un grosso masso sbarra il lato sinistro del canale. Sulla destra, in mezzo ad un marcione di erba e piante, probabilmente si riesce a passare ma decido di andare sul pulito e vedere se si riesce a rimontare lo sbarramento arrampicando. Un grosso masso di calcare su cui da migliaia di anni rotolano migliaia di altri sassi più piccoli ha la tendenza ad essere piuttosto levigato e privo di appigli: attaccato ad una piccola presa, lavoro di piedi riuscendo ad alzarmi senza precipitare rovinosamente verso il basso (che è tipo un pensiero fisso). Con una certa sorpresa ad una decina di metri sopra l’uscita del passaggio trovo legata ad una pianta una fettuccia blu: una calata.

Trovare una traccia umana da quelle parti è una buona ma anche una cattiva notizia. Avevano piazzato una calata, abbandonando una fettuccia: cosa stavano facendo? Era saliti come me ed erano stati costretti a ritirarsi? Il canale chiude prima della fine? Lo stavano scendendo dall’alto? Si erano calati attraverso vari salti ed erano giunti fin lì dall’alto? Perchè tagliare una fettuccia anzichè usare un cordino? Avevano finito il materiale? Perchè si erano calati e non avevano optato per il passaggio, ostioso, tra le piante? Erano venuti ad arrampicare qui da qualche parte ed avevano deciso di calarsi perchè carichi di materiale per la salita? Chi erano, cosa facevano, quale era la loro storia? In posti come questo ci si infilano solo Faraoni e Power Rangers, purtroppo quelli che battono queste zone spesso sono decisamente molto più forti di me: se si sono calati loro cosa c’è più avanti? Chiude? Cosa li ha respinti?

Il dilemma dei canali è sempre quello: se chiude e non si esce sei nei guai. Quindi il problema con cui devi convivere è il peso dell’ignoto. Puoi continuare a salire, salire e salire ma se ti imbatti in un’ostacolo prima dell’uscita hai due possibilità: tornare indietro o tentare il passaggio. Tornare indietro non è scontato, ci sono un sacco di difficoltà e pericoli che comunque vanno affrontati e controllati. Se invece decidi di affrontare il passaggio ci sono solo due possibilità: passi o piombi di sotto. Se passi è festa grande, ma se piombi di sotto la faccenda si fa spessa. Se non ci hai lasciato la pelle o stai soffocando nel tuo sangue, ti aspetta una battaglia per la sopravvivenza in stile Joe Simpson il cui esito non è certo scontato. Scendere il canale dopo esserti rotto qualcosa, anche solo una caviglia, è una piccola guerra da vincere. Sono solo, in un buio freddo, stretto tra due pareti cupe e spaventose: “Vabbè, andiamo avanti ancora un po’…”

Così continuo, cercando di capire se il canale chiude o meno. Mi alzo ancora, ormai a quattro zampe, cercando di guadagnare un nuovo punto di osservazione. Kurt Cobain continua a cantare nella mia testa mentre attorno a me è solo silenzio e sassi che rotolano: “Birillo, io per ammazzarmi ho fatto molta meno fatica” “Stai zitto Kurt, non parlare con la bocca piena!”

Rimonto un’altro grosso sasso cercando di guardare più lontano possibile, ma ancora non riesco a capire quale sia il finale della storia. La prospettiva comincia ad ingannarmi e la percezione delle distanze non più troppo affidabile. Sopra di me ad ottanta, forse cento metri (presunti) vedo un grosso masso scuro, forse in quel punto il canale si abbatte, ed alle sue spalle c’è una muro di roccia mista ad erba. Non capisco se quello sia il fondo o se il canale compia una esse a girare prima di proseguire. Sono combattuto: cento metri a salire e, se non si passa, cento metri in più a scendere. Sempre che tu non decida per qualche scelta stupida una volta lassù.

“Senti Birillo, se il canale esce possiamo scoprirlo anche dall’alto. La prossima volta facciamo il giro ed andiamo a vedere. Se però saliamo adesso e non si passa rischiamo fare un bel casino. Sei ben oltre i margini operativi della missione che ti sei dato. Doveva essere un sopralluogo, non puoi fare il presuntuoso e puntare risalire il canale al primo colpo, senza ancora sapere nulla di questa zona. Scendere è una rogna ma con calma, finché abbiamo benzina, ce la caviamo”. I pensieri sono i peggiori compagni d’avventura, soprattutto perchè tocca dargli sempre ragione.

Giro i tacchi e piano piano inizio a scendere. Il canale è un mondo instabile di sassi di tutte le misure. Alle volte affondo in un passo sicuro, altre volte tutto intorno a me inizia a muoversi e qualcosa persino a rotolare. Devo scegliere con attenzione le mie linee, alcuni sassi si muovono a scoppio ritardato e si mettono a rincorrerti. I più pericolosi sono quelli grossi, ma non per la ragione più ovvia. Alcuni di loro sono solidi e sono piacevoli isole su cui transitare ed aggrapparsi, altre invece sono delle trappole. Quando con il piede davanti ci poggi il peso cominciano a scivolare verso il basso, lentamente, i sassi più piccoli alle sue spalle sono come risucchiati dal movimento di quello più grosso e la tua gamba dietro inizia a sprofondare tra i ciotoli mentre cerchi di mantenerti in equilibrio. Più il grosso sasso scivola in avanti e più tu affondi: se il “livello” supera il ginocchio inizia ad essere catapultato in avanti dal peso e dalla morsa di quell’esercito di piccoli sassi in rincorsa. Ovviamente avere una gamba stritolata tra sassi in movimento è da considerasi “male, decisamente non buono”. Quindi essere letti e leggeri così come reattivi e rapidi diventa piuttosto importante da quelle parti.

Quando raggiungo la fettuccia azzurra devo affrontare un problema che, volutamente avevo accantonato in un angolo della mente: quelli avevano una o due corde per lo meno da 50 per arrivare a terra oltre l’ostacolo, la mia corda da 30 di certo non basta per una doppia. L’idea di abbandonare la mia corda è da escludere e così mi infilo nel ravano tra gli alberi sulla destra: “alla peggio attrezzo un paio di mezze calate tra le piante!” In realtà il passaggio si rivela molto meno complicato del previsto e le tracce del passaggio dei camosci mi indicano la soluzione più semplice. Strano che quelli della fettuccia non l’avessero vista: chi erano, cosa stavano facendo qui?

Manca un centinaio di metri e finalmente sarò di nuovo sul sentiero. Inizio a sentirmi più leggero anche se non posso ancora rilassarmi. Mi guardo in giro e trovo una zampa di camoscio che spunta tra i sassi. Qua e là altri “pezzi” del selvatico sparsi in trenta metri di ghiaia: “Questo giusto per tenere a mente che i professionisti sbagliano  alle volte!”

Il sentiero attraversa il canale nel suo punto più debole, oltre, verso valle, il canale compie una serie di agghiaccianti salti verticali prima di lanciarsi giù verso il lago. Mi siedo in un cantuccio riparato. Prendo un goccio d’acqua dallo zaino e delle fette di mela essiccata: “Dannazione Birillo, che fame!”

Davide “Birillo” Valsecchi

‘fuck you all, this is the last song of the evening’ – Kurt Cobain

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