Onda Immobile

Onda Immobile

«La Cassin non sbuca in vetta, ma esce sulla destra seguendo una cengetta, prima della quale ci si slega. Parto io, mi segue Diego, chiude il Beppe. Subito sento un rumore sordo, una botta attutita. Mi giro: siamo in due, il Beppe non c’é. Scendiamo a rompicollo. Dico a Diego di andare da Zaccheo per dare l’allarme mentre io perlustro il ghiaione al piede della Medale. Lo trovo quasi subito. Giuseppe Verderio, classe 1944, da allora riposa nel cimitero di Vimercate.» Dicono che l’alpinismo sia “la conquista dell’inutile”, io con il tempo avevo iniziato a credere fosse un modo garbato di dire “inutile conquista”. Per quasi un decennio ho ritenuto che l’arrampicata fosse qualcosa di futile e pretestuoso: “Perchè passare dove la roccia è verticale quando puoi andare in cima passando dai prati dell’altra parte?”. L’uomo aveva raggiunto la Luna, conquistato tutti gli ottomila: c’era stato un “compressore”, poi le bombole d’ossigeno, poi elicotteri ed i trapani a batteria. L’alpinismo e l’arrampicata erano morti e sepolti, trasformati in una caricatura buona giusto per le “reclam” degli orologi senza limiti o dell’acqua gasata in bottiglia di plastica. Non era qualcosa che meritasse più la mia attenzione. Poi mia madre morì ed ogni mia certezza vacillò di colpo: dopo due furiosi anni spesi in giro per il modo, mi ritrovai ancora inquieto e senza scopo sotto le grandi pareti dei Corni, davanti alla grande Onda del Corno Orientale. Tra i tre (a volte quattro) è quello più basso, quello la cui cima si raggiunge “in piano”, quello che nasconde la propria grandezza tra le ombre. Là, su quella roccia verticale, mi raccontavano ci fosse una via dedicata a mio nonno, che morì tra la braccia di mia madre adolescente, in un giorno d’inverno, mentre camminavano insieme tra la neve in montagna. Non arrampicavo più da oltre dieci anni, da quando ero tornato dal Pakistan: la mia era un’idea senza senso, ma avrei provato a riempire il vuoto e placare la rabbia salendo quelle pareti dimenticate da tutti. Fu così che scoprii la storia di Giuseppe e Giancarlo. “Le leggi che governano le formiche governano anche le stelle”. La gravità è una di queste leggi: una forza capace di muovere i pianeti, catturare la luce, distorcere il tempo. Nella buia solitudine del Corno Orientale la gravità si allea con la parte più buia del proprio spirito, quell’infinita tristezza che senza sosta cerca di trascinarci verso il basso. Lassù, tra quella roccia che sembra un mare agitato, la gravità ci spinge al limite, stravolge le percezioni, tanto dello spazio quanto del tempo. All’improvviso, sotto la Grande Onda, il mondo verticale appare orizzontale, guardare in alto significa semplicemente guardare in avanti. Sotto la Grande Onda ogni certezza si affievolisce fino a scomparire: “In fisica con il termine onda si indica una perturbazione che nasce da una sorgente e si propaga nel tempo e nello spazio, trasportando energia o quantità di moto senza comportare un associato spostamento della materia”. La sorgente di quell’onda immobile si trova dentro di noi? Lassù la gravità ti trascina da dietro verso il basso mentre davanti a te la Grande Onda sembra precipitarti addosso: quando finalmente raggiungi la vetta, dopo interminabili ed incerte ore appeso, hai il “mal di terra”, ti sdrai sul prato cercando di riallineare le tue percezioni ed il tuo equilibrio prima di ricominciare finalmente a camminare come un essere umano. Disteso finalmente ti abbandoni esausto alla gravità lasciando che ora sia l’intera grande parete a sostenerti, a darti equilibrio. Per un istante sei finalmente senza peso: la gravità e la grande onda ti hanno travolto, colpito e saggiato. Con la loro forza hanno trascinato verso il basso tutto ciò che non era più parte di te. Dolore, rimpianti e tristezza sono precipitati nel vuoto, per un istante sei nuovamente libero ed accanto a te, in quel mondo nuovo, ti sono di ancora vicine le persone che hai portato con te, oltre la gravità, oltre la grande Onda. «Scarpe? Roccia? Finché si ha bisogno di scarpe e di roccia per salire, non si conosce nulla di quest’arte. Il vero arrampicatore non ha bisogno di artifici, nemmeno di roccia». Se Giancarlo non avesse raccontato la sua storia, sua e di Giuseppe, forse oggi, come molti altri, sarei ingenuamente convinto che l’arrampicata abbia solo lo scopo di salire sulla roccia. Sotto la grande Onda si compiono grandi “viaggi”, tra questi la Verderio resterà probabilmente uno dei viaggi più leggendari, probabilmente irripetuto ed irripetibile, nella tradizione dell’Isola Senza Nome. Grazie.

«Ha ripreso a nevischiare. Foto ricordo. Siamo soli. La via dedicata alla memoria di Giuseppe Verderio adesso è davvero finita. E’ il nostro ultimo legame terrestre. Il nostro piccolo monumento.»

Davide “Birillo” Valsecchi

50° Via G.Verderio –  ARRAMPICARE AI CORNI: TUTTE LE PUNTATE

Beppe e Giancarlo

Beppe e Giancarlo

La prima guida all’arrampicata dei Corni, di cui ho notizia, fu scritta da Giorgio Tessari e Gian Maria Mandelli nel 1979. Un volume piccolo, quasi tascabile, denso di relazioni, foto in bianco e nero, schizzi delle vie disegnati a mano: “Valmadrera: montagne ed itinerari alpinistici”. La prima ristampa, con aggiornamento, fu pubblicata nel 1996. Due volumi preziosi ed ancora oggi molto validi. Tuttavia ciò che per me ha davvero spalancato un mondo è stata la terza guida, “L’isola Senza Nome: storie di uomini e montagne, dal Moregallo ai Corni di Canzo fino al Cornizzolo” pubblicata nel 2005. Probabilmente quel libro ha influito sulla mia vita come pochissimi altri. Tornato dall’Africa ne trovai una copia mentre curiosavo in biblioteca e, da allora, l’ho sfogliato migliaia di volte. Sebbene sia ormai un libro introvabile ne ho posseduto ben due copie. Anche se, purtroppo, ora solo una. La prima infatti la diedi anni fa, in una sera d’inverno, ad un celebre e giovane alpinista erbese: da allora non ci siamo più rivolti parola. Certo, nella vita non si può mai sapere, ma temo che non rivedrò mai quella mia vecchia copia. Tuttavia Ivan Guerini mi ha fatto dono della sua copia, ricevuta con tanto di dedica da Gianni Mandelli, ed in qualche modo l’equilibrio ha ritrovato la sua strada. La grande differenza di questo libro rispetto alle due guide che l’hanno preceduto è chiara fin dal titolo: “L’isola Senza Nome”, un luogo ben preciso – “dal Moregallo ai Corni di Canzo fino al Cornizzolo” – che in realtà non esiste, non ha nome, e che in qualche modo è isolato, distante, unico e disgiunto da tutto il resto. Un libro che non è una semplice guida all’arrampicata ma la raccolta di “storie di uomini e montagne”. Fino ad allora tutti mi avevano sconsigliato di arrampicare lassù, raccontandomi che erano vie brutte, pericolose, con vetuste soste tenute insieme con il filo di ferro:”Rischi solo di farti male o lasciarci la pelle!!”. Grazie a questo libro quelle vie restavano “terribili” – e tuttoggi io credo lo siano – ma acquisivano una storia, una profondità umana che mai avrei immaginato. In quel libro si poteva ripercorrere un secolo di arrampicata scoprendo, con incredibile sorpresa, momenti di straordinario coraggio ed intensa passione. Per me, che ero ventenne a cavallo degli anni 90, l’arrampicata si era trasformata nello “sport” con cui far pubblicità agli orologi “che spaccano il secondo”, mentre all’alpinismo era toccata la pubblicità dell’acqua gasata “purissima” in bottiglie di plastica. Niente che avesse in qualche modo a che fare con il mio viaggio in Pakistan o con la montagna che mi aveva insegnato mio padre, niente che potesse attrarre lo slancio della mia gioventù. Ma in quel libro, in quell’isola ribelle, vi era un mondo nuovo ed allo stesso tempo antico, un mondo intenso, brutale, spaventoso ma capade di scintillare su quella roccia lucida circondata dal verde, un mondo intriso di un’umanità travolgente, capace di brillare nel buio dell’incertezza, capace di accomunare ed unire le generazioni attraverso un secolo di tradizione: “storie di uomini e montagne”. Non potevo che restarne attratto, non potevo che desiderare farne parte.

Una di queste storie è stata scritta da Giancarlo Mauri e ripercorre le vicende che lo portarono all’apertura della via “Giuseppe Verderio” al Corno Orientale. Aperta il 2-3 e 9 Novembre del 1969 da Giancarlo Mauri e Diego Pellacini in ricordo dell’amico “Beppe” caduto il 2 marzo di quello stesso anno dalla vetta del Medale. Quest’anno ricorre il 50° anniversario dei fatti narrati in quella storia: “Arrampicare ai Corni”. Confesso che sono state tante le cose “strane” che mi sono capitate lassù ed oggi, anche più della prima volta, trovo speciale il racconto di Giancarlo. C’è qualcosa di trascendentale su queste montagne, qualcosa che spinge a guardare in faccia i propri sogni e le proprie paure. Nel silenzio di quelle pareti aleggiano fantasmi e spiriti che sussurrano le verità che non vogliamo ascoltare, i ricordi che non vogliamo lasciarci sfuggire.

Giancarlo Mauri ha pubblicato alcuni dei suoi scritti sul web e quindi, nelle ricorrenze di questo cinquantesimo, vorrei riportarne qualcuno anche qui:

50° Via G.Verderio –  ARRAMPICARE AI CORNI: TUTTE LE PUNTATE

Kora del Moregallo

Kora del Moregallo

“Hey capo dove andiamo questo sabato?” Nicola, da quando Bruna è di nuovo incinta, è diventato la mia guardia del corpo e mi accompagna ormai da mesi a “batter passi” in montagna. Io e lui andiamo d’accordo e Bruna è più tranquilla perchè, quando sono con lui, evito di infilarmi volontariamente nei guai. “Senti Niky, ti andrebbe di fare un giro al Moregallo? Niente di complicato, ma sento il bisogno di fare due passi lassù”.

Negli ultimi dieci giorni la naturale solitudine del Moregallo è stata scossa dall’inquietudine. Ora che è tornata la quiete, ora che è di nuovo silenzio, volevo salirci per riflettere con calma: lo scorso Lunedì, a metà Ottobre, un ragazzo nativo di Trieste si è avventurato sul versante Orientale, purtroppo senza fare più ritorno. Quando sono iniziate le ricerche non ho potuto ignorare la cosa. I tecnici del Soccorso Alpino del Triangolo Lariano, impegnati in quelle zone tanto impervie e difficili, sono miei amici, spesso da decenni. Conosco quei luoghi ed parte i parte dei suoi segreti come pochi altri: negli anni ho raccolto foto, rilievi ed informazioni che era prioritario condividere con i soccorsi. Esplorando le scelte di una persona finisci per conoscerla: più cose scoprivo su questo ragazzo, più sentivo crescere l’affinità nei suoi confronti. Per questo, nonostante io sia un “civile”, ho avuto la possibilità di collaborare nell’imponente attività di ricerca – probabilmente senza precedenti sul Moregallo – condotta dal Soccorso Alpino, dai Vigili del Fuoco e dalla Guardia di Finanza. Certamente non è questo il momento o lo spazio per scendere nei dettagli, ma non posso che provare rispetto per questo ragazzo ed il suo romantico proposito di realizzare una nuova linea di salita in quel versante quasi inesplorato. Allo stesso modo non posso che esprimere stima e gratitudine a tutti i tecnici che hanno permesso di ritrovare questo ragazzo, di ricostruire, per quanto possibile, la difficile e tragica salita che con coraggio aveva intrapreso. Una storia importante, che andrà compresa e ricordata. Ma, come ho già detto, non è questo il momento o il luogo.

«Il mare non fa mai doni, se non duri colpi, e, qualche volta, un’occasione di sentirsi forti. Ora io non so molto del mare, ma so che qui è così. E quanto importi nella vita, non già di esser forti, ma di sentirsi forti, di essersi misurati almeno una volta, di essersi trovati almeno una volta nella condizione umana più antica, soli davanti alla pietra cieca e sorda, senza altri aiuti che le proprie mani e la propria testa.» Primo Levi – Carne dell’orso

Nel 2015, nel canalone che si innalza tra le due gallerie, è stata ritrovata una lapide infissa sulla base della parete che si impenna sul versante sud di quell inquietante canale. La lapide commemora due ventenni, uno originario di Trieste ed uno di Udine, che il 23 Settembre del 1931 persero la vita tentando la salita di quella parete che, a distanza di quasi 90 anni, resta tutt’oggi inviolata. Per la maggior parte degli “indigeni” il Moregallo è una montagna che “non piace”, tuttavia credo che i Friulani provino un’istintiva ed irresistibile attrazione per quelle pareti inviolate, spesso buie e coperte di vegetazione, che precipitano nell’azzurro del lago. Forse non è un caso che l’alpinismo del territorio lecchese, blasonato oggi nel mondo, abbia avuto origine soprattutto grazie all’intraprendenza ed allo slancio verso l’ignoto di un giovane ragazzo friulano. Un ragazzo di nome Riccardo che si era trasferito qui giovanissimo, proprio in cerca di lavoro.

Il Moregallo, nei suoi 1200 metri di altitudine, è una montagna forse piccola ma labirintica, selvaggia e ribelle nei suoi mille metri pieni di prominenza sul livello del lago. La sua natura cambia, senza mai addolcirsi troppo, nei suoi tre versanti. Quello a Sud è soleggiato, il bosco lambisce torri, pilastri, guglie e creste che raramente si innalzano oltre i cinquanta metri ma che sono quasi sempre verticali quando non strapiombanti. Questo versante è quello relativamente più antropizzato, l’unico dei tre che offre numerosi sentieri d’accesso adatti anche agli escursionisti. E’ qui che si innalza la famosa Cresta GG.OSA, aerea linea di roccia su cui si sviluppa l’omonima e celebre via d’arrampicata. Il lato Nord è invece caratterizzato dalla buia Valle Inferno che, con le sue forre, si abbatte verso il lago. Un luogo in cui i sentieri sono scarsi, quasi mai segnati. Una valle frequentata per lo più da esperti di Canyoning e che concede poco o nessuno spazio all’escursionismo. Il Versante Orientale è invece la “frontiera”, probabilmente uno dei luoghi più misteriosi, sconosciuti ed ostili sia del Triangolo Lariano sia del Lecchese. Uno spazio che si estende per oltre quattro chilometri di costa innalzandosi per mille metri, uno spazio ampissimo che offre un solo ed unico sentiero ufficiale in grado di raggiungere la vetta dal lago: il 50°OSA. Oltre a questo sentiero solo due tracciati – storici, impervi, dimenticati e pericolosi – solcano il versante: il Sentiero del Costone ed il Sentiero della Teleferica. Il resto è un labirinto di canali e grandi pareti circondate da prati verticali ed affioramenti rocciosi. La Parete Nord, la Parete del Tempo Perduto, il Corno di Braga, lo Scoglio dei Giardini di Maggio: strutture imponenti, spesso tenebrose, su cui sono state tracciate temibili e temute vie d’arrampicata. Ma nonostante l’esplorazione ci sono ancora pareti, spesso impressionanti, che non hanno nè un nome nè vie. Pareti che richiedono significativo sforzo alpinistico solo per per poterne raggiungere la base. Esistono cenge e terrazzi in cui nessuno ha mai messo piede, e forse nessuno giungerà mai. Questo è il versante in cui il ragazzo di Trieste ha tentato la sua salita.

«Non importa quanto stretta sia la porta, quanto impietosa sia la vita. Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima.» Invictus – William Ernest Henley.

Il Moregallo inizia appena oltre il mio cancello di casa. Nei miei ricordi si affollano gli istanti di intensa ed incerta solitudine vissuti in quegli sconfinati spazi verticali. Spazi in cui alpinismo ed arrampicata perdono importanza, spazi in cui tutto si riduce ad un cuore che respira in un labirinto verde a strapiombo sull’azzurro del lago. Oggi, oggi che sono diventato padre, non ho più la forza mentale o la volontà necessaria per sostenere da solo tali difficoltà o incertezze. Una strana commozione, quasi  nostalgica, permea il ricordo, fuori dal tempo, di quegli istanti di vita lassù. Ora io non ho critiche per questo ragazzo, il senno di poi non ha mai affrontato il Moregallo con la sua stessa determinazione. Il senno di poi non è mai giunto dove è giunto lui solo. Avrei voluto conoscerlo, dargli qualche dritta, ascoltare la sua storia al suo ritorno. Avremmo potuto essere amici.

«Kora è una parola della lingua tibetana che significa “circumambulazione” o “rivoluzione”. Per Kora si intende il pellegrinaggio meditativo nelle tradizioni del Buddhismo tibetano e del Bön. Il praticante esegue un Kora facendo una circumambulazione intorno a un sito o un oggetto sacro»

Ci sono cose in cui non sono affatto bravo. Nonostante l’età ed i lutti non sono in grado di gestire, nemmeno con le parole, il grande mistero che attende tutti noi. Funerali, commemorazioni, condoglianze: niente di tutto questo mi riesce bene. Tuttavia credo ci sia qualcosa di profondamente umano nel rito, spesso personale, con cui dobbiamo sforzarci di lasciar andare i caduti. Così, accompagnato da Nicola, sono sceso in spiaggia ed ho infilato in tasca un piccolo ciotolo prima di salire lungo il 50° Osa. Il Moregallo ha infatti un’ultima caratteristica che lo rende una montagna speciale: i suoi versanti sono selvaggi, spesso brutali, mentre la sua cima, erbosa e piana, è un luogo permeato da un’irreale senso di pace. Quando il cielo grigio d’autunno si confonde con il silenzio solitario, con il vento del lago, si possono osservare le Grigne, l’arco alpino svizzero, la grande parete Est del Monte Rosa, il lontano Monviso. Ci si può sdraiare sull’erba e lasciare che tutti gli affanni umani, che vibrano nella sottostante pianura che porta a Milano, scompaiano in una quiete immobile e trascendente. Lassù, sul limite degli alberi, vicino alla piccola madonnina che sorveglia la valle, ho portato dalla spiaggia quel piccolo ciotolo: compensazione per quella “cima” che è tristemente mancata.

Questo è quello che posso raccontarvi sul Moregallo. So che Matteo, questo è il nome del ragazzo di Trieste, provava ammirazione per un grande alpinista del passato. Credo sia giusto chiudere questo piccolo racconto, che forse inevitabilmente è diventato una commemorazione, proprio con una frase di questo incredibile esploratore. «L’alpinismo è un’attività sfiancante. Uno sale, sale, sale sempre più in alto, e non raggiunge mai la destinazione. Forse è questo l’aspetto più affascinante. Si è costantemente alla ricerca di qualcosa che non sarà mai raggiunto.» (Hermann Buhl).

Davide “Birillo” Valsecchi

Matteo Sponza.
Trieste: 17 Ottobre 1987  – Moregallo: 14 Ottobre 2019


Kora del Moregallo: Salita lungo il Sentiero (EE) 50°OSA. Breve deviazione sotto la Parete del Corno di Braga. Cima risalento lungo la cresta Nord. Discesa lungo la Cresta Sud Est, lungo il “Sentiero Elvezio”, sentiero dedicato alla memoria di Elvezio Dell’Oro, pioniere dell’alpinismo locale, caduto sulla Torre Trieste nell’agosto del 1958.

L’Isola dei Bambini Tre

L’Isola dei Bambini Tre

Quale padre, al giorno d’oggi, non regala alla propria figliuola un cranio di faina? Il piano era portare la nana a fare un giretto dietro casa. Dopo Preguda e la Forcellina volevo “inanellare” un altro sentiero circolare che, scarrocciando verso occidente, si mantenesse sotto la “linea” che collega a mezzamontagna Preguda al “Tagliasassi” e Civate. Ricamare piccoli anelli, adiacenti tra loro, che ripercorrano i sentieri meno noti nella parte bassa del Moregallo e dei Corni. Da solo la mia autonomia, ma anche la pazienza della nana, è al più di un paio d’ore e questi piccoli itinerari mi sembrano ideali. Nel primo anello avevo raggiunto Preguda dal sentiero del lago. Nel secondo avevo raggiunto la Forcellina da Piazza Rossè. Nel terzo confidavo di partire da Piazza Rossè scarrocciando verso occidente raggiungendo la mulattiera in cemento che risale da Gianvacca per i “Ranch” di Valmadrera, da qui, passando sotto la teleferica con le palle “bianche e rosse” (che è stata abbattuta credo lo scorso anno) ricollegarsi al “Paolo ed Eliana”, deviando poi per la “casotta sotto la roccia” verso sambrosera attraverso le “mura” sopra la “placca dell’idiota”. Mi riproponevo di “revisionare” la toponomastica con i nomi corretti (quelli sopra sono per lo più nomignoli da me inventati), tuttavia non ce n’è stato bisogno perchè, semplicemente, ho sbagliato strada. O Meglio, ho deciso di perdermi. Appena sopra Piazza Rossè ho imboccato il primo bivio puntando verso l’alto. A un certo punto avrei dovuto piegare a sinistra, verso un passaggio – che ricordo a gradoni esposti su uno stretto canale – con cui emergere dagli orti verso la strada in cemento. Purtroppo, o per fortuna, non avevo voglia di deviare ed ho semplicemente continuato verso destra, verso un sentiero che non avevo ancora mai percorso. La nana rideva, la traccia era evidente, così abbiamo semplicemente continuato. Il sentiero “serve” due piccole baite: la prima ben tenuta è dotata di una gran vista e di una grande Barbecue; la seconda è invece in buono stato ma decisamente più abbandonata. Il sentiero, in quel punto, terminava. Probabilmente, attraversando la valle orizzontalmente, si poteva raggiungere “la casa di Batman”. Una baita che avevo raggiunto tempo fa da basso inseguendo una piccola parete visibile dal mio terrazzo. Le ho dato questo nome perchè, appeso ad una parete esterna della baita, c’è un pupazzetto in gomma del “Difensore di Gotham”. Quella baita è raggiungibile da oriente, arrivando alla fine della strada cementata che dalla prima sbarra a Piazza Rossè fa il giro tra le fattorie. Ora però, io e la nana, eravamo lì, ai bordi un ignoto selvaggio al centro di una ragnatela di linee note. Tempo fa, la mia mente non saprebbe dirvi quando, avevo puntato da solo dritto per dritto alla sommità della Forcellina trovando vecchi sentieri e passaggi nascosti tra i piccoli, ma significativi, salti di roccia che il bosco nasconde. Queste paretine non sono mai più alte di 3 o 5 metri, ma il problema resta sempre lo stesso: o ci arrampichi sopra o devi trovare il modo di aggirarle. E’ un mondo “sempre più piccolo”, ma le regole rimangono sempre le stesse, soprattutto con i tredici chili della nanerottola sulla spalle. “Facciamo due passi nelle terre selvagge nanerottola?”. Christopher McCandless perse la vita “a due passi” dalla civiltà ma probabilmente sono pochi, tra coloro che hanno letto il libro o sbavato per la cine-pagliacciata di Sean Pean, ad aver capito il vero senso di quella storia. La natura è un “serial killer”, il migliore in circolazione, e le basta anche una piccola “zona d’ombra” perchè vi travolga con la sua forza. Sento il rumore della civiltà alle mie spalle, una città di 12mila abitanti come Valmadrera e poco oltre una di 50mila come Lecco. Eppure basterebbe un piede in fallo o un infarto fulminante: la nanerottola si ritroverebbe sola, dispersa nell’ignoto che attende ad una decina di metri al di là dell’ultimo “capillare umano” ai piedi della montagna. Per ritrovarla, ancorata al mio cadavere, servirebbero decine di volontari del soccorso alpino, cani molecolari, elicotteri, triangolazioni GSM. Forse non basterebbe neppure quello. Eppure ci siamo addentrati solo pochi passi nelle terre selvagge, ed è stata una mia scelta. “You have stolen my dreams and my childhood with your empty words”. Disse “Greta” qualche giorni fa nel suo celebre discorso alle nazioni unite. Un discorso che non può rimanere inascoltato perchè è lo specchio di questa distopica epoca. In realtà l’unica risposta apprezzabile è stata quella di Putin, il mio patriarcale dittatore preferito: ”Potrei deludervi, ma non condivido gli entusiasmi di tutti riguardo al discorso di Greta Thunberg. Sai, il fatto che i giovani, gli adolescenti, prestino attenzione ai problemi acuti della epoca moderata, compresa l’ecologia, è giusto e molto buono. Dobbiamo supportarli. Ma quando qualcuno usa bambini e adolescenti nel proprio interesse, merita solo di essere condannato. Nessuno ha spiegato a Greta che il mondo moderno è complicato e complesso, cambia velocemente. Le persone in Africa e in molti paesi asiatici vogliono vivere in modo sano come in Svezia. Vogliono vivere come in Svezia e nulla può fermarli. Ma queste tecnologie rinnovabili non sono per loro economicamente accessibili. Vai e spiega loro che invece devono vivere in povertà. Bisogna essere realisti” (link). Lo spauracchio della mia infanzia, fino al crollo del muro, era l’olocausto atomico, l’escalation della guerra fredda. Lo spauracchio dell’infanzia dei miei figli sarà il riscaldamento globale, il GlobalWarmUp. Come adulto, come “ammaccato” sopravvissuto all’era atomica, sono più preoccupato per le cinque estinzioni di massa che, per cinque volte, hanno annientato il 99,9% della vita sul pianeta nel corso della sua lunghissima esistenza. Le stelle, la visione cosmica della cose, hanno questa straordinaria capacità di rendere insignificante ogni problema che, nella quotidianità, appare enorme. La realtà è che, nonostante tutto (ed è davvero tanto!!) quello che l’uomo combina al pianeta, questo ha un’influenza solo del 5% (che non comunque poco) sul cambiamento climatico. Gli esseri umani, la civiltà umana, “galleggia” sopra incredibili equilibri straordinariamente complessi. Galleggia in modo precario creando a propria volta “micro-equilibri” interni fondamentali ma assolutamente fragili. Questi equilibri sono l’economia, i rapporti tra gli stati, la società, la cultura, la moda del momento. La realtà è che nel terzo mondo ogni giorno muoiono migliaia di persone che non hanno accesso all’acqua potabile, o di dissenteria perchè privi di impianti di fognatura. Allo stesso tempo se nel primo mondo, in un giorno d’inverno, saltasse la corrente per più di 48 ore in un’area sufficientemente grande (chessò, tutta l’Interland Milanese) avremo un numero significativo di problemi, vittime e ripercussioni. Siamo fragili, una civiltà fragile in un modo cosmicamente violento. Ricordo che mia madre faceva l’orto, e mio padre tagliava la legna ogni stramaledetto sabato mattina: “l’alba del giorno dopo” non è mai arrivata – oggi è persino proibito avere un camino – ma la cronaca dimostra che basta un piccolo terremoto o una pioggia anomala perchè ogni certezza diventi una disperata dipendenza. La piccola Andrea è nata in TIN, nella terapia intensiva neonatale, grazie ad piccolo miracolo che questi “micro-equilibri” hanno reso possibile. Ora è qui, in uno zaino sulle mie spalle, mentre evita i rami dandomi manate sulla testa, divertita e contrariata, perchè abbiamo lasciato il sentiero spingendosi oltre la sua fine. I miei pensieri sul futuro, a tratti incerti, scorrono liberi mentre la mia mente è focalizzata su ogni passo, saldo, mentre cerco un passaggio attraverso le pareti di roccia verso l’alto. Sua madre, uscendo, non mi ha chiesto dove andassi. Si è fidata di me. Anche alla nanerottola non interessa dove stiamo andando, si fida di me. Già, ed io sono qui, in un mondo ostile, in modi infiniti, cercando una linea possibile attraverso le difficoltà. Si fidano di me perchè non conosco tutte le risposte, ma perchè ho la capacità di individuare, per tempo, tutte le domande. Sono chiamato a farlo nonostante tutto quello che mi circonda, nonostante il pensiero comune spesso pericolosamente unico. Non sono il genitore uno o due, io sono il Padre: sono la membrana che circonda la cellula, l’ultima difesa. Mentre scansiono il mondo che mi circonda, passo dopo passo, trovo una piccolo cranio di faina: tempo fa ne regalai uno simile a mio nipote “Stewy”. Sua madre, mia sorella, era piuttosto inorridita dal mio regalo di compleanno. La cosa mi stupì, soprattutto perchè è una biologa, ma mio nipote conserva ancora gelosamente quel regalo. La morte, di ogni essere vivente, è parte integrante della vita di ogni creatura sulla terra. Si muore perchè è più efficiente creare qualcosa di “nuovo” anzichè ripare in eterno qualcosa di “vecchio”. Si muore nella speranza che ciò che verrà sia migliore. Ma la morte, nella nostra società, è diventata un tabù: comprendere la morte significa accogliere la responsabilità di uccidere. Questo però spezzerebbe uno degli equilibri fondanti della nostra contemporaneità: solo chi non possiede niente, o chi possiede tutto, ha il diritto di uccidere. “Greta col coltello”, quello sarebbe un discorso interessante. Ma la nanerottola gioca con i resti del piccolo animale mentre io riguadagno l’uscita verso un sentiero più in alto, verso il flusso delle cose note. Come genitore, come essere umano, come membro della mia specie, credo di avere il dovere di mostrare alla mia progenie l’ampia gamma di equilibri che ci circondano: mostrarglieli e sperare che sappiano usare la nostra conoscenza per evolverne la comprensione. Non ho altri poteri nel tempo che non mi appartiene. Sul sentiero, in discesa, ci si para davanti uno scoiattolo rosso: la sua coda è lunga ed elegante, ci osserva, colto alla sprovvista dal nostro silenzio. Prendo il cellulare per scattare una foto, ma alle mie spalle sento i passi di un escursionista. Il suo incedere, per quanto sia da solo, è un frastuono. Lo scoiattolo guarda oltre, ci ignora osservando quanto accade alle nostre spalle. Provo ad allungare una mano, a comunicare allo sconosciuto che si avvicina di non fare rumore, di acquietarsi. Ma ogni mio sforzo sembra inutile. “Scoiattolo, sul muretto” sussurro disperato. “Scoiattolo?! Bello! Dov’è?” Mi risponde urlando lo sconosciuto. Provo ad indicargli il muretto ma la bestiola si è già dileguata. “No! Non l’ho visto! Accidenti che sfortuna!”. Già, sfortuna… Lo sconosciuto non è nè buono nè cattivo, è solo uno sconosciuto che percorreva il proprio cammino. Ho provato a comunicare con lui, per tempo, per il reciproco beneficio, ma non è stato possibile ottenere nulla. Non c’era malevolenza, solo un dato di fatto: un’occasione era andata sprecata. Lo sconosciuto, vedendo uno stramboide con una bambina sulle spalle, attacca bottone e comincia a raccontarmi tutta la sua escursione. Non c’era malevolenza, solo un dato di fatto: non avevo interesse nella sua storia. Così indicando una scorciatoia poco battuta, l’ho salutato cambiando strada tra i rovi. Io e la nana eravamo nuovamente soli, responsabili del nostro destino. Forse pensando a questo ero distratto e così, solo all’ultimo, ho visto la bella viperetta che prendeva il sole sui sassi. Il mio corpo, in ottemperanza ad un istinto atavico, ha reagito in modo violento: mentre il piccolo serpentello si dava alla fuga ogni mio muscolo si contraeva spasmodicamente in una frenata d’emergenza aggravata dal peso della nana. Per un istante, prima che utilizzassi le ginocchia come ABS, tutti i muscoli del mio polpaccio hanno iniziato a “scricchiolare” troncando e soffocando il passo. Il serpente era in fuga, ma per proseguire ho dovuto fermarmi e massaggiare la gamba: un morso sarebbe stato forse meno doloroso! “Hai visto nanerottola? Il tuo papà ha paura dei serpenti!!”. Ridendo mi ha dato una manata sulla testa e siamo tornati a casa.

Davide “Birillo” Valsecchi

«Dopo che siete nati voi, tua mamma mi ha detto una cosa che non avevo mai capito. Mi ha detto “Ora siamo qui solo come ricordi per i nostri figli”. Credo di aver capito che cosa voleva dire. Quando diventi genitore sei il fantasma del futuro dei tuoi figli.» – Interstellar

Monte Acquanera (2806m)

Monte Acquanera (2806m)

“Acquanera, dici? Mi piace. Ha un che di piratesco!” Questo è più o meno come abbiamo deciso la meta venerdì sera. Sabato mattina, dopo aver comprato un paio di panini imbottiti a Lanzada, ci siamo diretti verso il “Largone”, un evidente slargo – con tanto di cartello – su un tornante della strada che porta verso i Campo Moro. Seguendo una comoda mulattiera si giunge all’Alpe Acquanera, un piccolo gruppo di case in sasso ai margini di un grande pianoro umido. Il posto è molto bello, ma la giornata era strana, le nuvole continuano a spostarsi. La croce sulla cima dell’Acquanera è ben visibile (2806 m), così come si intuisce il passaggio della Bocchetta di Acquanera (2709 m) che ci dovrebbe permettere di scollinare nella Val di Togno risalendo poi alla cima dell’Acquanera lungo il suo crinale erboso. Il guaio è che all’alpeggio non troviamo alcuna indicazione del sentiero per la cima. Vediamo in lontananza, alla base di un canale, una palina con alcuni cartelli e così, senza troppe preoccupazione, ci incamminiamo in quella direzione. La palina, che indica un bivio nell’alta via della Valmalenco, non ha tuttavia indicazioni che puntano verso l’alto, nè ci sono segni o tracce in tale direzione. “Oibò! Vuoi dire che oggi è uno di quei giorni in cui mettiamo mano alla carta!”. Così, seduti su un sasso, abbiamo disteso la cartina cercando di capire dove avessimo sbagliato. Anche il Gps non dava supporto: la traccia risultava davanti a noi ma, nella realtà, c’era solo un pendio di rododendri e larici. “Secondo me piega a sinistra, poi scollina verso destra in quella valle, risale poi verso il passo”. L’idea di “inventarcelo” il sentiero non mi dispiaceva, ma il continuo muoversi delle nubi non mi rassicurava “Se le nuvole non mi nascondono il passo, a vista, posso arrivarci: se però si copre e non troviamo una traccia non conviene spingersi troppo in alto”. Stipulati “patti chiari ed amicizia lunga” inizio a cercare un passaggio da sinistra verso destra lungo il pendio. Mi diverto, ma di traccia neppure l’ombra. Nicky mi viene dietro tranquillo, abbuffandosi di quelle bacche rosse che “garantisce” siano commestibili. Io, dal mio, mi guardo bene dal mangiare qualsiasi cosa che sia rossa e non abbia la chiara forma di un lampone o una fragolina selvatica Quando scollino nella valle sono un po’ preoccupato. Della traccia non c’è “traccia”, ravanare tra i cespugli per 700 metri di dislivello in cerca di un passaggio sulla cresta non mi alletta molto, specie se calasse la foschia incasinandomi la discesa. Niky si attarda un attimo e per un istante medito sull’idea di proclamare un sereno, ma salutare, “Battuti e Respinti”. In quel mentre vedo sulle rocce delle ossa, una spina dorsale, poi poco distante il resto di una zampa, più in là un mucchio di costolette e poco oltre un grumo di lana marcia. Incuriosito comincio a cercare tra i sassi il cranio della pecora. In un anfratto trovo un’altro mucchio di ossa e lana, una seconda pecora. “Hey Niky!! Ho due notizie. Quella cattiva è che non trovo il cranio di queste pecore. Quella buona è che ho trovato il sentiero”. Sui sassi vicino alle carcasse faceva infatti mostra di sè uno sbiadito segno bianco, un tempo accompagnato dal suo gemello rosso ormai invisibile, ad indicare la via. I segni sono decisamente rari e poco visibili ma, con un po’ di pazienza, è possibile rimontare lungo la valle fino alla forcella. Il passo è abbastanza facile da individuare, sfrutta una evidente obliquità lungo la muraglia che da destra verso sinistra permette di innalzarsi. Giunti al passo le nuvole ci hanno concesso uno fugace sguardo alla croce prima di avvolgere tutta la piramide nella foschia. “Poco male, seguendo il filo di cresta erboso dovremmo esserci”. In realtà, seguendo il prato mi sono ritrovato su una “cornice” rocciosa esposta nel vuoto per due o tre metri. “Nope! Di qui non si passa! Indietro! Indietro!” Sdraiato con la testa oltre alla cornice ho cercato di capire come e dove fosse possibile superare quel canale. Sconsolati abbiamo dovuto ridiscendere fino alla Bocchetta ed attraversare orizzontalmente anzichè puntare verso l’alto. Giusto per confermare la teoria uno sbiadito segno bianco è finalmente apparso su un sasso. Compreso il trucco non è stato difficile raggiungere la croce. Il Pizzo Scalino era ancora avvolto nelle nuvole ma il panorama sulla Val di Togno era straordinario. La luce che si rifrangeva sulle curve del torrente rendeva l’acqua brillante, sembrava uno di quei documentari con vista aerea sui fiumi delle pianure africane. La cima del Pizzo Painale, avvolto in controluce nelle nuvole, aveva un aspetto imponente ed affascinante sul brillante mondo sottostante. Giunti sulla cima dell’Acquanera mi sono spinto sull’altro versante in cerca di una possibile linea di discesa. Ero concentrato sulla cresta e senza rendermene conto mi ritrovo ad urlare spaventato: ero stato completamente sorpreso da un volo improvviso di una decina di pernici bianche che si erano lanciate nel vuoto. Le ho guardate allontanarsi, divertito da come fossero riuscite a mettermi paura. “Hey Niky, un gruppo di uccelli è riuscito a farmela fare sotto! Però la traccia mica l’ho trovata…”. Il piano, o meglio la teoria, era che fosse un sentiero che permettesse di scendere verso il Passo degli Ometti, tuttavia non c’era quasi nulla ad indicare quella possibilità. Certo, abbassandosi nella valle di Togno, lungo i prati, si poteva poi risalire verso il passo, ma di passaggi lungo la cresta però non ne vedevo. “Io invece ho trovato qualcosa, ma non mi convince…”. Niky mi indica un segno bianco sotto la croce: sembra, ma non ho conferma, che sia possibile abbassarsi sul lato sud-ovest per poi tagliare orizzontalmente sotto il salto roccioso che a nord che porta sulla cima. Dubbioso ho guardato quel segno bianco: ”Io non ci vado lì! Ammesso che ci sia davvero un passaggio, se ti scivola un piede su quella ghiaietta fai un volo di 200 metri. Forse in salita si potrebbe tentare, ma in discesa ed alla cieca io passo la mano. Preferisco tornarmene a casa contento per dove siamo venuti!”. Niky si è messo a ridere, anche a lui non sembrava una buona idea. Patti chiari, amicizia lunga. Ci sediamo e mangiamo con calma i nostri panini. Si era alzato un po’ di vento ma questo aveva spinto via le nuvole e permesso ad un tiepido sole di scaldarci. Il sentiero di ritorno, senza la foschia e dopo averlo percorso una volta, risulta molto più facile da leggere. La discesa è quindi molto meno impegnativa e si dimostra anche abbastanza rapida. Nonostante tutto l’ultimo tratto, quello tra i larici e rododendri, risulta comunque impossibile da individuare (ma non è un gran problema inventarsi una linea). Il Monte Acquanera offre uno straordinario punto di vista per una salita che gode di una certa attitudine selvaggia. Inaspettatamente una bellissima meta!

Davide “Birillo” Valsecchi

Labirinto di Calcare

Labirinto di Calcare

Dalla pila di riviste impilate appare all’improvviso il rosso maglione di Riccardo Cassin, ultraottantenne, con le mani sulla roccia: “Più forti della tempesta!”. La figura di Cassin mi ha sempre affascinato sebbene  – probabilmente  uno dei pochi indigeni appassionati di montagna della mia generazione – NON l’abbia mai incontrato di persona, neppure ad una serata o ad un evento. Non è mai capitato, o forse ero troppo piccolo per ricordarlo. Anzi, a dirla tutta mi è tornata la passione per la montagna – ed ho lasciato la città – più o meno nello stesso periodo in cui Lui, ormai centenario, se ne andava. Tutto quello che so su Cassin l’ho appreso dai libri, dalle riviste, dalle sue vie (quello che ho potuto ripetere) ma soprattutto  osservando ed ascoltando uno dei suoi alievi, Luigino Airoldi. (Che poi è il modo migliore per apprezzare la qualità di un Maestro). Così, intrigato dalla copertina, ho cominciato a sfogliare il numero 52 di ALP, Agosto 1989. Tra le sue pagine ho trovato un articolo di Mirella Tenderini che, nonostante le premesse della rivista, non era incentrato solo su Cassin quanto sulla storia e la “vita” della Grignetta a cavallo di quegli anni. Anche il mio rapporto con la Grignetta è particolare: credo di non aver mai trovato una giornata di bel tempo prima di avere trent’anni! Pioveva sempre, ogni volta! Ancora oggi, quando vado da quelle parti, le probabilità si materializzi il mal tempo sembra sempre preponderante. Ormai ci ho fatto l’abitudine, anzi, quando piove c’è meno gente e ci si diverte di più! Tuttavia, quelli più fortunati con il sole, raccontano di grandi incontri e grandi storie che in qualche modo possiamo riscoprire in questo articolo di ormai trent’anni fa.

UN LABIRINTO DI CALCARE
Mirella Tenderini ALP 52 – Agosto 1989

«Che bella la Grignetta! Ho girato per tante montagne, ma ogni volta che vengo qui mi sento finalmente a casa. La Grignetta è… tutto: la mia. giovinezza, la fidanzata, la mamma…». Gli occhi del Vaschino brillano mentre mi accoglie con queste parole, seduto su un sasso della Direttissima, il sentiero per niente diretto che attraversa la Grigna Meridionale, o “Grignetta”, diagonalmente, da est ad ovest, costeggiando le guglie più belle. In quanti alpinisti anche famosi e in quanti modesti escursionisti la Grigna suscita gli stessi sentimenti!

Questa montagna di calcare dalle forme dolomitiche che fa da sfondo ai paesini del Lario Orientale attorno a Lecco, a poco più di un’ora d’auto da Milano (traffico permettendo), è frequentatissima da almeno centocinquant’anni: la prima salita alla vetta della Grigna Settentrionale o “Grignone” risale infatti al 1897. Generazioni di alpinisti e escursionisti si sono avvicendate sui suoi sentieri ripidi, faticosi per i sassi divallanti in perenne rovinìo. I primi salitori venivano dai paesi del Lago, ma ben presto arrivarono i Milanesi e, forti di numero e di mezzi finanziari, costruirono sentieri e rifugi.

C’è sempre stata rivalità tra Lecchesi e Milanesi su questa montagna. I Lecchesi — e per Lecchesi si intendono anche gli alpinisti dei paesi attorno a Lecco — aprirono le vie più belle sulle guglie della Grignetta, e le più dure sulle grandi pareti del Sassocavallo e del Sasso dei Carbonari al Grignone. Erano avvantaggiati. dalla vicinanza e contavano personaggi “fortissimi”, come Mario Dell’Oro (il famoso “Boga”), Vittorio Panzeri, Vittorio Ratti, Augusto Corti, per non parlare di Riccardo Cassin, lecchese di adozione e per elezione che dalla Grigna andò direttamente al Monte Bianco, visto solo in cartolina, e soffiò la Walker ai più forti alpinisti di mezza Europa che le facevano la corte da tempo. Il Riccardo è un fenomeno. A quasi ottant’anni lo vedi ancora, nelle domeniche di bel tempo, sulle vie più difficili della Grigna. Lo accompagnano giovani amici dai bei nomi lariani: Castelnuovo, Valsecchi… Lui dice che con le scarpe e le imbragature che cì sono adesso, e da secondo, chiunque può salire su qualsiasi via. Sarà anche vero…

Negli anni Sessanta incontravi Giuseppe Alippi (il “Dèt”), Gigi Alippi, i fratelli Zucchi, ì fratelli Rusconi, i fratelli Chiappa, Casimiro Ferrari e tanti altri ancora. I Lecchesi hanno imparato la Grigna a memoria prima di impegnarsi in durissime invernali o di misurarsi con le immense pareti ghiacciate dell’Alaska e del Sud America. Carlo Mauri, il popolarissimo “Bigio”, arrampicava con Bonatti, considerato milanese come tutti gli alpinisti che venivano da Monza, da Sesto e dalla bassa Brianza. Erano Oggioni, Aiazzi, Taldo, Nusdeo. Un bel po’ di anni prima, il milanese Nino Oppio, aveva aperto la via più impegnativa al Sasso Cavallo, ricorrendo anche a mezzi artificiali per allora avveniristici.

In Grigna arrivavano alpinisti da tutte le parti delle Alpi. Mary Varale veniva per arrampicare con Cassin, e ci aveva portato anche Comici. La via di Comici, al Nibbio, è rispettatissima tutt’oggi. La parete nord est del Nibbio è una delle poche zone della Grignetta frequentate dalla giovanissima generazione, perché ci sì arriva camminando pochissimo, come andare alle Placche di Introbio o all’Antemedale. Marco Ballerini, Stefano Alippi, sono nati e cresciuti ai piedi della Grigna, ma, figli del loro tempo, più che all’alpinismo classico preferiscono dedicarsi all’arrampicata sportiva, con eccellenti risultati, bisogna dire. Di poco più anziano di loro, Marco Della Santa, anche lui cresciuto ai Piani Resinelli, fa la guida di professione ma aiuta anche il padre, che è il fornaio della zona. In spedizione, in Himalaya o in Patagonia, Marco porta farina e lievito e fa il pane per tutti. Deve essere bello sentire il profumo del pane alla mattina, in un campo base in mezzo ai ghiacciai.

Ai Resinelli, 1350 metri sul livello del mare, punto di partenza di tutte le escursioni e le arrampicate sulla Grigna Meridionale, ci sono il prestinaio, due negozi di articoli sportivi, uno di alimentari. Ci sono tre o quattro alberghi-locande e tre rifugi. Quando alla fine dell’estate si svuotano le centinaia di villette e case di vacanza, rimangono solo gli abitanti dei Resinelli, quei quattro gatti che abitano e lavorano in questi rifugi e negozi. C’è anche una chiesa ma non c’è medico, non c’è farmacia, non ci sono scuole. Quando c’erano un po’ di bambini in età scolare, avemmo per qualche anno una pluriclasse, con una maestra sola per tutte e cinque le classi elementari. Però i bambini non erano mai più di sette o otto in tutto. Si insegnavano a vicenda e venivano a casa a metà mattina a prendere il gatto per la lezione di scienze naturali. Nelle ore di scuola li trovavi in giro in gruppo per il paese che cantavano “noi andiamo alla caccia del leòn”, oppure scatenati sulle piste di sci. Sembrava che facessero tutto tranne che studiare, ma quando poi andarono alla scuola media nessuno di loro si trovò indietro rispetto ai bambini provenienti dalle scuole normali. Quando il Marco Ballerini era piccolo non c’erano altri bambini per giustificare la scuola pluriclasse, e gli fece la scuola in casa la zia, la “sciura Nene”, che gestiva l’Albergo Italia con il marito. Il Marco sciava molto bene e la sciura Nene tremava ogni volta che lui vinceva una gara perché aveva paura che diventasse un “campioncino”, si montasse la testa e trascurasse gli studi. Invece che campione di sci, il Marco divenne il reuccio locale dell’arrampicata, non si montò la testa, ma gli studi li trascurò lo stesso. In compenso, oltre che arrampicare e sciare sì butta dalla Grigna col parapendio: altro sport che sta prendendo piede in zona.

I Piani Resinelli appartengono amministrativamente a quattro comuni diversi che una trentina d’anni fa, consorziati, costruirono la strada che tuttora costituisce l’unico accesso carrozzabile ai Piani. Fino a due anni fa c’era una barriera all’inizio della strada e si pagava un pedaggio per salire. Per anni gli abitanti dei Resinelli si sono lamentati di questo balzello fino a che fu tolto. Era ora, ma in qualche modo si è persa una caratteristica che contribuiva all’unicità del luogo. Era come se la barriera salvaguardasse dalla banalità gli abitanti dei Resinelli e le loro stravaganze. Tutti personaggi un po’ particolari, quelli dei Resinelli, specialmente quelli di una volta. Il Cavaliere Redegalli se lo ricordano ancora tutti, con il suo baracchino a forma di chalet e i «salamini di asinelli che fanno crescere forti e belli». Ma chi si ricorda più del “Farina”, che forniva i suoì gatti grassi per il salmì dei “giovedì letterari” al rifugio SEM (epperò che qualcun’altro provvedesse a tirar loro il collo, perché lui non poteva, ci era troppo affezionato), o del Giovanni che la domenica vendeva vino e bibite in vetta alla Grigna e che per risparmiarsi un po’ della fatica del trasporto aveva costruito una teleferica rudimentale, azionata dal motore di un “Galletto” Guzzi? I rottami del Galletto sono ancora lì da vedere, su una piazzuola della Cresta Cermenati. Adesso c’è il Guido, al posto del Giovanni, che porta su vino, bibite e panini fino in cima. In spalla; e sì porta giù i vuoti, e già che c’è si carica anche un po’ di scatolette abbandonate dai maleducati. È più il vino che regala o che beve lui stesso di quello che vende. Qualcuno si scandalizza a trovare una specie di osteria in cima alla montagna, ma adesso che il Guido si è rotto un piede e in vetta sì incontrano solo i gracchi e i turisti, sì sente molto la sua mancanza. Speriamo che guarisca presto.

C’è un “igloo sacro”, in cima alla Grigna: un bivacco fisso di lamiera, ingombro di rifiuti di varia natura, come tutti i bivacchi incustoditi. Ormai ci si è abituati anche a lui, come al grattacielo giù ai Piani: fa parte del paesaggio e la sua vista non offende più. L’igloo è bruttino e abbastanza inutile, ma qualcuno lo predilige per passare una notte di San Silvestro un po’ speciale.

Anche al rifugio Rosalba, in fondo alla Direttissima, e un po’ in tutti i rifugi dei Resinelli, le notti di San Silvestro sono sempre state molto speciali. Del resto non occorre attendere San Silvestro per fare di una serata una festa, specialmente se si è un bel gruppo di amici. Adesso le compagnie numerose e affiatate sono sempre meno frequenti e non so se succede ancora che con la luna piena qualcuno parta alle dieci di sera per fare la Segantini di notte con l’amorosa.

La Cresta Segantini è facile, secondo e terzo grado, ma è lunga e divertente e arriva proprio in vetta. Qualcun altro, con o senza la luna, ci andava da solo. Se lo ricordano ancora in tanti, il Walter Bonatti, che da ragazzo ha vissuto qualche anno in un rifugio ai Resinelli con suo padre: stava su con gli altri fino a tardi a cantare e a scherzare con le ragazze, e poi quando gli altri andavano a letto lui usciva e andava a bivaccare chissà dove, e chissà se solo per allenarsi o più per abbandonarsi a quel lato selvatico della sua natura che lo doveva portare in giro da solo nei luoghi più remoti della terra.

Quando viene l’autunno, i faggi e i sorbi ricamano di bruno e scarlatto la gonna della Grignetta e tutta la strada si copre di monetine d’oro e di rame. Appena si diradano le automobili, saltano fuori gli scoiattoli e le lepri. La volpe non si vede più da anni, ma sono tornati i caprioli e d’inverno scendono alle sorgenti basse ad abbeverarsi. La neve di solito dura poco: vicino al lago il clima è abbastanza mite, e in primavera ricominciano presto le processioni su per i sentieri e le code alle vie più classiche o più alla moda.

Tutti sanno che la Grigna è affollatissima nelle belle giornate di primavera, e che il rischio di prendersi un sasso in testa, che sì arrampichi o si cammini per un sentiero, è piuttosto alto. Ma come rinunciare ad una gita in Grigna?

È come rinunciare alla mamma, alla fidanzata, alla propria giovinezza… Ma lo sapete, quanto è bella la Grignetta?

Mirella Tenderini

Due Camosci ai Pizzetti

Due Camosci ai Pizzetti

Era da parecchio che non tornavo da quelle parti e sono rimasto molto colpito dalle quantità di piante abbattute dal vento, probabilmente nella funesta tempestata che colpì il nord Italia lo scorso anno. Tra le possibilità per alzarsi da Lecco sulle pendici del Coltignone, il Sentiero dei Pizzetti è quella che preferisco e per questo ero molto dispiaciuto nel vedere come la natura, alle volte, sappia essere anche crudele con se stessa. Il tracciato è dedicato a Piero Pensa e confesso che sulle prime questo nome mi aveva spaesato: la mia fantasia era intrigata dall’idea che, in quella parte del Coltignone, vi fosse una via dell’Ingegner Pietro Pensa, a me noto per l’ardita via “battaglione Morbegno” al Pizzo d’Eghen. In realtà la dedica è per Piero Pensa, nativo di Parlasco, classe 1946, volontario della parrocchia di San Francesco e fondatore del Gruppo Sportivo Sci-Montagna Aurora, di cui per anni è stato presidente. La vicinanza della Chiesa di San Francesco ai Pizzetti spiega l’attaccamento della comunità a questo tracciato ed ai due grandi torioni. Sul primo torione è possibile salire sulla sommità per un comodo sentiero, sul secondo invece, sebbene vi sia una madonnina sulla cima, è necessario arrampicare. Il secondo torione mi ha sempre incuriosito perchè, anche solo dalla selletta, è sconsigliabile tentare la salita se una corda ed un compagno. Francamente non conosco (nè ho trovato informazioni) sull’etimologia dei pizzetti o sulla presenza di vie d’arrampicata (ma di certo qualcosa c’è su entrambi i torrioni).

Domenica mattina il tempo non era affatto buono ed il mio proposito di puntare con Nicola ai Resinelli passando dai Pizzetti e dal GER sembrava minacciato dall’acqua. Anzi, una fitta pioviggine sembrava incalzare mentre dalla Grignetta nubi scure si abbassavano sul Forcellino. Ormai però eravamo “in giro” ed abbiamo deciso di risalire almeno fino al Rifugio Piazza. Io sono il figlio di un cacciatore e sono stato educato ad andare in montagna rispettando la magia del silenzio. Questo, molto spesso, mi permette di fare “incontri ravvicinati” piuttosto interessanti. Per via della pioggia il bosco era deserto, ma è stata con una certa sorpresa che ci siamo trovati davanti, a pochi metri del tracciato, due camosci intenti a risalire una “ravanata” di terzo/quarto grado su roccia e fango. I due animali erano sorpresi quanto noi, tanto da bloccarsi nella loro scalata indecisi sul da farsi. Tuttavia quello che realmente mi stupiva era quanto fossero a bassa quota e vicini al centro abitato di Lecco (erano sotto il primo belvedere!). Ho condiviso con Niky qualche trucco su come muoversi quando, in due, si incontra il selvatico. Trucchi che a mia volta mi erano stati insegnati da mio padre: “Loro individuano e si focalizzano sul primo che vedono, se questo resta immobile anche loro faranno altrettanto fissandolo, in attesa, pronti a reagire alla sua mossa. Se non ti muovi per un po’ non lo fanno neanche loro. Il secondo, sfruttando la copertura del primo, può quindi spostarsi lentamente e prendere posizione senza che loro scappino”. Click, Click! Ci siamo osservati per un po’, almeno fino a quando uno dei due si è piegato sulle gambe “caricando” un salto da fermo con cui ha rimontato di slancio un passaggio aggettante probabilmente di quarto grado. Impressionante l’eleganza e l’equilibrio con cui affrontavano quella parete coperta di muschio e terra.

Lasciate le due “rupicapre” alle spalle abbiamo continuato a salire. Niky se la cava bene e, nonostante il sentiero sia a tratti decisamente esposto verso il basso, non mi preoccupo molto dei suoi movimenti sulla roccia. Più avanti incontriamo la “panchina”. Lungo il sentiero, in un punto molto panoramico sul bacino di Parè, c’è una panchina in legno con una targa in metallo. Incuriosito chiedo a Niky di fare una foto per ricordarmi poi il nome a cui è dedicata. Niky mi guarda dubbioso “Ma con questo tempo e questa angolazione non verrà una bella foto!”. “Bhe, forse non sarà bella, ma probabilmente farà comunque piacere a quelli che hanno messo la targa…”. Così, grazie alla foto, tornato a casa ho potuto investigare meglio su tutta la faccenda. La “panchina” è infatti dedicata a Lorenzo Mazzoleni, lecchese classe 1966. Spulciando tra gli archivi on-line, sopratutto quotidini e ritagli di giornale, è emersa la sua storia: a 18 anni diventa un membro dei Ragni della Grignetta di Lecco, a 22 il primo ottomila, il Cho Oyu, a 26 è sull’Everest, a 27 sull’Aconcagua, a 28 sul McKinley. A 29, in occasione del 50° dei Ragni di Lecco, è in cima al K2 ma perde la vita nella discesa e da allora le sue spoglie riposano sulle pendici della montagna. La storia di questo ragazzo, così giovane e così talentuoso mi colpisce. Per questo, un po’ a malavoglia, vado sul sito dei Ragni in cerca di maggiori informazioni. “OlioDiPalma™” deve essere stato troppo occupato a trapanare marchette ai Corni anzichè completare le schede dei membri dello storico sodalizio: l’archivio è terribilmente incompleto, per Mazzoleni c’è solo una pagina vuota con l’anno di nascita e di morte (1966 – 1996). Nonostante il disappunto mi accorgo che nell’elenco c’è anche una bella foto di Paolo ”Cipo” Crippa, anche lui Ragno di Lecco (anche lui con una scarna scheda vuota 1965 – 1990). Tanto basta però per rendersi conto che Paolo e Lorenzo erano praticamente coscritti e che indubbiamente – entrambi giovanissimi Ragni – si conoscevano (e chissà quali storie e quali ricordi stanno andando perduti!). Io nel 1990 avevo 14 anni e per la prima volta in vita mia ero andato in una discoteca (La pizzeria Eden alla stazione di Asso) per vedere con i compagni di scuola una partita di Italia90. Nel 1996 ne avevo 19 e cercavo di sopravvivere a Milano armato di un TuttoCittà e biglietti ATM. Questi due invece, Paolo e Lorenzo, avevano già compiuto l’incredibile: forti di un’esperienza anagraficamente limitata ma probabilmente di un enorme talento. Ve lo immaginate un ventenne di oggi mentre attraversa il Nepal – come era 20 anni fa!! – per tentare un 8000!? Sorprendente ed affascinante: non guarderò più quella panchina con la stessa superficialità.

Davide “Birillo” Valsecchi

L’Isola dei Bambini Due

L’Isola dei Bambini Due

Chuck Yeager è stato il primo uomo a raggiungere la velocità del suono, nell’ottobre del 1947. La sua storia è parte del film “The Right Stuff” del 1983. In quella pellicola Yeager, che non era entrato a far parte dei sette piloti del Progetto Mercury (le prime missioni spaziali americane con equipaggio), quasi per rappresaglia sale a bordo di un Lockheed NF-104A, un aereo supersonico, decolla e punta dritto verso il cielo, tentando di superare ogni record di altitudine. Il suo aeroplano è una scheggia argentea impennata verso l’alto, il suo motore, un missile con le ali, ruggisce mentre in verticale punta verso i 36.000 metri di altitudine. In una scena di una bellezza incredibile, Yeager riesce ad intravvedere le stelle oltre il cielo, riesce per un istante a sfiorare lo spazio. Prima di lui solo Yuri Gagarin, ma a bordo del gigantesco vettore spaziale Vostok1, si era spinto oltre. Per un commovente istante vede lo spazio, quasi lo sfiora, poi il suo aereo perde completamente la spinta, stalla, precipita verso il basso avvitandosi ormai senza controllo. Era così vicino al suo sogno, ora precipita verso il basso dai confini del cielo. Riesce finalmente a lanciarsi ed il suo corpo attraversa le nuvole in una caduta che sembra interminabile mentre la sua tuta ha preso fuoco. Nella pellicola una ballerina, in controluce con due ali di piume, balla sinuosamente, quasi ad introdurre la drammatica conclusione del film. Ma l’immagine stacca all’improvviso, mostrando Yeager in piedi, nel deserto, che nonostante le ustioni raccoglie il proprio paracadute a poca distanza dai rottami del suo aereo in fiamme.

Vidi questo film molti anni fa, per caso, un pomeriggio da adolescente, e ne rimasi enormemente colpito. Tutta la storia è incredibile, ma la scena dello spazio e dello stallo è per me indimenticabile e terribilmente simbolica. Bellissima.

Lo scorso anno, lo scorso settembre, tutta la mia famiglia era seriamente preoccupata per me. Una situazione tanto grave che fu mio padre, caso eccezionale, ad affrontarmi e dirmi: ”E’ ora che vai a farti vedere da un dottore”. Io avevo il fiato corto anche solo a salire una rampa di scala e mi sentivo debole come mai lo ero stato prima. Se non si fosse impegnata Bruna, obbligandomi ed accompagnandomi, non avrei avuto la capacità di reagire e sottopormi a tutte le analisi. Anche i dottori, sulle prime, erano tutt’altro che sereni e tutti i test, fatti d’urgenza, miravano a scoprire se il problema fosse un “male brutto”. Mia madre, dieci anni prima, era morta di cancro al Pancreas ed ora sembrava fosse il mio fegato a non voler più funzionare. Ero piuttosto depresso: avevano spittato i Corni e stavo per morire di malattia. Che brutto finale. Bruna, quando negli anni precedenti facevo qualcosa di pericoloso, mi rimbrottava sempre: “Vedi di non morire prima di avermi messo incinta! Poi fai pure quello che vuoi!”. Lo diceva per scaramanzia, ma di fatto avevamo una bambina sei mesi ed io ero a terra.

In realtà dalle analisi emerse che non avevo nulla, o perlomeno nulla di rotto. Il mio corpo aveva avuto una specie di black-out, i motori erano andati in stallo, tutti i sistemi avevano semplicemente smesso di funzionare correttamente. Non si sapeva il motivo. I miei valori erano tutti sballati, di due o tre volte la norma, ma nulla che non potesse essere aggiustato. Tuttavia, ve lo garantisco, il viaggio è stato tutt’altro che semplice. La prima vera difficoltà è ammettere un problema, accettare nuovi limiti. Serve pazienza, costanza ed indulgenza verso se stessi.

Mattia mi aveva portato ad arrampicare sulla Bramani-Fasana ai Piani di Bobbio. Terzo/Quarto grado da secondo. Tremavo, avevo le vertigini e la nausea, arrancavo pieno di paura. Fummo costretti a deviare sulla Ferrata per uscire dalla salita e ricordo me stesso, aggrappato alle catene, che mi trascino disperato verso l’alto. Ma la vera angoscia erano le scale del parcheggio che, ogni mattina, affrontavo per andare in ufficio. I dolori alle gambe, alle caviglie, erano uno sconforto senza fine ed orizzonte. Zoppicavo, zoppicavo sempre. Era desolante, non avevo nulla di rotto, ma non ero più in grado di fare nulla, nulla di ciò che mi rendeva ciò che ero stato fino ad allora. Corpo, forza, coraggio, volontà, non c’era più nulla …ero sconfitto. Sconfitto e spaventato. In un circolo vizioso mi trascinavo sempre più in basso.

La bergamasca si è però messa di impegno: mi ha tolto zucchero, birra e caffè, dandomi il tormento, con verdura, strani semini e quintali di pesce cucinato al forno. Si è presa cura di me, quel tanto che bastava per ridarmi la forza di fare altrettanto. Così la mattina, prima di andare in ufficio, ero nuovamente in grado di fare qualche imbarazzante esercizio per sciogliere i muscoli. “La mente è il motore, tutto il resto è un optional”. Ma è facile dirlo quando sei al volante di una “Birillo Full Optional del ’76” pienamente efficiente, molto meno quando sei in un biroccio scassato che non vuole saperne di funzionare. Un tempo, dopo il lavoro, andavo in cima al Moregallo prima di cena. Ora, con due bastoncini, stringevo i denti cercando di arrivare almeno a Sambrosera. Ma è proprio in quei momenti che ti rendi conto che realmente la mente è il vero motore, che tutto il resto puoi aggiustarlo a martellate.

Ed oggi, ad un anno di distanza, mi sento come Chuck Yeager che, un po’ ustionato, raccoglie il proprio paracadute stando in piedi nel deserto. Ciò che possedevo prima mi era stato in dato in dono, ciò che posseggo ora me lo sono conquistato e mi appartiene. I miei occhi sono di nuovo aperti, ora vedono lo spazio anche attraverso le nuvole.

Così guardo la nana mentre gioca sui prati della Forcellina, sdraiata su una colorata stoffa comprata in un viaggio in Africa anni fa. C’è un bel sole di settembre, i Corni brillano, potremmo salire più alto, anche se continua a crescere non la sento più cosi pesante, ma la piccola si stancherebbe stando troppo a lungo dentro il suo zainetto. Quindi ci siamo fermati qui. Tanto nel pomeriggio si va ad arrampicare con i neofiti del gruppo e domani si va a macinare passi da qualche parte con Niky, che mi fa da allenatore. L’inverno è alle porte ed è necessario allenarsi per tornare finalmente al Moregallo, al proprio posto con gli altri Tassi.

E Bruna? Bruna verrebbe volentieri a spasso con me e la nana, ma al momento ha decisamente un buon motivo per stare tranquilla ad aspettarci a casa.

Davide “Birillo” Valsecchi




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