Eroe Scarso

Eroe Scarso

Non riesco a vedere da dove vieni ma so da cosa stai scappando. E ciò che conta, piccola, non è chi sia il più cattivo ma chi ti impedisce di cadere dalla tua scala. Quando ti amo come piace a te, provo quello che provi tu ora: faccio ciò che faccio solo per compiacere la tua folla. E soffro, ma non smetterò, perché questo non è un posto per un eroe, questo non è un posto per un uomo migliore, questo non è un posto che un eroe possa chiamare casa.

Ogni volta che chiudo gli occhi, ti penso dentro. Penso a tua madre, che ha rinunciato a chiedersi perchè: perché menti, e tradisci e provi ad ingannarla. Non riesco a vedere da dove vieni ma so da cosa stai scappando. E ciò che conta, piccola, non è chi sia il più cattivo ma chi ti impedisce di cadere dalla tua scala. Perchè questo non è un posto per un eroe, questo non è un posto per un uomo migliore, questo non è un posto che un eroe possa chiamare casa.

Testo e musica: Short Change Hero – The Heavy
Wikiloc: eroe scarso


Crollo sulla G.G.OSA

Crollo sulla G.G.OSA

Non ho informazioni di prima mano perchè, a causa del LockDown, è tanto che non ho modo di salire sul Moregallo. Tuttavia mi è giunta segnalazione di un importante crollo sulla Crestina GG OSA, soprattutto mi è stato chiesto di segnalare come il crollo abbia interessato il sentiero che da Sambrosera risale all’attacco ed quindi alle moregge. «Praticamente è crollato il blocco di roccia dove c’è l’unico chiodo, quello con il cavo d’acciaio, e ha tirato via tutta quella parte. Il blocco è caduto nel canale, non toccando la cresta, ed è andato giù fino all’attacco portando a valle sassi e piante. Poi ha proseguito tagliando il sentiero che sale all’attacco della cresta.»  Sembra che il Sindaco a breve emetterà un’ordinanza di chiusura del sentiero e della cresta. Ci sono in giro ancora molti sassi pericolanti ed accumuli di materiale sia sul sentiero che sulla piazzola d’attacco.

Quello che posso dirvi è che la scorsa settimana, pulendo la vecchia macchina fotografica con lo Zoom (un modesto 18x) avevo fatto qualche distratto e nostalgico scatto alla Cresta OSA ed alle strutture adiacenti. Oggi questo ci permette di capire, a distanza, cosa è purtroppo accaduto alla cresta con le ultime piogge. Incredibile anche notare quanto, in meno di dieci giorni, la vegetazione sia lettarlamente esplosa.

Davide “Birillo” Valsecchi

Paura e Desiderio

Paura e Desiderio

«Hai paura?» La biondina con gli occhi azzurri si avvinghia al mio braccio mentre siamo sdraiati nel letto, poi con una vocina da pin-up mi risponde: «Sciii». Le faccio un sorriso e le chiedo gentile «E di cosa hai paura?». Lei si stringe ancora di più e con lo sguardo indica il soffitto. «Hai paura delle Ombre?» mi risponde quasi nascondendosi il viso. «Sciii». Allungo un braccio verso l’interruttore della lampada. «Vedi? Le ombre non ci sono più. Basta accendere la luce, aprire gli occhi, e piano piano la paura passa. Ora dormi che è tardi». «Scii».

Davide Birillo Valsecchi

“Paura e Desiderio”
III+ / Moregallo NoSpitZone 2020

Diario della Quarantena

Diario della Quarantena

Il viso, furioso e trasfigurato, di Eduardo “Lalo” Salamanca ci augura la buona notte con una punta d’ansia, mentre è la piccola Andrea, all’alba, ad imporre la sveglia. Apro lo sportello del frigor: yogurt, cereali, succo di frutta. Metto sul fuoco il caffè, cambio il pannolino ad Andrea, sveglio Bruna e la piccola Noa. Ogni giorno della quarantena è come il giorno della marmotta, nel mio caso dei marmocchi. Noa è nata il 14 Febbraio, usciti dalla sala parto all’asilo di Andrea era in atto un’epidemia di “Bocca Piedi Mani (EV-71)”: per aiutare Bruna, “puerpera” con due bimbe da gestire tra le mura domestiche, ho sfruttato i giorni di congedo parentale per stare a casa. Nel giro di una settimana l’epidemia, di Covid-19 questa volta, si è trasformata in pandemia… ed eccoci qui, 71 giorni dopo.

C’è qualcosa di biologico nel pianto dei neonati, qualcosa che impedisce il corretto funzionamente del cervello. Incasina i pensieri, scardina gli schemi ed acquisisce priorità assoluta, persino sulla volontà. Una prigionia nella prigionia: un imperativo atavico che, barricati in casa, scandisce lo scorrere delle giornate come la sirena di una fabbrica. Quando questa mattina le nanerottole strillavano in stereofonia ho perso il controllo della mia “fame di spazio” e la casa, ormai accampamento, mi si è chiusa addosso: affogavo incastrato tra gli stipiti delle porte che non portano in nessun luogo.

Così, per arginare il caos, ho preso in braccio Andrea, armato di pennarelli ed un foglio A4, ho iniziato a disegnare il diario della quarantena. “La nostra mente, per il modo in cui si è evoluta, lavora per immagini: per questo facciamo disegni e scriviamo!”. Come i carcerati si comincia tracciando una piccola barretta per ogni giorno trascorso in gattabuia, si prosegue poi inseguendo le date: l’ultima volta che ho fatto benzina, l’ultima volta che siamo andati a passeggio tutti insieme fuori dal giardino. Si elencano le “missioni di approvvigionamento”, le date in cui, armati di uno screen-shot sullo smart-phone, ci si è spinti in una solitaria avventura fino al supermercato per ritirare la spesa prenotata via Internet. Quanta nostalgia per quel bottiglione di Aperol comprato nell’ultima occasione in cui ho spinto il carrello tra gli scaffali!!

Sul foglio si continua riportando cose a caso: i videogiochi finiti, le serie concluse, gli eventi eccezionali. Già perchè quella volta dal dentista oppure la prima vaccinazione di Noa sono state giornate d’ansia, ma anche occasioni da segnare sul calendario. Anche quella volta in cui, mancando un gradino, mi sono distorto una caviglia finisce sul “diario della quarantena”: quanto era stato divertente inviare le foto del piede fasciato con la didascalia “Vedete, anche a casa ci si fa male!”. Quanta arguzia nell’aggiungere immobilità ad una situazione immobile! Qualcuno sul proprio diario della quarantena riporterà risultati incredibili, qualcuno avrà preso una seconda laurea, qualcuno avrà imparato il mandarino, qualcun’altro sarà diventato istruttore di Cross-Fit domestico con addominali da urlo. Io no, sono ingrassato, mi fanno male le ossa e passo le giornate ad inseguire le bambine. Mi consola che forse, tra dieci anni, ripenserò a questo periodo come ad un momento bellissimo della mia vita da genitore… qualcosa su cui anche Leo Ortolani potrebbe realizzare una striscia quotidiana. Magari con la vignetta scritta in mandarino…

Andrea mi dà corda, ma si stufa di numeri e dati: afferra un pastello a caso ed inizia a tracciare ghirigori sopra le parole. Forse sono stufo anche io ed improvvisamente ripiombo negli anni 90, quando seduti accanto ad un telefono fisso, con la cornetta in mano, passavamo il tempo chiacchierando e pasticciando con la biro interi fogli di carta, rimpiendoli di forme, simboli e piccole decorazioni. Ben presto la nana si stanca anche di scarabocchiare ma il suo papà, che aveva tanto cercato di coinvolgerla, no. Compare un righello, dei pennarelli, un paio di chiavi inglesi, forme e formine di tutti i tipi. L’analisi razionale lascia spazio a velleità artistiche per naufragare nella semplicità di un gesto senza scopo.

“La gente esibisce ciò che difetta maggiormente”. Sul mio foglio avevo cercato di fare ordine sulle mie giornate ma avevo finito per seppellire ogni cosa sotto il caos di forme e colori confuse, senza senso. Ma ciò che mi appariva evidente è che in quel caos, che io stesso avevo creato, stavo cercando inconsapevolmente di giustapporre le cromie, i segni, di portare equilibrio, in definitiva ordine.

“Birillo, questa è la verità: tu insegui il caos solo perchè hai il bisogno di trovarvi un tuo ordine. Ti giustifichi trovando soluzioni alternative, inesplorate, inconsuete, ma per quanto ti piaccia rappresentarti in modo assurdo sei ordine, non caos”. Autocoscienza fastidiosa…

“Ti sembro davvero il tipo da fare piani? Lo sai cosa sono? Sono un cane che insegue le macchine. Non saprei che farmene se le prendessi! Ecco io … agisco e basta.” Diceva sghignazzando il Joker di Heath Ledger, esibendo incontenibile follia solo per nascondere i suoi machiavellici ed ossessivi piani. Forse è questo che mi turba, la sicurezza con cui nascondo la mia attuale incapacità di prevedere ed anticipare il futuro, la mancanza di una piano, di una rotta o di una via per passaggi inesplorati che mi permetta di creare ordine in questo caos. La cosapevolezza che le difficoltà esterne rendono sempre più pericolosamente allettante adagiarsi nella ripetitività di questo interminabile giorno della marmotta.

“Il linguaggio forma il pensiero”. Parlo con Bruna, con qualche vicino, ma dopo due mesi anche le telefonate si sono inaridite: “Come stai? Io bene, tu?”. Le video conferenze e le video chiamate ci sollevano dal peso delle parole, usate ormai come riempitivi quando non abusate dai media e dai tuttologi da bar sport. Ciò che mi spaventa sono le parole che perdo, quelle che “mancano” o che “non trovo” sempre più spesso. Come una scimmia appesa ad un calcolatore cerco su google sinonimi e significati che giorno dopo giorno, nell’isolamento, mi sfuggono. Mentre il mio pensiero si fa muto e stentato, attorno a me è un fiume in piena di parole senza senso capace di travolgere me ed il mio giudizio: questo mi spaventa.

“All work and no play makes Jack a dull boy” Questa è la frase che Jack Torrance, il Jack Nicholson dell’Overlook Hotel, ripete ossessivamente sulla macchina da scrivere. Forse anche lui, cercando di scrivere il suo romanzo, tentava di mettere ordine nel caos di quell’isolamento, tentava di usare le parole per dare forma al suo piano per arrivare a Maggio. Ma le parole gli sfuggono e tutto ciò che gli resta, sui tasti, è quella frase ossessiva che in qualche modo lo protegge, giorno dopo giorno, rimandando il tracollo. L’implosione veicolata dalla segregazione.

Le parole, devo ritrovare le parole. “Tu non sai stare da solo” – mi ha detto Bruna giorni fa – “Ti piace isolarti ma hai sempre avuto accanto qualcuno nel corso della tua vita”. Quante cose può insegnarci su noi stessi la solitudine di questi tempi? Ci sentivamo forti ed ora tremiamo nel riconoscere le nostre debolezze? Bene, maledettamente bene: perchè definire un problema è il primo passo per risolverlo. Avere paura significa essere ancora vivi.

1) fai una cosa alla volta 2) definisci il problema 3) ascolta 4) poni domande 5) distingui ciò che ha senso da ciò che non ne ha 6) accetta il cambiamento come inevitabile 7) ammetti gli errori 8) dillo in modo semplice 9) resta calmo 10) sorridi, respira, rendi estremo il banale!

Tutto questo non finirà,  non c’è una data di scadenza per questa situazione. Il 4 maggio non significa niente. Non è il D-Day, lo sbarco sulla Luna o Cristoforo Colombo nelle Americhe. Tutto questo non finirà dalla sera al mattino come un sogno. No, non finirà, ma è inevitabile che cambi: tutto ciò che devo fare è vedere ordine nel caos.

”Fare un nuovo passo, dire una nuova parola, è ciò che la gente teme di più.” (Fëdor Dostoevskij)

La Canoa e il Fiume

La Canoa e il Fiume

[Andrea Alessandrini – ASA] Chi sceglie di dedicarsi alla pratica sportiva della discesa fluviale, affrontando torrenti e fiumi impetuosi, deve ricordare alcune elementari regole che possono servire alla propria sicurezza e, comunque, a evitare incidenti. Il fiume ha proprie leggi cui è necessario sottostare, poiché la forza dell’acqua è enormemente più grande di quella di un qualsiasi pur fortissimo canoista.

Prima di avventurarsi in canoa lungo il corso di un qualsivoglia fiume, è necessario avere — se non si è guidati da un canoista esperto — una precisa conoscenza delle difficoltà che si potranno incontrare, ricordando che il trasbordo non è “una vergogna”, ma un ottimo sistema per aggirare ostacoli superiori alle proprie capacità. Peri vari bacini idrografici italiani, lo strumento fondamentale in questo senso è costituito dalla pubblicazione Guida ai Fiumi d’Italia di Guglielmo Granacci. Pur se limitato al solo arco alpino, è ugualmente utile e ben illustrato il testo di Steidle In canoa nei torrenti alpini. È opportuno inoltre ricordare che si ha — e da parte dei clubs più attivi, e da parte di singoli autori — una numerosa produzione di monografie riguardanti itinerari di vario tipo. I giornali di settore pubblicano con regolarità anche schede e aggiornamenti. Non manca, quindi, la possibilità di documentarsi affinché la gita, o il viaggio di più giorni, siano ben programmati.

Detto questo, ricordiamo sommariamente che esiste una classificazione internazionale dei corsi d’acqua, che stabilisce con sufficiente precisione la difficoltà dei fiumi.

Si inizia con il 1° grado, cui appartengono i corsi d’acqua con corrente non molto veloce, senza ostacoli o rocce; vi sono leggere increspature della superficie dell’acqua, la pendenza non è forte, e il fiume può essere disceso da chiunque con le necessarie precauzioni — quali la consultazione di carte fluviali, o la presenza o le informazioni di chi già conosce il percorso. Vi sono spesso, infatti, soprattutto nei fiumi regimentati, ostacoli di tipo artificiale di enorme pericolo, che vanno accuratamente evitati e che non sempre sono segnalati. Possono essere dighe o sbarramenti, canalizzazioni o prese d’acqua. Di norma sono di 1° grado i fiumi che scorrono in pianura (corso inferiore); in queste discese non è necessario il paraspruzzi.

Quando vi sono rapide facili, corrente veloce, maggiore pendenza, rocce e ostacoli che si possono evitare e onde relativamente piccole e diritte, il fiume si può classificare di 2° grado. Possono scenderlo i principianti in grado di padroneggiare il kayak; è utile usare il paraspruzzi; di norma il fiume è nel suo corso medio-inferiore.

Il 3° grado presenta rapide moderatamente difficili, onde e buchi sono più impegnativi, le rocce affioranti devono essere evitate con perizia ed è necessario conoscere bene le manovre di base: in questa situazione è utile saper effettuare l’eskimo con sicurezza e rapidità. Il fiume è nel suo corso medio-superiore.

Nelle rapide di 4° grado vi è una notevole quantità d’acqua, le onde sono più alte, vi sono riccioli e rulli di un certo impegno, e alcuni ostacoli sono nascosti dall’acqua. Di norma il 4° grado è un passaggio (o una serie di passaggi) impegnativo nel corso medio-superiore del fiume. E necessario essere piuttosto esperti.

Il 5° grado è quasi il limite delle possibilità di discesa in canoa. Per affrontarlo è necessario essere molto esperti e in possesso di un’ottima tecnica, poiché qui si incontrano passaggi realmente difficili, che si superano in sicurezza con l’attenta assistenza di compagni altrettanto esperti. Il 5° grado si trova nel corso superiore del fiume, nei tratti alpini, con forte pendenza.

È considerato quasi insuperabile il 6° grado: valanghe d’acqua, gole, sifoni, strettoie, salti, presentano tali problemi che solo canoisti particolarmente amanti del rischio e decisamente capaci possono affrontare.

Un fiume non è mai classificato con un solo grado di difficoltà se vi sono tratti di diverse caratteristiche; il corso d’acqua verrà quindi segnalato con i due gradi maggiori di difficoltà. Stabiliti i propri limiti, è meglio ricordare di non sottovalutare mai un corso d’acqua, poiché vi sono ostacoli che l’inesperto può considerare banali ma che, in realtà, possono essere estremamente pericolosi. Quindi vanno sempre accuratamente evitati passaggi troppo vicini a rami d’albero immersi nell’acqua, perché possono imprigionare canoa e canoista; non vanno praticamente mai affrontati i rulli, ovvero quei ritorni d’acqua che si presentano dopo ostacoli artificiali e non, che possono far rotolare l’imbarcazione indefinitamente, trattenendola magari sott’acqua assieme al canoista; altrettanto pericolosi sono i cavi, e ostacoli vari, che a volte
si trovano nei fiumi e nei torrenti in piena.

Non si devono mai affrontare rapide di cui non si veda la fine o in cui non si scorga una zona tranquilla (detta ‘“morta”’) in cui poter sostare. Nei fiumi e nei torrenti impegnativi è necessario fare una ricognizione preventiva, o discendere solo con canoisti che conoscano perfettamente il corso d’acqua e siano in grado di segnalare anticipatamente particolari difficoltà e, eventualmente, saper soccorrere il canoista in pericolo. È anche consigliabile affrontare discese che non impegnino al limite delle proprie capacità, in modo da avere la possibilità di verificare la propria tecnica nei vari esercizi, gustando la gioia che si prova a “giocare” tra le rapide.

AI termine di qualsiasi discesa, entusiasmante o tranquilla, si presenta il problema del recupero, ovvero: come ritornare al punto di partenza dove si è lasciata l’auto col cambio asciutto, se non si è avuta l’accortezza di portarselo dietro nel sacco stagno? Ci si può affidare al “solito” amico non canoista, che seguirà in auto il percorso del fiume sulla strada fino al punto di arrivo; oppure si dovrà contare su almeno due auto, una delle quali sarà stata preventivamente portata all’arrivo. Non è consigliabile fare l’autostop, poiché difficilmente qualcuno carica un canoista grondante acqua, comunque, resterebbe il problema del materiale abbandonato.

È importante infine soffermarsi un istante sul problema della sicurezza e del soccorso su torrenti impetuosi.Oltre a non affrontare mai una discesa se non si è almeno in tre, il canoista previdente avrà sempre con sé una corda (meglio se galleggiante) di almeno 15 m., del diametro di 5/7 mm., un paio di moschettoni e, possibilmente, un imbragatura. Nei passaggi più difficili, o con possibile pericolo, dopo il consueto sopralluogo, almeno due canoisti assisteranno al passaggio dei compagni stando sulla riva del fiume pronti a soccorrere, con corda e imbragatura, il canoista eventualmente in difficoltà.

La conoscenza, e quindi la prevenzione, delle possibili situazioni di pericolo, sarà bagaglio del canoista accorto — nonché il sapere aiutare, in canoa o a nuoto, il compagno in difficoltà, a raggiungere la riva e a recuperare pagaia e imbarcazione. Qualsiasi buona scuola di canoa fluviale insegnerà comunque queste essenziali nozioni di sicurezza e soccorso in modo esauriente e completo.

Tratto da “Il libro della Canoa” di Andrea Alessandrini, edito da Gammalibri nell’Aprile del 1986. 


Ho conosciuto Andrea Alessandrini, l’Ammiraglio, più o meno nel 2006. E’ stato lui a conferirmi il “titolo” di Nostromo. All’epoca aveva un “laboratorio/base nautica” sulle rive del Lago di Pusiano, a Bosisio Parini. In quel laboratorio, che sembrava l’antro di un mago affacciato sul lago, produceva ancora – completamente a mano – i modelli più celebri delle canoe ASA: Kayak in fibra di  carbonio di una bellezza straordinaria. Passavo spesso le giornate ad aiutarlo, per lo più cercavo di mettere ordine in quel caos di “cimeli ammassati” che era il magazzino mentre lui lavorava, sempre a mano, agli stampi. Prima creava il “modello”, in pratica una “scultura” dello scafo della canoa realizato da una forma piena su cui passava ore infinite a grattare e stuccare. Da questa si creava il “negativo” dello scafo e lo si trattava affinchè diventasse lo “stampo”. Ogni stampo era quindi un pezzo unico, su cui si poteva realizzare solo una canoa alla volta. Nello stampo di stendevano “lenzuoli” di fibra di carbonio “spennellando” le resine: il processo e le dosi con cui mischiava i vari componenti era pura alchimia. Il risultato finale era uno scafo incredibilmente leggero ma allo stesso tempo robusto, rigido ma  elastico. La sua era davvero la maestria di un artista!

Quando era stufo di vedermi in giro per il laboratorio mi spediva sul lago, ogni volta con una canoa diversa. Sull’acqua ferma del lago di Pusiano quei Kayak da mare filavano stabili come missili!! L’ammiraglio, che invero era fatto decisamente a modo suo, aveva fissato delle “Puntine da Disegno” sulla mia pagaia perchè – con le buone o con le cattive – imparassi a tenere le mani nell’impugnatura giusta. Che nevicasse o ci fosse il sole il lago restava uno straordinario viaggio ed al rientro, quando il tempo era buono, concludevamo la giornata facendo una grigliata in giardino asciugando un paio di birre. Toscano, Geologo, Milanese d’adozione, Costruttore di Canoe Campioni del Mondo: che tipo l’Ammiraglio!  

Rileggendo il suo libro, che ha un posto d’onore nella Bibliotece Canova, non potevo che sorridere osservando come i gradi delle difficoltà fluviali assomiglino a quelli della scala “Welzenbach” utilizzata in arrampicata prima del VII° grado. 

Foto: nella foto in alto Andrea sul Danubio, lungo i suoi 2300km che vanno dalla Germania al Mar Nero. Qui sotto Canoisti – ASA – ai piedi dell’Everest, in Nepal, dove dal fronte del ghiacciaio sgonga il fiume Dudh Kosi, il fiume che scorre alla magior altitudine al mondo. Infine la copertina del libro, con Andrea in azione tra le acque bianche.

Terra di Uomini

Terra di Uomini

Ancora una volta ho sfiorato una verità senza comprenderla. Mi sono creduto perso, ho creduto di toccare il fondo della disperazione e, accettata la rinuncia, ho conosciuto la pace. In simili momenti si ha l’impressione di scoprire se stessi e diventare il proprio amico. Nulla potrebbe più prevalere contro un sentimento di pienezza che soddisfa in noi non so quale bisogno essenziale, che ignoravamo. Bonnafous, che si logorava nel dare la caccia al vento, ha conosciuto, immagino, tale serenità. Così pure Guillaumet, nella sua neve. E come potrei escludere me stesso, che, sepolto nella sabbia fino alla nuca e sgozzato lentamente dalla sete, ho avuto tanto calore in cuore sotto il mio mantello di stelle.

In qual modo favorire in noi questa specie di liberazione? Nell’uomo, tutto è paradossale, come ben si sa. Assicuriamo il pane a costui per consentirgli di creare, e si addormenta; il conquistatore vittorioso si sfibra, il generoso, se lo facciamo ricco, diventa tirchio. Che cosa c’importa, delle dottrine che si arrogano di dare incremento agli uomini, se prima non sappiamo qual tipo d’uomo incrementeranno. Chi nascerà? Non siamo una mandria da ingrassare, e l’apparizione di un Pascal povero ha un peso assai maggiore che non la nascita di vari anonimi benestanti.

Non sappiamo prevedere l’essenziale. Ognuno ha conosciuto le gioie più calde là dove nulla pareva prometterle. Esse lasciano una tale nostalgia da far rimpiangere le disgrazie, se sono state le disgrazie a renderle possibili. Abbiamo tutti assaporato, incontrando vecchi compagni, l’incanto dei brutti ricordi. Che cosa sappiamo, se non che esistono condizioni sconosciute, che ci fecondano? Dove sta di casa la verità dell’uomo?

La verità non è affatto in ciò che si può dimostrare. Se in un certo terreno, e non in un altro, gli aranci mettono solide radici e si coprono di frutti, quel terreno è la verità degli aranci. Se una certa religione, o cultura, o scala di valori, o forma di attività, e non certe altre, favoriscono nell’uomo quella pienezza, fanno si che in lui si sprigioni il gran signore che inconsapevolmente c’era, vuol dire che quella scala di valori, quella cultura, quella forma di attività, sono la verità dell’uomo. La logica? Si sbrogli a render conto della vita.

Abbiamo tutti saputo di certi bottegai che, in una notte di naufragio o d’incendio, si sono rivelati superiori a se stessi. Non c’è pericolo che ad essi sfugga la qualità di pienezza raggiunta in tal caso: quell’incendio rimarrà la notte della loro vita. Ma, per mancanza di nuove occasioni, di un terreno favorevole, di una religione esigente, si sono riaddormentati senza avere creduto nella propria grandezza. Certo le vocazioni aiutano l’uomo a sprigionarsi, ma è ugualmente necessario far sprigionare le vocazioni.

Antoine De Saint-Exupéry


Tratto da “Terra di Uomini” di Antoine De Saint-Exupéry. Una raccolta di racconti autobiografici pubblicata nel 1939, anni prima che l’autore/aviatore diventasse famoso per “Il Piccolo Principe” nel 1943. Tutti conosciamo la storia del giovane abitante dell’ asteroide B-612, della sua Rosa e del suo viaggio tra i pianeti: è una storia che si studia da bambini e che solitamante si rispolvera sui trent’anni per fare colpo su qualche ragazza. “Si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”: quasi nessuno ne capisce bene il senso, ma tutti concordano sulla sua profondità… anche quando del suo senso ne sono l’antitesi vivente. Per questo scoprire che la vita di Antoine De Saint-Exupéry è molto più interessante, umana, ed “eroica” nell’accezione più delicata del termine, di quanto si creda è stata una piacevole sorpresa. Emanciparsi dal reame della fiaba per scoprire lo speciale viaggio del “principe adulto”, del suo aereo, dei suoi libri, dei suoi grandi amori e della guerra. In più mi diverte l’incredibile somiglianza con il mio amico Krulak, compagno di mille avventure che avventure non furono. 

Davide “Birillo” Valsecchi

Foto: in alto il Lightning P 38 guidato da Antoine de Saint-Exupéry  fotografato dal suo amico John Phillips nel 1944 in Sardegna con Capo Caccia sullo sfondo. Soto: Antoine De Saint-Exupéry 

Grignetta: REL e Direttissima

Grignetta: REL e Direttissima

La “Direttissima” in Grignetta, che collega i Pian dei Resinelli al Rifugio Rosalba, è uno degli itinerari più noti e frequentati di tutto il gruppo montuoso. Percorrerlo significa addentrarsi attraverso le più famose “strutture” che compongono la cattedrale di pietra che è la Grignetta. Il sentiero è oggi attrezzato con funi metalliche e scale ma, in origine, nacque come itinerario alpinistico grazie all’intuizione di Eugenio Fasana che nell’Ottobre del 1911, insieme con Luigi Binaghi e Giuseppe Maccagno, riesce a individuare un percorso che dai Resinelli raggiunge il Colle Valsecchi sulla Cresta Segantini. Solo nel 1923 la sezione CAI di Milano attrezza l’itinerario con catene nei punti più esposti, piazzando una scala metallica per superare un salto verticale.  

Sulle pagine di “Cima” la Direttissima e la sua storia sono state trattate spesso, tuttavia questo itinerario è diventato per me il “termine di confronto” per comprendere i cambiamenti che verranno introdotti dalla REL, la Rete Escursionistica della Lombardia. Con una legge regionale del 27 febbraio 2017, la Lombardia ha deciso di censire e catalogare la propria rete escursionistica definendo quelli che sono i sentieri escursionistici, i sentieri alpinistici, le vie ferrate, i siti di arrampicata. Un censimento che si prevedeva concluso entro il 2020.

La legge definisce le differenze in questo modo:

  • sentieri escursionistici: percorsi ubicati in pianura, collina o montagna, destinati all’attività turistica, ricreativa o alle pratiche sportive e del tempo libero, privi di difficoltà tecniche, costituiti da mulattiere, sentieri e strade vicinali interpoderali utilizzati anche per scopi agro-silvo-pastorali, per il raggiungimento di rifugi.
  • sentieri alpinistici: percorsi che si sviluppano prevalentemente in zone di montagna e conducono, anche mediante tratti attrezzati con funi, corrimano e brevi scale, a rifugi alpini, bivacchi fissi e località di particolare interesse alpinistico e naturalistico, alpeggi e piccoli borghi.
  • vie ferrate: tratti di percorsi su pareti rocciose impervie, creste, cenge e forre, dotati di cavi, catene, staffe, funi, passerelle o altri ancoraggi fissi, utili a consentirne la percorribilità;
  • siti di arrampicata: pareti rocciose ripide, verticali o a strapiombo in cui si trovano vie di arrampicata di difficoltà e tipologie diverse, anche attrezzate con chiodi, fittoni e catene che permettono la sola autoprotezione dell’utente.

In quest’ottica la “Direttisima” potrebbe apparire di difficile catalogazione, nella realtà però il tutto si riduce in modo piuttosto semplice: EE, sentiero per escursionisti esperti, oppure EEA, sentiero per escursionisti esperti attrezzati.

Chi frequenta spesso la Grignetta avrà avuto occasione di osservare comitive di “Milanesi”, nell’accezione più bonaria del termine, muniti di caschetto, imbrago, set da ferrata e guantini che si guadagnavano, anche onorevolmente invero, la cima della Grignetta passando dalla Direttissima, dallo Scarrettone e dal canale Federazione:  un giro impegnativo e tutto attrezzato, in cui infilarsi l’imbrago alla partenza ha un suo senso. Certo, può far sorridere tutto quell’armamentario, ma è giusto che ognuno sia libero di affrontare una salita come crede, “melius abundare quam deficere” quando vi è la possibilità (catene e scale, più o meno, ci sono dal 1923). La questione è che questa potrebbe diventare la “regola”: la direttissima smetterebbe di essere un “sentiero” per diventare una “ferrata”?  

Sebbene l’attuale cartellonistica riporti EE, dalle prime indiscrezioni, “sembra” che nel REL verranno inseriti come EEA sia la Direttissima quanto il Sentiero della Cresta Sinigaglia (rif. Porta -> vetta Grignetta), la Traversata Alta (vetta Grignetta -> vetta Grignone e rif. Brioschi) il Sentiero Giorgio (parte della Direttissima), il Sentiero Cecilia (rif. Rosalba -> vetta Grignetta), il Canalone dell’Angelina: (Direttissima -> sentiero Cecilia) ed il Sentiero dell’alta Val Scarettone (Colle Valsecchi -> Bocchetta del Giardino). Curiosamente, almeno per me, il Canalone Porta – che io reputo più pericoloso – sarà considerato solo EE visto che non sono presenti “infissi geotecnici”.  

Già oggi sul web, “da yogalpinismo a sassbaloss”, la maggiorparte di questi itinerari sono descritti, forse con leggerezza, come EEA ed è pertanto probabile che questa “consuetudine” abbia poi effetto diretto sulla classificazione finale. Già nel 2016, quando vi fu una massiccia ristrutturazione dei sentieri attrezzati in Lombardia,  nelle pubblicazioni della Regione la Direttissima, lo Scarettone ed il Sentiero Cecilia venivano già elencati come vie ferrate.

Orbene, mi è capitato di percorrere lo Scarrettone in discesa e sotto la pioggia e, posso garantirvelo, ho decisamente apprezzato il potermi aggrappare al cavo metallico, quindi non è mia intenzione recriminare sulla loro presenza. Tuttavia se viene definito EEA – ovvero percorso che al pari delle ferrate richiede l’uso dei dispositivi di autoassicurazione – diventa difficile capire dal punto di vista della legge cosa cambierà se percorso senza imbrago, dissipatore e lounge omologata. “Dura Lex Sed Lex”: non è un cambiamento da sottovalutare.

Le ferrate inoltre, come recentemente il territorio lecchese ben sa, quando non sono a norma di legge vengono “Vietate” ed il passaggio non è “a proprio rischio e pericolo” ma diventa un “illecito”  e, come tale, in qualche modo “sanzionabile” o “punibile” in caso di incidente o responsabilità. In passato, quando i cavi erano rotti, la Direttissima è già stata definita “inagibile”: il passaggio era “vietato” o “sconsigliato”?

Il REL, che in senso generale è un’iniziativa positiva, trasformerà la Grignetta in una gigantesca Ferrata? Tutti in fila, tutti appesi ad un cavo, tutti con la mascherina ad un metro di distanza? Non sembra un radioso futuro per l’Accademia dell’Arrampicata… 

Fortunatamente non sta a me decidere, anche se sono preoccupato per le scelte che verranno fatte sui Corni e sul Moregallo: paradossalmente si rischierebbe di poter risalire la Crestina OSA in libera mentre diverrebbe mandatorio il set da ferrata per il Belasa o la cresta Occidentale.

Nel mentre non posso che rileggere e condividere con voi la descrizione della Direttissima che ne dava Silvio Saglio nel 1957.

AL RIFUGIO ROSALBA m 1730 PER IL SENTIERO DELLA DIRETTISSIMA, ore 2.30; traversata da compiersi con attenzione, in alcuni tratti facilitata da corde, scalette e arpioni. — Dal Rifugio C. Porta m 1426 una comoda e larga viottola si dirige a settentrione per passare in cospetto dell’artistica stele della Madonna delle Rocce e attraversare con due risvolte il freschissimo Bosco Giulia. La viottola termina su un ripiano donde dirama due sentieri: uno prosegue a d. e, per la Costa dell’Asinino o Cresta Cermenati, raggiunge la vetta della Grigna meridionale; l’altro, il «Sentiero della Direttissima», svolta a sin. e corre pianeggiante e di costa per breve tratto, portandosi alla base del Musone dell’ Asinino, dove su una balza è scolpito nel vivo un vecchio segno di confine del Comune di Mandello. Il sent. passa poi al di sopra di un minuscolo faggeto, attraversa la foce del Canalone Caimi e s’incontra con quello proveniente dal Piano dei Resinelli. Dopo il Canalone Caimi risale a serpentine lungo una costa erbosa con vista sempre più ampia, s’inoltra verso la base di altri roccioni e, con diminuita pendenza, attraversa qualche colatoio secondario, s’innalza a svolte per un’erta china d’erba. All’incontro di un profondo canale la traccia rimonta il pietroso e franoso pendio di d. si perde alla radice di uno spuntone roccioso, sale per facili roccette friabili e, spostandosi a sin. per roccioni lisci ma facili, scende in un canaletto ben gradinato fino al fondo del canalone, di fronte all’aspra «paretina». Si supera la paretina servendosi di arpioni, quindi ci si sposta a sin. su un ripiano con ringhiera e ci s’innalza per facili gradini rocciosi verso una scaletta, con la quale si entra nel caminetto e lo si risale (1 ora). Al di sopra deì canzinetto il sent., dopo un tratto piano, scende con poche svolte, percorre la cengetta Ferrari alla testata di un profondo valloncello, scavalca uno speroncino e, dopo un secondo e terzo sperone, si abbassa in un canale. Di qui sale a un intaglio, correndo su cenge erbose, su tacche rocciose, munite di corde metalliche e, dal fondo del Canalone dei Piccioni, s’innalza verso lo sperone che divide dal Canalone di Val Tesa e perviene alla sella che i separa il Campaniletto, la Torre, la Lancia e il Fungo. In seguito prosegue in piano, scende sul fondo di un canalone, si alza a un altro intaglio, dal quale si ammira la Torre Costanza, la caratteristica Mongolfiera, la elevata Piramide Casati e il poderoso Torrione Palma (ore 0.30-1.30) e si biforca. Si segue il sent. di sin. che si abbassa sul fianco e sul fondo di un canale detritico, si scavalcano alcune costole rocciose e si giunge alla base dello spigolo meridionale della Piramide Casati. Di qui si riprende la salita per un canale e per una ripida china erbosa e ci si porta sul Sentiero Cecilia tra il Colle Garibaldi e il Colle Rosalba. Raggiunto quest’ultimo valico, la traccia discende nel versante di V. Scarettone e, dopo essere passati tra un roccione e la Torre Rosalba, si porta nei pressi della cresta, che raggiunge al Rifugio Rosalba m 1730 (ore 1-2.30; v. N. 502).

– RIFUGIO ROSALBA

Con un’unica denominazione vengono ora indicati i 2 rifugi che sorgono a m 1730, sulla cresta che separa la V. Monastero dalla V. Scarettone nei pressi del Colle del Pertusio. Il luogo è bellissimo; meraviglioso il panorama sulla vicina verde Brianza, sul sottostante azzurro lago, sulla lontana brumosa pianura lombarda limitata dagli evanescenti Appennini e sull’imponente e scintillante cerchia alpina che, appoggiandosi al colossale pilastro del M. Rosa, si stende ad arco dalle Marittime alle Retiche. La località è frequentatissima come meta a sè e come punto di partenza per brevi e divertenti arrampicate.

Il vecchio rifugio fu donato da Davide Valsecchi alla Sez. di Milano del CAI, che lo chiamò col nome della figliola; fu solennemente inaugurato il 15 luglio 1906 e ampliato nel 1921. È tutto in legno, esternamente rivestito di lamiera di zinco. Attualmente dispone di 9 cuccette nel dormitorio comune, 6 nel dormitorio signore, 6 nel sottotetto e 2 nel locale del custode, tutte di rete metallica; è dotato di materassi, di guanciali, di sufficiente numero di coperte, di lenzuola, di suppellettili di cucina e di mensa. Il nuovo rifugio, inaugurato nel 1955, è una costruzione in muratura a 2 piani, con 33 cuccette, riscaldamento a stufa, illuminazione a gas liquido, cassetta medicazione. – Sono aperti con servizio d’alberghetto nei giorni festivi di maggio, giugno, settembre e ottobre, mentre in luglio e agosto funzionano continuativamente.

Dominio del Vuoto

Dominio del Vuoto

“Arrampicate Libere sulle Dolomiti” è uno dei nuovi volumi che si sono aggiunti alla Biblioteca Canova. Un libro di Severino Casara, seconda edizione del 1950 dopo la prima del 1944. Casara, nato il 26 Aprile del 1903, fu un valente arrampicatore nonché compagno di cordata di Emilio Comici fino alla sua caduta fatale, nell’ottobre 1940.  Il testo è un  connubio tra i suoi ricordi, le imprese con l’amico Comici e le testimonianze raccolte su Paul Preuss, scomparso il  3 Ottobre 1913, di cui ha ricevuto gli appunti personali.

«L’ascensionismo non è uno sport, come molti profani ed alcuni arrampicatori vorrebbero sostenere – scrive Casara illustrandoci la sua visione di alpinismo –  ma concezione squisitamente eroica che eleva l’uomo audace ad uno stato di grazia sulla montagna. È il dominio del vuoto. Infatti il corpo è librato nell’aria, eccetto i quattro punti degli arti che toccano la parete levigata e strapiombante. È il volo umano senz’ali verso l’alto. »

Casara riceve l’archivio di appunti, relazioni e fotografie di Paul Preuss dalla sorella Minna e dal cognato Paul Relly. «Narrare qui le imprese di Preuss sarebbe troppo lungo, basterebbe ricordare che nella sua breve vita egli riuscì a compiere su tutte le Alpi oltre 1200 ascensioni, fra le quali 150 di nuove e oltre 300 da solo! E cadde a 27 anni!».

L’autore, nel passaggio che ho voluto riproporre qui, riporta le celebri “sei massime” di Preuss arricchendole con la traduzione di suo testo originale in cui illustra e spiega la sua teoria alpinistica. Dalle testimonianze del libro emerge poi l’insospettabile carattere di Preuss: avevo sempre creduto fosse una personalità schiva e solitaria, invece traspare una figura luminosa e socievole, amata e benvoluta. “Salire montem in laetitia” fu il suo motto. Così, ora le sei regole non mi sembranop più essere pilastri d’etica o fondamenti della vera sicurezza, ma mi appaiono invece come linee guida d’ispirazione per la ricerca di una felicità che sembra in parte perduta. 

Ecco il testo di Casara e di Preuss:   

[Severino Casara – 1994] Preuss era un purista e riteneva che la lotta coi monti fosse intrapresa liberamente e, vorrei quasi dire, onestamente, senza l’aiuto di alcun artificio. Usava la corda solo quando si univa a compagni: ma in tal caso aveva ideato un nodo che si sarebbe facilmente sciolto qualora egli fosse precipitato, e non avrebbe così travolto l’amico. Considerava che le difficoltà maggiori di arrampicamento si sogliono incontrare «negli strapiombi in parete libera e nelle traversate»; e la massima «quando gli uni e le altre si combinano». Derideva i tanti che parlano di arrampicate «per pareti lisce come un muro, senza appigli e senza appoggi». Diceva che non ne aveva mai vedute. Ad affermare tale principio, quello di vincere anche le più difficili montagne con le sole proprie risorse naturali, non poteva essere che lui, creatura eletta e dotata delle migliori energie fisiche e morali. Era già stato maestro in ogni esercizio, sì da vincere i campionati accademici austriaci di tennis, scherma e pattinaggio, figura e stile. Ma ben presto la sua attività si rivolse tutta alla scuola severa della montagna.

Sostenne con vari scritti e illustrazioni la necessità di salire sulla montagna senza l’uso dei mezzi artificiali, utili soltanto in caso di pericolo. Il suo nuovo verbo, che rivoluzionava la già invadente tecnica alpina dei chiodi e della doppia corda, provocò discussioni in tutti gli ambienti alpinistici. Il 31 gennaio del 1912 il dott. Preuss fu invitato a una riunione a Monaco promossa dalla Sezione Bavarese del D. Oe. Alpenverein. Tutti i migliori esponenti dell’alpinismo parteciparono a quella storica seduta: Nieberl, Oertel, Dilfer, Jacobi, Leuchs, Hibel, Piaz e tanti altri. E Preuss quella sera espose brillantemente la sua teoria fondandola sulle note sei massime, che trascrivo:

  1. Non bisogna essere soltanto all’altezza delle difficoltà che si affrontano, ma bisogna essere nettamente superiori ad esse
  2. La misura delle difficoltà che un alpinista può con sicurezza superare in discesa senza l’uso della corda e con animo tranquillo, deve rappresentare il limite massimo delle difficoltà che egli può affrontare in salita.
  3. La giustificazione dell’impiego dei mezzi artificiali vi è soltanto nel caso di pericolo.
  4. Il chiodo da roccia è una riserva per casi di necessità, ma non deve essere il fondamento di una tecnica speciale.
  5. La corda può essere una facilitazione ma non il mezzo indispensabile per rendere possibile una salita.
  6. Su tutto deve dominare il principio della sicurezza. Però non l’assicurazione forzatamente ottenuta con mezzi artificiali in condizioni di evidente pericolo, ma quell’assicurazione preventiva che per ogni alpinista deve basarsi sul giusto apprezzamento delle proprie forze.

Venne pure esaurientemente discussa la distinzione fra alpinismo e acrobatismo. E Preuss, esposte le sue vedute sull’essenza dell’alpinismo e sulle relazioni con l’acrobatismo, concluse che la meta da raggiungersi è la loro fusione. Espose inoltre il suo fondamentale principio di poter sempre discendere rampicando per dove si è saliti. Principio incredibile allora — e più ancora oggi che nell’alpinismo ha preso il sopravvento l’acrobatismo — ma da lui dimostrato assolutamente veritiero. Chi mai compie oggi una discesa per roccia senza far uso della corda doppia e dei chiodi? Da ciò è derivato che pochissimi hanno imparato a scendere dalla roccia arrampicando per dove sono saliti.

Su tale argomento Preuss si soffermò con una chiara e convincente esposizione che credo utile tradurre: «Ammetto volentieri che l’arrampicare in discesa è più difficile che quello in salita, ma questo perchè gli alpinisti ci sono meno abituati e perchè non l’hanno imparato. Effettivamente i punti più difficili si possono fare arrampicando in discesa quando soltanto si conoscono già in salita. Ma che vi sia un punto fattibile con sicurezza in salita ma non in discesa, lo posso escludere per mia esperienza personale. L’arrampicata in discesa, come già ho replicato a Piaz, può essere imparata e la capacità di arrampicarsi in discesa deve guidare l’alpinista nella scelta delle sue imprese. Appunto il fatto che Nieberl mette tanto in rilievo il pericolo delle mie teorie, è prova di quanto poco egli abbia compreso l’intimo significato di ciò che io pretendo. Io sarei «un mostro senza cuore» e il mio ideale «un orribile Moloch» se fosse vero che pretendo che gli alpinisti in certa maniera sappiano «morire in bel modo». Con quanta poca fondatezza mi sia rivolta tale accusa può Nieberl giudicare da questo. Volentieri seguo il suo pensiero «un solo misero chiodo da roccia lo avrebbe salvato». Ma chiedo di più. Era necessario e sarà sempre necessario che continui così? Non ci sarà una Potenza che difenda l’alpinista da se stesso, che gli impedisca di spingersi all’estremo limite delle sue possibilità, dove Vita e Morte si contrastano in un equilibrio già instabile? Negli ultimi anni, molti, spaventevolmente molti, sono caduti a morte proprio nel superare punti difficili. Ma sarebbe forse morto alcuno dei caduti se il sentimento morale e sportivo loro fosse stato giudicato dalla massima: « Nessun passo avanti, dove tu non puoi ridiscendere? ». Il Moloch è il principio attuale, e lo dimostrano i risultati degli ultimi decenni, e centinaia di vittime gli si sono immolate. Crede dunque Nieberl che la maggior parte degli alpinisti sappia meglio manovrare colla corda e coi chiodi che i con la roccia e con se stessi? Per impiegare i mezzi artificiali « moderatamente e con criterio », come dice Nieberl, si dovrebbe essere già maestri di prim’ordine. Ma in tal caso non se ne avrebbe bisogno perchè si dovrebbe stabilire il limite delle proprie possibilità. « E ora mi capirà forse bene Nieberl se dico: vi è un’importante esigenza e cioè l’educazione dell’Alpinismo. Bisogna educare i principianti a frenare il loro amor proprio ai limiti delle loro capacità, a tenersi elevati nella loro morale come nella loro tecnica, non più alti e non più bassi. Nel sapersi trattenere e frenare si rivela il maestro! L’autorizzazione morale per difficili ascensioni non risiede in attitudini fisiche o in virtuosismi di tecnica quanto nella educazione delle basi spirituali e morali e nel corso dei pensieri dell’alpinista. «La bella epoca del vecchio Alpinismo può risorgere se regolando le ascensioni coll’educare lo spirito e la mente degli alpinisti si respingerà di nuovo nei suoi confini il «decadimento mentale i sportivo » (sportversimpelung), come lo ha chiamato Planck, la «manualità dei mestieranti » (handwerkméssige Betrieb), come la chiamerei io. «Ora i monti sono odiati, combattuti con ogni mezzo; ma si imparerà a temerli e ad amarli! ». Preuss certo antivedeva dove si sarebbe andati a finire con l’ammettere l’uso indiscriminato dei chiodi. Chi avrebbe più potuto fissare un limite? La parola «impossibile » sarebbe un po’ alla volta scomparsa. Dall’alpinismo si sarebbe passati all’acrobatismo; dalle vittorie sulla montagna libera e pura, alle gare sportive sulla montagna addomesticata. Si sarebbe anche arrivati alle « strade ferrate » fino alle cime… (col biglietto d’ingresso?).

E ci siamo arrivati. Se si continua sempre di più con questo… progresso di piantamento di chiodi (siamo giunti ai 60 e più per una sola via), non occorrerà neppure farle costruire da apposite imprese industriali, queste «strade ferrate», perchè vedremo divenuta realtà la predizione di Irving nel suo famoso «The romance of Mountaineering », il romanzo dell’Alpinismo: «Verrà giorno in cui la via segnata da corde e da chiodi che un arrampicatore costruirà per vincere una sua parete non sarà più possibile distinguerla da una funivia… ».

Foto: Preuss all’attacco della sua parete al Campanil Basso (28 Luglio 1911), Preuss sul DonnelKogel, Copertina libro.

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