Buzzati ed i racconti di montagna

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Dino BuzzatiDannata influenza!! Settimana scorsa, il 13 Gennaio 2009, sono ripresi gli incontri letterari con il Professor Nello Evangelisti. Io ero a letto malato e mi sono perso l’introduzione al racconto fantastico e a Dino Buzzati.

Tra l’altro credo che fosse anche un piccolo omaggio alla tradizione alpinistica di Asso perchè tra le opere di Buzzati si era scelto proprio tra le prime, dedicate ad una delle grandi passioni dell’autore, la montagna.

Già, la montagna, con la sua immensità, il suo silenzio, la sua atmosfera magica e fiabesca. Il tema dell’attesa e della volontà di riscattarsi, di avere una “grande occasione” che possa conferire un significato alla propria vita nel confronto con tanta magnificenza. Questa era la visione di Buzzati e nella foto lo potete vedere proprio tra le sue montagne.

Mentre parlavano di montagne e foreste con uno degli autori italiani più interessanti io ero a letto con l’australiana!! Mai che dica bene!!

Il prossimo appuntamento è per Martedì 20 Gennaio sempre alle ore 17 in Biblioteca ad Asso, verrà affrontato e concluso il tema della Montagna di Buzzati.

Voglio riportare qui un racconto di Dino Buzzanti pubblicato sul “Corriere della Sera” nel 1954 e tratto da “Cronache Terrestri”. Racconta una vicenda accaduta alla nota guida alpina Cesare Maestri e all’amico Luciano Eccher nell’estate del 1954 sul Campanil Basso di Brenta.

Credo che tutti i decani della montagna della nostra zona conoscano questa storia e mi sembra giusto riportarla anche per i giovani.

Il racconto si intotola “Taglia, taglia che almeno tu ti salvi” di Dino Buzzati:

Questa è la storia di una delle avventure più paurose che ricordi l’alpinismo dolomitico. È accaduta questa estate [1954, N.d.R.] sul Campanile Basso di Brenta, picco finissimo per il meraviglioso slancio della sua architettura e la difficoltà delle numerose vie di salita. Bellissimo da ogni versante, da ogni versante è stato attaccato e vinto. Ormai non ha più una parete, spigolo, fessura, strapiombo dove non sia passato uomo. La via normale, di quarto grado, è già una scalata rispettabile. Tutte le altre sono difficili.
Alcune toccano il massimo limite delle possibilità cioè il sesto grado. Di sesto grado è appunto il vertiginoso itinerario tracciato da Marco Franceschini e Stenico sullo spigolo Nord-Ovest del cosiddetto Spallone, del Campanile.

È un impressionante pilastro giallo che balza dalle ghiaie per 370 metri protendendo in fuori i baldacchini di terribili strapiombi. Ne volle rifare la scalata, due mesi fa, la guida Cesare Maestri con l’amico Luciano Eccher, di 26 anni. Benché estremamente difficile, l’impresa non era troppo preoccupante per Maestri che ne aveva fatte anche di peggio e per di più da solo, con prodigi di coraggio e di raffinati acrobatismi. In quanto a Eccher, era un compagno degno dì lui e affiatatissimo.

Difatti, pur avendo deviato dalla via originale e incontrato ostacoli anche maggiori, i due superarono brillantemente i primi 170 metri, che sono i più duri. Verso sera Maestri, dopo una delicatissima traversata sull’orlo di uno strapiombo spaventoso, approdò a un piccolo ma sicuro terrazzino. Gli restavano sì ancora 200 metri di parete, ma assai meno impegnativi. La vittoria per così dire, era già in tasca. Meno male, perché la notte stava avvicinandosi e si era messo a nevicare. Maestri piantò tre chiodi assicurandovi la corda e poi disse al compagno di venire.

Eccher compì la traversata e giunse quasi al terrazzino. Maestri, che via via ritirava la corda, vide spuntare la sua testa, e lo calcolava già al sicuro quando fulmineamente il fatto accadde. “Luciano mi guardava sorridendo, – racconta Maestri, – ma all’improvviso ha fatto una curiosa smorfia come se fosse seccato, poi è sparito sotto.”

Nei punti più difficili, dove mancano gli appigli e specialmente sugli strapiombi quando la roccia viene in fuori, gli alpinisti non solo piantano chiodi per poter procedere ma talora a questi chiodi fissano delle staffe per appoggiarvi i piedi. Eccher si sosteneva appunto a una staffa con tutto il peso quando il chiodo si staccò. Le mani non avevano presa sufficiente. Fece un volo.

Di sotto non c’era che il vuoto. Il terrazzino infatti rappresentava l’orlo di un tetto che sporgeva in fuori per alcuni metri. Eccher è tutt’altro che un pancione ma i suoi 70 chili nessuno glieli leva. Lo strappo fu tale da fare saltar via un secondo chiodo poco sopra la staffa e poi un terzo proprio quello su cui Maestri stava “facendo assicurazione”. Partiti i tre chiodi (ne restavano altri due sopra il terrazzino ma vi era fissato il capo opposto della corda, quello dalla parte di Maestri) il peso del corpo proiettato nel vuoto si sfogò tutto sulla spalla e sulle braccia della guida. Fu uno strattone tremendo. Maestri ne restò letteralmente piegato in due e andò a sbattere con la faccia sulle rocce. Nonostante il dolore tenne con tutte le sue forze. Accartocciato quasi a testa in giù sull’aereo terrazzino, semiaccecato dal sangue che gli grondava dalla fronte, le braccia convulsamente strette a trattenere la corda, Maestri per qualche istante si sentì perduto. Poi a poco a poco si riebbe.

«Luciano, Luciano, come va?»
“Bene, bene.” Rispose dal basso l’invisibile compagno con straordinario spirito. “Sei giù molto?” “Saranno 5 metri.”
“E puoi toccar la roccia?” “Impossibile, è troppo lontana.” “Allora cerca di venire su a braccia. Ce la fai?“
“Adesso provo.”
Eccher provò. Ma era un’impresa inverosimile, con una corda così sottile, dopo quel tremendo colpo.
Riuscì a sollevarsi un paio di metri ma poi le mani mollarono. Giù di nuovo a piombo. Maestri, in quella sua assurda posizione, fece di tutto per reggere al secondo strappo. Ma un bel pezzo di corda gli sfuggì dalle mani.
“Luciano! Luciano!”
“Niente paura. Solo che a venir su a forza di braccia io non ce la faccio.”
“E adesso quanto sei giù?”
“Adesso saranno 10 metri.”
Un lungo silenzio tra gli alterni mugolii del vento. La neve veniva giù sempre più fitta. Poi la voce di Maestri: “Luciano, ho paura che non resisto più.” “Cesare, – fu la risposta, – taglia la corda che almeno tu ti salvi!”
Questo poi mai, pensò Maestri.
Con sforzo supremo riuscì a sollevarsi un poco così da mettersi in ginocchio.
“Cesare! Cesare!” “Cosa c’è?” “Prova a calarmi per tutto il resto della corda. Forse riesco a toccare le rocce» (era soltanto un’illusione). “Aspetta, adesso provo.”

Fu perché Maestri mosse il piede sotto il quale la corda si era incastrata? Fu perché le sue mani non ressero? Fatto sta che ad un tratto non riuscì più a tenere. Udì il sibilo della fune che strisciava a velocità furiosa sull’orlo del terrazzino, una forza irresistibile lo succhiava nell’abisso.
Guardò i due chiodi superstiti coi due relativi moschettoni a cui era fissata con un’asola la corda. Avrebbero tenuto?

Poi venne il colpo. La corda si tese spasmodicamente. I due chiodi si incurvarono come se fossero di burro, per una minima frazione di secondo sembrarono schizzar fuori dalla fessura dove erano infissi. “Adesso volo anch’io” pensò Maestri. Ma i chiodi miracolosamente resistettero.

Di sotto, Eccher aveva compiuto il terzo volo. Questa volta fino a completo esaurimento della corda. Un tuffo di altri 20 metri buoni. Precipitando guardò in su. Si sentì serrare atrocemente in vita. Rimbalzò in su tre metri almeno. “Impossibile che i chiodi tengano” fu il pensiero “ora vedo schizzar fuori anche Maestri. Ci sfracelleremo insieme.” Poi fu una quiete inverosimile. Lentamente Eccher prese a girare su se stesso. Si chiamarono, cercando di parlarsi.

Ma a quella distanza, più di 30 metri, era difficile. Intanto si era fatto buio. Maestri, sul quale non gravava più il peso del compagno, sostenuto ormai dai chiodi, si levò finalmente in piedi e misurò la situazione. Di tirar su Eccher a forza di braccia neanche a pensarci. L’unica tentare di proseguire lui da solo fino alla vetta scendere dalla parte più facile e andare a chiedere soccorsi. Ma avrebbe fatto in tempo? Sospeso a una corda per la vita, Eccher avrebbe resistito? In uguali situazioni, più di un alpinista era morto per soffocamento. Per fortuna Eccher è un ragazzo di raro sangue freddo e ottimismo.

Invece di lasciarsi prendere dal panico, si industriò per rendere il meno tormentoso possibile il suo stato. Si passò una staffa intorno al torso così da poter appoggiare la schiena. Altre due staffe le fissò alla corda in modo da potervi introdurre le gambe e così restar quasi seduto.

Poi si disse: “Se Maestri va a cercar soccorsi, posso vivere tranquillo.” Mentre contiuava a nevicare, Maestri slegatosi, gridò a Eccher: “Arrivederci”, e riprese la salita. Come abbia fatto, con quel buio pesto, a superare 200 metri di buon quinto grado, per noi resta un mistero.

Giunto sullo spallone, contornò il Campanile Basso per la larga cengia battezzata scherzosamente stradone provinciale. E stava per calarsi lungo la via comune quando, affacciatosi alla parete Sud, vide giù una luce che avanzava sul sentierino che porta all’attacco. Chiamò. Era suo fratello Carlo che, preoccupato del ritardo, era salito dal rifugio Tosa. “Corri al rifugio, – gli gridò Maestri, – fa venire su quanti più è possibile con tutte le corde che ci sono. Ma prima va sotto lo spigolo e avverti Luciano che i soccorsi arriveranno; che si faccia coraggio!” Infatti ciò che più temeva era che l’amico si lasciasse vincere dalla stanchezza e dallo scoraggiamento; nel qual caso sarebbe stato perduto.

Ora non restava che aspettare. Maestri riuscì a scovare sulla cengia un buco abbastanza riparato e, meraviglioso esempio di equilibrio nervoso, ci fece una bella dormita: ciò che era la cosa piu opportuna dopo il travaglio sofferto e in vista di quello che gli restava da soffrire.

Alle 2,30 di notte le guide Bruno e Catullo Detassis e Giulio della Giacoma con tre bravi rocciatori, Mario Fabbri di Trento, Dado Morandi e un altro di Roma, erano sullo stradone provinciale. Al lume incerto delle torce elettriche, dalla sommità dello spallone, Maestri, Catullo Detassis e Morandi furono calati per 110 metri. Maestri e Detassis scesero quindi per loro conto a corde doppie fin sopra il terrazzino, piantarono una bella quantità di chiodi e calarono subito a Eccher due corde, per mezzo delle quali, a trazione alterna, cominciarono a tirarlo su. A ogni strattone guadagnavano una ventina di centimetri.

Il sollevamento durò tre ore e mezzo. Alle 9 del mattino finalmente Eccher toccò il terrazzino. Era pallido come la morte, ma ancora in buone condizioni. “Fa un curioso effetto – disse – rimettere i piedi sulla terra”.
Era rimasto appeso nel vuoto, in maniche di camicia, con un tempo da lupi, 13 ore giuste.

Spero che la storia vi sia piaciuta. Credo valga la pena di spendere due parole sul protagonista.

Cesare Maestri infatti è uno dei personaggi più noti del panorama alpinistico italiano. Famose furono le sue spedizioni sul Cerro Torre, una delle montagne ritenute più dure al mondo.

Nella prima spedizione perse la vita Toni Egger (da non confondere con Luciano Egger del racconto). Cesare raccontò di aver raggiunto la vetta ma di aver perso la macchina fotografica durante la caduta di Egger. Non vi erano quindi prove della sua salita e questo diede vita ad un lungo periodo di aspre polemiche alpinistiche.

Nel 1970, con un altra spedizione, partì nuovamente alla conquista della montagna armato di un compressore e di un martello pneumatico con il quale approntò una salita completamente “in artificiale”. In segno di sfida durante la discesa spaccò tutti i chiodi e lasciò appeso il compressore ad una catena 100 metri sotto la cima.

Il mitico Jim Bridwell ripercorse nel 1979, senza l’ausilio dei chiodi di Maestri, quella che oggi viene chiamata la “via del compressore” e dichiarò che i segni dei chiodi si fermano a 30 metri sotto la vetta. (Jim Bridwell, un ricciolone americano con la faccia allerga, a cavalcioni del compressore di Maestri mentre fa finta di essere seduto su una motocicletta è un fotografia leggendaria!!)

Che Mestri ci sia mai arrivato o meno questo poco mi importa, il suo livello è assurdamente superiore al mio perchè io possa anche solo permettermi di muovere critica. A me basta pensare che Luigino Airoldi, uno dei miei miti di cui in passato vi ho già raccontato l’incredibile umiltà e simpatia, ha conquistato nel 1974 la prima indiscussa salita di quella montagna con una spedizione dei Ragni di Lecco.

Con lui c’era anche Daneile “Ciapin” Chiappa, capo del Soccorso Alpino che ci ha purtroppo lasciato per una malattia l’anno scorso, Mario Conti, Casimiro Ferrari e Pino Negri. Nomi che sono a diritto tra le leggende locali!!

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Incredibile Luigino!!!
Buon viaggio “Ciapìn”, in bocca al lupo…

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