Siete ancora lì?

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Tornare a casa dal Congo è un viaggio duro. Per prima cosa si devono sbrigare tutte le pratiche all’aereoporto e l’impresa può essere più ardua del previsto dato che i “mundele”, i bianchi, da queste parti sono visti come piante da frutto o vacche da mungere. Un agente della dogana mi guarda, sorride compiaciuto e mi dice in inglese «Gli americani dicono sempre “In Dio noi crediamo”» e la sua ironia non è poi tanto sottile: la citazione è  infatti stampata a chiare lettere sul biglietto verde da 50 dollari che si ritrova ora ben stretto in mano. “Mundele, pesa mbongo!” poco conta essere volontari per un’ospedale-orfanotrofio “Mundele, donne-moi l’argent!”.

Ad Addis Abeba va anche peggio: dopo sei ore di volo ci ritroviamo nell’aereoporto circondati da connazionali di ritorno dalle vacanze. Spiace ammetterlo ma gli italiani in viaggio spesso sanno dare tutto il peggio di sè distinguendosi nei modi peggiori. “Quando eravamo nella caldara del Ngorongoro la nostra tenda era davvero pessima e nel bagno non c’era l’acqua calda per la doccia. Lo scorso anno in Kenia erano molto meglio attrezzati!” Si lamenta una signora dalla faccia irritante senza nemmeno rendersi conto di come stia bistrattando uno dei luoghi più misteriosi ed affascinanti del pianeta, una meraviglia ormai ridotta ad un triste Luna Park di lusso. Dal canto mio io ripenso al secchio giallo e blu con cui trasportavo l’acqua per lavare i bambini e, nemmeno troppo  silenziosamente, auguro alla vecchia di riportare in patria, oltre alla puzza sotto il naso, qualcosa di esotico come la “quarantana” o un paio di “pulci della sabbia” annidiate sotto le unghie dei piedi.

Finalmente a Malpensa il calvario finisce: a “recuperare” me e Bruna ci pensa Emanuele del team Flaghéé. Quando mettiamo piede in casa sono le sette del mattino e si concludono così le nostre ventiquattro ore di viaggio.

Crollo nel mio letto e la prima cosa che noto è il silenzio: salvo le fusa della piccola Nora, la mia gattina diventata sempre più grande, non c’è alcun rumore o alcun suono. Nelle ultime cinque settimane la notte era animata in modo costante dai suoni degli insetti, degli uccelli e degli altri animali. Il mio preferito era un’uccello il cui verso sembrava il suono del clacson di una macchina d’inizio novecento: peee peee. Di giorno poi era sempre un via vai costante di persone, di gente che urlava in francese o in lingala, di bimbi chiassosi o piangenti. Completamente al buio non sento niente: è come essere in una tetra campana di vetro isolata dal mondo. Una sensazione strana che piano piano sfuma mentre gli occhi si chiudono e morfeo mi abbraccia.

Siamo tornati e, lo confesso, siamo un po’ stanchi: serve un bagno caldo, un po’ di riposo e qualcosa di nostrano da mettere sotto i denti.

Per via della precaria connessione ad Internet ho potuto leggere, un po’ a fatica per la verità, solo parte dei messaggi che ci avete inviato (rimedierò con calma ora). Come sempre ho provato a raccontarvi ciò che avevo difronte anche se spesso, in questo viaggio, non era facile farlo. Spero di non essere stato troppo crudo o troppo brusco nel raccontarvi gli aspetti più duri di una realtà difficile e complessa come quella della pediatria. Ora che mi è più facile leggere mi piacerebbe, se vi và, sapere cosa ne pensate o cosa vi ha colpito di questo mondo distante che abbiamo provato a mostravi.

Fate con comodo, io per un po’ torno a dormire!
Ciao a tutti e grazie per averci accompagnato lungo la via.

Davide e Bruna

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