Becca di Monciair 3.544 m

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Sabato e Domenica ancora un’uscita insieme al gruppo della Scuola Alto Lario d’alpinismo. Alle sei del mattino Franco passa a prendermi  davanti a casa (è il mio vicino!) e  la nostra piccola carovana di macchine inizia la lunga e perigliosa avventura verso la Val d’Aosta superando ogni stramaledetto ed ingordo casello autostradale (27 euro di pedaggio solo per l’andata!)

Entrando in Valsavarenche Il paesaggio intorno a noi si trasforma ed entriamo un mondo fatto di montagna e meraviglia. Siamo nelle Alpi Graie, nel cuore del Parco Nazionale del Gran Paradiso, il più antico Parco nazionale d’Italia nato della famosa riserva delle Regie Cacce in Montagna voluta dal primo re d`Italia Vittorio Emanuele II.

Lasciate le macchine, attrezzatura a spalla, iniziamo a salire verso il Rifugio Vittorio Emanuele a 2.732 m.. Seguiamo la famosa strada regia di Caccia e davanti a noi appare la vetta aguzza della nostra destinazione: la Becca di Monciair, a 3.544 metri di quota.

La nostra allegra compagine raggiunge il rifugio prima di pranzo e dopo una breve sosta tutti si riattrezzano indossando l’equipaggiamento. Alle due del pomeriggio, sotto un sole splendente ed ustionante, siamo ai piedi del ghiacciaio di Moncorvè sotto il monte Ciafron e gli istruttori mostrano agli allievi come attrezzare una calata in corda doppia.

Franco, Matteo ed io saliamo un po’ più in quota ed attrezziamo un piccolo “parco giochi” fatto di placche e neve dove rivediamo gran parte delle manovre. Calate in doppia, risalite su corda fissa, vari usi della piastrina, Machard, Prussic, ancoraggi e recuperi. Presi da una strana forma di entusiasmo didattico rievochiamo persino tecniche ormai in disuso come la discesa in doppia a spalla.

La sera il freddo inizia a farsi sentire ed al riparo tra i sassi  così come il feroce tocco del sole sulle pelle mi regala qualche brivido.  Al riparo tra i sassi ci ritroviamo tutti insieme a godere degli ultimi raggi di sole prima del tramonto. Andiamo in branda molto prima che arrivi il buio: l’indomani infatti dobbiamo alzarci alle tre di notte se vogliamo trovare la neve nella  giusta condizione.

Quando suona la sveglia è come se al buio si animasse un piccolo formicaio. Il rifugio, nel cuore della notte, trabocca di vita ed oltre a noi, che siamo una trentina, altri ottanta alpinisti si preparano a salire la vetta del Gran Paradiso. Il salone da pranzo si riempie di gente che ingolla caffè e marmellata ancora mezza addormentata. Mi guardo intorno e quasi rido: in settimana non la incontro mai una simile folla!

Illuminando i passi con la frontale iniziamo la nostra salita e, calzati i ramponi e formate le cordate, ci avventuriamo nel ghiacciao di Monciair. Si risale per un ampio pendio iniziando un lungo traverso verso uno sperone di roccia chiamato il “gendarme” posto sulla cresta. Da qui si avanza tra neve e sfasciumi di roccia verso la cima. Il rischio maggiore, oltre alle pendenze sul traverso, sono i sassi: si cammina con i ramponi appoggiando ogni piede sul pietrisco con attenzione perchè se parte qualche sasso succede un casino!

Poco prima di affrontare la salita finale il nostro “socio” Matteo comincia ad avere una tosse secca e cupa. Mi giro e, legato dieci metri dietro di me, lo vedo piegato in avanti, appoggiato a due mani con la testa sulla picozza. Lo guardo e capisco: anche io ho provato quella posizione e la sensazione che la permea. “Oi! Come va Teo?” Lui alza la testa e mi racconta. Fino a qualche minuto prima si sentiva in piena forma mentre ora si sente improvvisamente esausto, ha la nausea e sebbene non se ne renda conto è meno lucido e reattivo.

Il mal di montagna è qualcosa che non si può comprendere fino a quando non lo si prova e, quando questo accade, è davvero difficile scordarselo! I fattori che possono “fregarti” in questo modo sono davvero tanti ed a volte semplicemente succede: la quota e la salita ti piegano in due.

Tutti e tre insieme raggiungiamo un punto protetto ed assolato a ridosso del gendarme. Matteo si copre e si siede, per lui è quasi impossibile fare un altro passo in salita.

Fortunatamente è una giornata di sole caldo e siamo in molte cordate a percorrere la salita tutti insieme ed il buon Matteo  decide pazientemente di aspettarci mentre superiamo gli ultimi cento metri di salita. Diversamente, soprattutto se le condizione fossero state avverse ed il suo malessere più intenso, avremmo dovuto assulatamente farlo scendere di quota il prima possibile.

Franco ed io saliamo in vetta con la massima rapidità, stringiamo le mani ai nostri compagni, scattiamo le foto di rito e ci affrettiamo a ricongiungerci con Matteo. Guardarlo è come rivedere se stessi nello specchio della memoria: è una sensazione indimenticabile.

Inevitabilmente irrigidito dal freddo si muove lentamente e quasi scordinato riprendendo la discesa. L’aiuto a sistemarsi i nodi sull’imbrago perché, sebbene non se renda conto, commette piccoli errori e leggere dimenticanze. Lui stesso, più tardi, mi ha raccontato di come in quel momento si sentisse lucido ma di come, guardando come lo aiutavo, capisse che ciò non era vero.

Con pazienza ed attenzione lo abbiamo aiutato a scendere di quota attrezzando ad ogni passaggio una rudimentale ma solida assicurazione con la picozza. In quel momento, quando il mal di montagna inizia prenderti, pensi solo ad una cosa: “scendere” e credi di farlo nel modo migliore possibile anche se questo non è vero (e qui sta il vero pericolo!). Questo è quello che ho provato io in passato e quello che mi ha confermato anche Matteo ieri. Fortunatamene mi è capitato solo una volta di sentirmi in quel modo e vi posso assicurare che è come se qualcuno staccasse all’improvviso la corrente spegnendo tutto!

Una volta scesi di duecento metri di quota Matteo sembrava una persona completamente diversa: nausea e vertigini erano passate e sentiva di nuovo la forza nella gambe! Stava di nuovo bene ed era nuovamente in forma!

Alle dodici meno un quarto eravamo nuovamente al rifugio da cui eravamo partiti alle quattro del mattino. Seduti con una birra in mano abbiamo chiacchierato molto dell’accaduto ed è stato proprio Matteo ad insistere che raccontassi qui su “cima.” Sono sensazioni davvero difficili da comprendere e solo imparando a conoscerle si possono comprendere meglio molti degli aspetti dell’alpinismo in alta quota. Vederlo piegato in avanti sulla picozza è stato il mio campanello di allarme: «Se inizi a sentire la picozza “comoda” allora qualcosa di importante ha smesso di funzionare!», questo è il motto che Teo ha inventato per la situazione e contiene una grande verità.

Nonostante questa piccola esperienza d’alta quota (più educativa che pericolosa) eravamo tutti incredibilmente felici e soddisfatti per i due giorni trascorsi su quelle magnifiche montagne. Ringrazio quindi i miei due compagni di cordata: Franco e Matteo, che qui vedete sorridenti e felici sulla strada del ritorno.

Ringrazio (come sempre) gli istruttori della Scuola Alto Lario e faccio i miei complimenti agli allievi del corso di quest’anno che oltre ad essere molto “forti” sono un gruppo davvero spassoso!

Alla prossima!

Davide Valsecchi

(Il tracciato è parziale, manca una parte della discesa non alpinistica, perchè il cellulare GPS si è scaricato una volta scesi nuovamente sopra il Rifugio Vittorio Emanuele)

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