Attilio Piacco: battuti e respinti

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Ieri è stata una giornata davvero piacevole nonostante la parete Fasana ci abbia inequivocabilmente sconfitto. Già, dopo la via Fasana e la via CRI ci siamo arenati sulla via Attilio Piacco. In realtà non ci siamo proprio arenati: ci siamo persi.

Andiamo con ordine. Al mattino una leggera pioggerellina sembrava voler mandare i nostri piani in fumo poi, verso mezzo giorno, il sole è tornato a splendere asciugando la roccia. Al rifugio della SEV abbiamo incontrato Pietro Paredi, ex guida alpina ora sulla settantina è stato uno dei protagonisti dell’epopea alpinistica dei Corni.

Pietro, sempre gentilissimo e disponibile, ci ha accompagnato insieme a Sandro (che era con me sullo Strahlhorn domenica) fino all’attacco della via tenendoci compagnia dal fondo del ghiaione. La via Attilio Piacco deve il proprio nome all’omaggio che nel 1967 vollero tributare Giorgio Redaelli e Roberto Dotti ad uno dei fondatori dell’omonima scuola di alpinismo di Valmadrera. Come molte altre vie della parete Fasana è una perla della storia dell’alpinismo locale.

L’attacco è appena a sinistra di quello della via CRI, le due vie infatti si incrociano poco sopra il diedro che forma la prima evidente fessura. E’ un attacco violento, subito duro, che si alza in fretta e porta ad una cengia inclinata invasa dall’erba che conduce alla prima sosta.

«Ai miei tempi non c’era tutta quell’erba! Era tutto meno sporco» ci urla Pietro «Comunque il più è fatto, ragazzi. Il duro era all’inizio, poi attenzione nel diedro scuro in alto: forza, il più è fatto!» Agita le mani in cenno di saluto e riprende la sua passeggiata con Sandro.

La CRI ripiega verso sinistra mentre noi proseguiamo, a rigor di logica, verso destra innalzandoci in un diedro e seguendo sempre verso destra una fessura. Ci sono dei vecchi chiodi in buono stato ed altri raddoppiati per far spessore come si usava nei tempi eroici: la via sembra giusta.

Il secondo tiro è davvero godibile, impegnativo il giusto e protetto qua e là con dei friends.  Quando raggiungo Mattia in sosta, però, qualcosa comincia a non quadrare. Il secondo passaggio chiave della via è un grosso diedro/camino scuro che corre a sinistra del “tetto” dei Corni ed è il passaggio che, sulla carta, dovrebbe avere il grado di VII e VI+ con la possibilità di tirarlo in A1.

Per arrivare alla base del diedro dobbiamo però raggiungere un gradino obliquo e seguirlo. Il problema è che dalla sosta dobbiamo guadagnare tre metri superando una placca che, inizialmente gradinata, si fa poi sfuggente ed aggettante. Mattia attacca la placca e, per la prima volta da quando lo conosco, mormora deciso: «Okkio che sto per andare!»

Senza tuttavia cadere il buon Mattia riguadagna la sosta ed insieme cominciamo a guardarci intorno. Sulla placca non c’è nulla, né moderno né antico. Solo un solitario chiodo arrugginito e malsicuro fa mostra di sè un metro oltre la placca. Scostandosi di lato vediamo un fix sulla destra, anche lui ad una distanza impossibile oltre la placca.

Sempre guardandoci intorno capiamo che la nostra sosta è stata riammodernata perché si trova in linea con una via moderna che sale perfettamente verticale, supera la placca e prosegue oltre.  Che via sia non ci è dato saperlo, sulle relazioni non compare nulla tra l’Attilo Piacco e la Esposito Galli (più a destra oltre lo spigolo). Le uniche vie riportate sono Saponetta (6c) e Cornibus (6b+) due monotiri moderni che, sempre stando alla carta, dovrebbero fermarsi più in basso.

Certo, qualche “eroe moderno con il grado alto” riuscirebbe a superare quella placca anche chiodata in quel modo ma per noi resta il problema di capire come, negli anni 70, abbiamo superato un simile ostacolo che nella relazione non sembra comparire.

Chiodi su quella placca non ne hanno messi (ne avrebbero potuto) e così abbiamo incominciato ad esplorare. Calo Mattia verso sinistra e lascio che traffichi con l’unica fessura che sembra risalire la pancia esterna della placca. Mattia è deciso a passare, pianta due chiodi e si alza arrivando quasi a rimontare la placca e raggiungere il gradino. Per raggiungere lo spit (che cmq sembra appartenere ad un’altra via) deve però affrontare tre metri di traverso dove non è possibile metter nulla a protezione.

«Ma son passati di qui?» Il problema è che tutti i passaggi che stavamo individuando erano ben oltre il V o V+ che mostrava la relazione: c’era qualcosa di sbagliato in tutto ciò. Mattia (dopo che ho iniziato a brontolare) scende lentamente disarmando i chiodi (che ormai erano tre) e riguadagnando la sosta.

A sinistra c’era una cengia obliqua piena d’erba che calava di tre o quattro metri e da cui era possibile imboccare un piccolo diedro o, volendo, spingersi oltre lo spigolo e raggiungere delle placchette piuttosto appoggiate. Calo Mattia che inizia a guardarsi intorno dal basso «Volendo di qui si passa, ma cmq anche qui non c’è dentro nulla. I vecchi qualche chiodo l’avrebbero lasciato».

Forse ci siamo alzati troppo, forse avremmo dovuto tenere più la destra lasciando la fessura (che appariva però la via più logica) attraversando alcune cengie erbose (magari puliteai tempi) risalendo più in linea con il successivo diedro. Il disegno più recente della via, per quando approssimativo e spesso inesatto, riporta infatti i  due diedri in linea mentre noi avevamo comunque da affrontare un piccolo ma significativo traverso.

Solo qualche gocciolone di pioggia ha convinto Mattia a desistere e a risalire alla sosta. «Amico mio, tocca andare a bere la birra» ho iniziato a scherzare «Noi qui siamo indigeni, non possiamo metterci nei casini sbagliando strada». Mattia ha riso «Già, ma qui ci tocca ritornare!» A Mattia non piace lasciare le cose a metà, tuttavia quel passaggio ci stava rubando troppo tempo ed anche superarndolo non ce ne sarebbe rimasto a sufficenza per risolvere eventuali ulteriori casini nel grande diedro. Inoltre, visto i goccioloni, nessuno voleva prendere nuovamente una scuffiata di pioggia come era successo sulla CRI.

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Con una doppia da sessanta siamo arrivati alla base ed il tempo, quasi a volerci prendere in giro, ha smesso di far piovere. Mentre riassettavamo le nostre cose, ad ulteriore smacco,  chiudevano le imposte al rifugio e scendevano a valle: «Niente birra…»

«Dai, facciamo almeno il punto della bandiera: facciamoci il trii cioo!» Così, ancora imbragati, abbiamo dato l’assalto al diedro sud-est del pilastro che fronteggia la parete Fasana. Il pilastro deve il suo nome dialettale, tre chiodi, perché nei tempi andati un alpinista forestiero impiegò ben tre chiodi per risalire il versante Nord. Visto che i locali percorrevano quel tratto in libera usarono quel nome a sempiterno scherno del poveretto (tenete presente che poco più di un mese fa anche il mio socio Fabrizio, ancora alle prime armi, l’ha salito in libera con gli scarponi e che quindi lo sfotto era più che giustificato).

Sul lato Sud Ovest vi è una semplice via di III+ mentre per risalire la via del fessura di Sud-Est abbiamo dovuto usare 4 friend, due chiodi (uno nostro, uno già presente) e tre spit posti sulla cresta!!Quindi il pilastro, spesso bistrattato, una via tosta, aggettante e di forza ce l’ha e non è da prendere alla leggera!!

Ma non è la conquista del “Trii Cioo” ad avere reso la giornata speciale. Ho desiderato a lungo arrampicare sulla Parete Fasana ma ripercorre le sue vie facendo “filotto” non era ciò che desideravo. Attilio Piacco ci ha fermato,  e nel farlo ci ha donato un regalo: ci ha costretto a guardare nuovamente in alto, a studiare, a conoscere, a fantasticare e, infondo, a sognare. Non è una gara a punti, siamo lì per conoscere e raccogliere un “testimone” per il futuro.

Quella che segue è una foto su cui ho tracciato quella che credevamo fosse la traccia da seguire. Il cerchio giallo indica il punto dove si trova la sosta, la placca, le possibili soluzioni laterali ed il vecchio chiodo.

viaIl diagramma riportato su “Isola senza nome” è davvero impreciso. La guida, poi, si sta dimostrando un po’ troppo “alla buona” ( …i “consigliata” e “frequentemente ripetuta” si sprecano ingiustificatamente troppo spesso in quel libro!!). L’unico diagramma decente che ho trovato risale alla prima pubblicazione del 1979 della guida di Tessari e Mandelli ed è quello qui sotto.

Ho idea che la prima sosta originale fosse molto più in alto, che la seconda sosta da noi usata all’epoca non esistesse e che il primo A1 riportato nella relazione non fosse dentro il diedro ma proprio sulla placca (questo giustificherebbe l’impennata di grado di quel tratto). Resta ora da capire come fecero a superare in artificiale quel passaggio visto che non sembra rimasto nulla delle protezioni originali.

Non resta che tornare lassù e scoprirlo!

Davide “Birillo” Valsecchi

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