Stella Alpina

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«La Grande Onda» Dal basso sembra di osservare un oceano increspato da cavalloni e frangenti di roccia su cui sta per riversarsi dall’alto l’onda più grande. Sia la parete Nord-Est del Corno Orientale che la Parete Fasana al Corno Centrale sono caratterizzate dalla presenza di un grande tetto aggettante che, morbido e compatto, si lancia oltre la linea, oltre l’orizzonte verticale. Già, l’orizzonte verticale, perché su quelle grandi pareti ci sono attimi in cui verticale ed orizzontale si confondono, “sdraiato in piedi” cerchi di restare a galla sulla roccia grigia, circondato dalle onde, mentre la più grande, la più imponente sembra prendere forza davanti a te prima di infrangersi. Soli tra le onde dell’oceano, ecco cosa significa trovarsi nel cuore di quelle pareti.

Alle otto e mezza siamo già operativi ed imbragati: le luci del mattino sono magnifiche e la giornata è calda, la parete però è perennemente al buio e sarà un freddo intenso e pungente ad accompagnarci. Sono le salite fatte durante l’inverno a darci la forza di addentrarci nell’ombra, nonostante le nostre gambe tremino ad ogni sosta mentre i piedi e le mani si intorpidiscono. I Corni bisogna guadagnarseli ed infatti i primi due tiri attraversano roccette malferme e paglione, prima risalendo e poi affrontando un lungo traverso che porta verso sinistra attraversando un canale erboso e costeggiando il limite della roccia.

Il piede del corno Orientale è fatto di roccia friabile e franosa, per questo la via attacca a metà della sua altezza. Prima ancora di iniziare a salire abbiamo sotto di noi oltre 80 metri di vuoto che precipitano verticali verso il ghiaione. Guardi in basso, guardi il traverso: no, una volta qui non si torna più indietro.

La roccia è compatta e le placche tracciano piani e linee che mozzano il fiato. La prima fessura risale leggermente verso sinistra e poi piega verso destra prima di affrontare un lungo traverso su placca verso sinistra che ripara alla base del diedro.

Mattia attacca, risale fino al secondo chiodo e poi si aggancia con il cliff. Non c’è modo di passare se non seguendo il lascito degli apritori. La via, aperta da G.Crippa e G.Arosio nel 1963, è costellata dai vecchi chiodi con cui, davvero eroicamente, superarono la grande placca. Noi non abbiamo staffe ma solo un pedale di fettuccia: lavoriamo insieme dandoci voce e manovrando le corde. Ogni chiodo, ogni metro guadagnato, è una storia a se stante. Nella nostra peregrinazione un paio di chiodi li acchiappiamo al volo con veri e propri “lanci” dell’anello di fettuccia lunga. Sull’uscita della fessura Mattia pianta un chiodo: «Non c’è nulla per le mani, devo alzarmi tutto sul pedale e sdraiarmi in avanti per raggiungere il chiodo. Metto il chiodo ad U: non credo possa reggere il peso ma mi serve per avere un minimo di equilibrio mentre mi allungo. Occhio!».

Mattia si allunga e passa. Con noi abbiamo 15 rinvii ma doppiamo “razionarli” posizionandoli e togliendoli perché, diversamente, non sarebbero sufficienti per affrontare interamente il tiro. Salvo i Fix delle soste i chiodi sono tutti vecchi ed originali. Sono numerosi e ben piantati, ma ognuno di esso va verificato e ribattuto perché ormai sono sulla grande parete da oltre 50anni: qualcuno è indomito come il primo giorno, qualcun altro si flette come una “carezza d’addio” quando lo carichi.

Se il terzo tiro è prevalentemente in artificiale il quarto è arrampicabile e risale prima sulla sinistra della grande fessura poi piegando a destra ed infilandosi finalmente nella spaccatura che risale ai piedi della grande onda. Guardandoti intorno, osservando come le placche si intersecano tra di loro, vedi l’eleganza delle linee con cui è disegnato il mondo: ciò che dal basso sembrava solo un muro compatto è in realtà un universo di movimenti immobili. Qualcosa che disorienta e davvero difficile da descrivere.

Il quinto tiro è il cuore della via. Sotto la sosta troviamo un vecchio cuneo di legno incastrato nella spaccatura. Nonostante gli anni è ancora perfettamente conservato e, protetto dal  grande tetto che lo sovrasta, sulla roccia sono ancora visibili i segni che ha lasciato strisciando mentre veniva inserito. Per rispetto ed in omaggio a quel cimelio antico agganciamo la nostra corda con un rinvio ed affrontiamo la grande spaccatura.

Sono due i punti chiave del tiro che, tra tutti quelli della via, è il meno protetto. In quei due passaggi ci sono solo due possibili approcci. Il primo, quello elegante usato da Mattia, alla Dülfer: a sbalzo nel vuoto in opposizione con le gambe mentre le mani sono in trazione sullo spigolo della fessura. Il secondo, meno elegante ma a tratti eroico, con cui sono passato io: «A cavalcioni: una gamba incastrata nella fessura e ti alzi cavalcando la roccia». Questo è quello che un giorno mi raccontò aver fatto Pietro Paredi, guida alpina emerita, quando trovò la placca bagnata negli anni eroici dei Corni. La mia roccia era asciutta ma il suo consiglio è quello che ho seguito (con grandissima soddisfazione!)

Risaliti alla sosta non restava che ammirare ancora una volta la parete e riemergere, finalmente al sole, sulla cima del Corno. Stesi alla luce, coperti da maglioni e giacche, abbiamo atteso sdraiati che il calore della primavera si infondesse nuovamente in noi. «Senti che bello il caldo: solo ora mi rendo conto di quanto freddo abbiamo patito!»

La grande onda, avevo finalmente cavalcato la grande onda. Ci sono gesti che apparentemente non sembravano avere nessun valore, nessuna importanza concreta. Eppure questi gesti, sdraiato  sotto l’azzurro del cielo di primavera, sanno sciogliere la felicità in una lacrima commossa: la grande onda del corno orientale…

Davide “Birillo” Valsecchi

Stella Alpina – Corno Orientale Gruppo Corni di Canzo
11 Aprile 2014: Mattia Ricci (capocordata) e Davide “Birillo” Valsecchi.
Ancora una volta i migliori complimenti al mio socio: grande Mattia!

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