Via Cassin Pizzo d’Eghen

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Riccardo Cassin e Giuseppe Comi tracciarono la via il 4 settembre del 1932 seguendo le indicazioni di Eugenio Fasana che nel 1926 aveva tracciato una linea di salita nel grande canale sulla destra. La via, che corre 300 metri in un grande camino, è rimasta irripetuta fino al 1975. La prima ripetizione è di Benigno Balatti e Sergio Lanfranconi. Nonostante il prestigio della via sono pochissime le ripetizioni.

Grazie ad un sopralluogo, fatto mesi fa, abbiamo trovato una linea che permette di attraversare dalla Ghiacciaia del Moncodeno raggiungendo lo zoccolo a metà della sua altezza. L’avvicinamento attraversa uno scenario alpino assolutamente selvaggio ed inconsueto per le nostre montagne. A tratti, tra i mughi ed i rododendri, avevo l’impressione di ritrovarmi tra le alpi Carniche.

Risaliamo lo zoccolo con due tiri da quaranta raggiungendo la cengia erbosa prima del lungo traverso verso sinistra. Ci sono delle fisse in loco ma ormai piuttosto datate. La base del camino è molto aperta e si deve risalire un cono erboso più ripido ed impegnativo di quanto si tenderebbe a credere. Si fa sosta su uno spuntone. Il secondo ed il terzo tiro offrono un primo assaggio delle difficoltà che ci attendono. Due passaggi di VI uno dei quali richiede un A0: “Il passaggio è aereo ma si mantiene nel quarto” scrisse Cassin e questo dovrebbe darvi idea di quanto sproporzionatamente grande fosse il suo talento a ventitre anni.

Avanziamo bene, proteggengo a friend e piazzando quelche chiodo strategico. La partenza del quarto tiro è roccambolesca. Ci si incastra di corpo in una spaccatura a destra. Questo deve essere il tratto in cui probabilmente Cassin si appoggò in piedi sulla testa di Comi perchè, una volta che Mattia si è incastrato, ho dovuto allungarmi bloccandogli i piedi con le mani affinchè riuscisse a spingersi oltre.

Superata la strettoia si affronta un passaggio tutt’altro che banale in placca che risale dapprima verso sinistra e traversa sotto uno strapiombio verso destra raggiungendo una piccola cresta rotta. Le corde hanno cominciato a scorrere male e così Mattia, piegando verso destra, ha trovato una sosta a spit appena fuori dalla linea del Canale. Visto che le corde erano quasi bloccate mi sono legato a metà infilando il resto nello zaino. Raggiunta la sosta abbiamo attraversato verso sinistra riprendendo il camino. Qui il “ballo” si è fatto serio.

Avevamo atteso due settimane di bel tempo per affrontare la salita. Credavamo che questo ci avrebbe dato l’opportunità di affrontare “l’orrido camino” in buone condizioni. Non potevamo fare sbaglio più grande. Il camino è infatti largo un metro e qualcosa ma si infila nella montagna a tratti anche oltre sette o otto metri. Al suo interno scorre una persistente aria gelida che, imbattendosi nel caldo atipico di questi giorni, crea un’ intensa condesa che a volte appare visibile persino come vapore. La roccia trasuda, è fradicia e viscida come un sasso che in un fiume viene bagnato ad intermittenza dallo scorrere dell’acqua.

Avanziamo in opposizione superando grossi massi incastrati. Per uscire dal camino ci sono due tiri verticali ed il secondo è assolutamente terrificante. Mattia è uno straodinario caminista con una grande esperienza nell’esplorazione speleo tanto in Grigna quanto nel Triangolo Lariano: è un “trattore” e quello è il suo “ambiente”, ma nonostante questo non l’avevo mai visto tanto al limite, tanto vicino ad essere soverchiato dalle difficoltà. Dà tutto ciò che ha e quasi non basta.

Sul viscido piazziamo quante più protezioni possibili ma questo ruba tempo e la progressione si fa incerta, difficile e tremendamente lenta. Superiamo la quinta lunghezza ed attacchiamo la sesta. Mattia risale rocce rotte e si infila per quasi otto metri in una profonda forra nel cuore del camino. Sul fondo intravvede una luce filtrare dall’alto. I racconti di Cassin parlano di un gioco di incastri tra massi uscendo poi da un “foro inattravesabile”. Lo spettacolo è tuttavia agghiacciante, l’unica certezza è il muschio.

Mattia ritorna al bordo del camino e vediamo i chiodi artigianali ad anelli della variante Mandelli che risale verticale fino ad un grosso sasso aggettante. La nostra sola via d’uscita è un 6c su roccia fradicia. Mattia dà il meglio di sè, integra con qualche chiodo nelle posizioni più scomode e raggiunge il “canapo” sotto il sasso. Il passaggio è assurdo ed esposto come niente fino a quel punto. Mattia è costretto a fidarsi del canapo per girarsi, uscire dall’opposizione sul viscido e rimontare il masso aggettante.

Superato il masso piazza un chiodo a sinistra di un chiodone già presente, aggiunge un friend e crea una solida sosta a tre punti. Le corde non scorrono e così, ancora una volta raggiungo la verticale con metà delle corde nello zaino. Mattia si sporge oltre il sasso e mi urla “Fai quello che vuoi ma fallo in fretta!” Le alte temperature di questi giorni stanno per giocarci un’altro brutto scherzo: sopra il lago si sono addensati grandi nuovoloni neri ed un temporare di calore avanza minaccioso all’orizzonte. Mi infilo in quella “melma viscida” mentre l’eco dei tuoni si fa sempre più vicino.

Tra i chiodi ad anello abbiamo piazzato un paio di chiodi nuovi. Vorrei schiodare facendo attenzione a non rovinare la roccia ma la situazione si fa pressante, li lascio lì e sbuffando passo oltre. Supero il masso e stravolto in qualche modo arrivo in sosta. Il nero si è infilato nella valle e punta dritto verso di noi.

A sinistra del camino c’è un chiodo e poco più avanti un fix che punta verso una sosta di quella che dovrebbe essere la variante Balatti o “Prigionieri dei Sogni”. La faccenda si sta facendo pressante. Lasciamo il chiodo ad U nella sosta ed iniziamo il primo dei due traversi che dovrebbero portarci verso la cresta. Mattia attacca il secondo tiro e a metà mi urla “ARRIVA! Piazzo quante più protezioni posso! Arriva!!”. Il rumore della pioggia sugli alberi, qualche migliaio di metri più sotto, avanza inquiente accompagnato dal rumore dei tuoni e dal bagliori dei lampi.

Quando Mattia chiama la sosta siamo ormai investiti dalla pioggia. Davanti a me ho un tiro di trenta metri tutto in orizzontale, tutto su placca ormai fradicia. In inverno ci siamo allenati spesso ad arrampicare sul bagnato ma quello che ho davanti è qualcosa per cui non esiste allenamento. “Peccato, mancava così poco…” Un attimo di profonda tristezza mi assale, forse un rimorso o qualche rimpianto, poi spingo i motori a tutta forza.

Parto, supero un chiodo e proseguo. Mattia ha fatto un gran lavoro sfruttando clessidre e piazzando i friend. Avanzo appoggiando con attenzione i piedi sul bagnato. Avanzo, avanzo. Poi stacco le corde da un rinvio attaccato al cavetto metallico di un nat. Questione di un istante: volo, vado giù.

Tutta la mia realtà si condensa in un urlo: “MATTIA!” . Pendolo cinque metri sotto una clessidra, la corda si blocca, sbatto, d’istinto afferro una presa, piazzo un piede in appoggio attendendo che la clessidra esploda e mi frani addosso prima che la corda torni lasca. Ma la clessidra tiene: sono appeso su un vuoto infinito sotto la cima del Pizzo d’Eghen, su una placca bagnata mentre i fulmini del temporale ci sono addosso. La vita è strana alle volte.

Non posso esitare. “RIPARTO” “Davide! Tutto bene?” “BLOCCA LA GIALLA! RECUPERA LA BLUE!” Non posso esitare, non posso pensare, devo reagire. Inizio a ringhiare come un animale nella pioggia. Risalgo, chiudo il traverso e rimonto le rocce rotte fino alla sosta sui mughi dove mi aspetta Mattia.

La pioggia si attenua, sembra darci tregua anche se all’orizzonte altre nuvole nere e più cattive si avvicinano veloci. Finalmente riusciamo ad infilarci i K-Way sopra i vestiti fradici: “Ho fatto un gran volo Mattia, ho fatto davvero un gran volo…”

Avanziamo tra i mughi e le rocce della cresta cercando di raggiungere la cima. Dobbiamo andarcene, dobbiamo andarcene in fretta. Accendiamo le frontali, il buio che ci circonda rende ancora più spaventosi i lampi viola che illuminano il cielo. Dalla cima dobbiamo scendere fino alla sella e risalire fino al Palone. L’aria è imbarazzantemente elettrica mentre ormai alla cieca avanziamo a zig zag attraverso ragguardevoli passaggi sul profondo buio: “Siamo fottuti, non c’è modo di farcela in queste condizioni…”

Mattia vuole insistere ma proseguire è ormai follia: “Dobbiamo nasconderci!!” Troviamo una piccola nicchia al riparo dal vento. Scaviamo con le mazzette quanto basta per poterci stare entrambi. Abbandoniamo tutto il materiale in una cavità qualche metro più in là e ci seppelliamo fradici nel nostro buco, avvolti stretti in una metallina. Restiamo lì, attendendo che il temporale passi portandosi con sè la notte, il buio ed il freddo.

Alle quattro ed un quarto la sveglia del mio cellulare, come il mattino precedente, inizia a suonare ironica. L’alba non è distante e la pioggia è finita. L’aria fredda risale la valle e si infila sotto la metallina ed i pantaloni bagnati. Stretti uno contro l’altro tremiamo come foglie ma iniziamo a sghignazzare: forse ce la si fa.

Il sole sorge ma attendiamo a lungo che si alzi e che si faccia caldo per uscire dal nostro loculo. Lenti iniziamo a sistemare le nostre cose. La giornata si annuncia luminosa e splendente. Nella notte avevo piazzato una bottiglietta per raccogliere dello stillicidio ma la cattura è stata magra e sconsolante. “Ironia: tutta quell’acqua presa e finiremo con il morire di sete..”

Carichiamo nello zaino i nostri stracci bagnati e ritiriamo demoliti verso la Bogani. A differenza di Cassin noi troviamo la “Capanna Monza” aperta e la famiglia Bendetti, gentile e premurosa come sempre, placa la nostra sete. Abbandonati su quella panca finalmente la nostra avventura si conclude: “Bhe, siamo ancora qui a raccontarla…”

Certo, ogni volta che guarderò il Pizzo d’Eghen mi spunterà un sorriso compiaciuto all’angolo della bocca, tuttavia quello che Libéra ha scritto sulla quarta di copertina di “Dove strapiomba la roccia” è un assoluta verità. Confrantandoci con la grandezza di chi ci ha preceduto siamo davvero poca cosa, fanciulli, bambini viziati che giocano con gli affari seri degli adulti. Ridicolo il modo in cui in un’autoscatto ci illudiamo di essere forti facendo boccaccie appesi ad una sosta a fix.

“…troppe cose sono cambiate; non siamo cresciuti con la ferrea educazione data da una guerra e con la miseria che ne consegue. Non siamo abituati al sacrificio ed alla fatica e, se Cassin dava il merito di uscire da queste tremende prove al fatto che loro stessi fossero “più forti della tempesta”, non deve stupire se oggi ci si piega al minimo alito di vento. L’alpinismo è cambiato perchè gli uomini sono cambiati”. Rossano Libéra.

Credo di non essermi mai spinto tanto oltre in vita mia e probabilmente ho solo sfiorato la realtà delle cose. Incredibile il sorriso che certi ricordi terrificanti riescono a suscitare, forse c’è una punta di follia in tutto questo. La tradizione recita “chi arrampica ai Corni di Canzo arrampica ovunque”, ma sto giro l’abbiamo davvero combinata grossa: ancora una volta è stato un privilegio arrampicare con il mio socio. Grazie Mattia.

Davide “Birillo” Valsecchi

Via Cassin Pizzo d’Eghen
3/4 Luglio 2015, Mattia Ricci e Davide “Birillo” Valsecchi
(“I Ragazzi dei Corni”).

Note tecniche: per via della nostra frettolosa ritirata abbiamo lasciato due chiodi sulla sesta lunghezza. A coscienza di chi verrà decidere se lasciarli o toglierli con attenzione. Anche oltre il sasso del “canapo” abbiamo lasciato un chiodo ad U nuovo di pacca ed estremamente solido. Utilizzando l’altro chiodo presente ed un friend piccolo è possibile fare una solida sosta a tre punti da cui tenere d’occhio il compagno. Sul traverso della variante Balatti, dove sono volato, è rimasto un rinvio verde appeso ad una clessidra. Quei rinvii sono stati nostri compagni in tante avventure. Se qualcuno dovesse recuperarlo sarebbe per noi una straodinaria gioia riaverlo, ascoltare la vostra storia ed offrirvi da bere. Un fraterno abbraccio a tutti coloro che affronteranno il camino: testa sulle spalle bagai!

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