Moregallo FallOut

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Ci sono zone del Moregallo che sono selvagge, spesso quasi inesplorate ed irraggiungibili. Alcuni di questi luoghi rimarranno tali per sempre. Ci sono poi altre zone dove l’uomo credeva di aver posto il proprio dominio, la propria legge, ma che oggi, nell’incuria e nell’abbandono, stanno tornando selvagge, inesplorate, e spesso irraggiungibili. Il Moregallo è una montagna fatta di contraddizioni e contrasti, una montagna dove l’uomo ci è “andato pesante” senza però riuscire piegare la profonda anima ribelle del gigante inquieto. Cave, gallerie, teleferiche, esplosioni, ruspe e perforatori: il Moregallo non si è mai piegato ed ora è pronto a riprendersi ciò che gli appartiene.

Io e Keko cerchiamo parcheggio tra i bagnanti che si accalcano sulle spiagge accanto al Nautilus. I guard-rail della curva mostrano i segni di chi, uscendo a tutta velocità dalla galleria, si è ritrovato a spintoni sulle vestigia della vecchia strada strada tra Lecco e Bellagio, la Lariana. Con disappunto guardo le macchine sfrecciare accanto ai bambini che con il salvagente, in fila indiana tra le lamiere e l’asfalto, accompagnano i nonni al lago. «Keko, occhio alle auto. Vediamo di non farci scopar sotto da sti coglioni a manetta…»

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Lasciamo le auto, affianchiamo la galleria puntando al cancello. «Se è chiuso tocca scavalcare senza farci baccare» Ma il cancello è solo accostato: sgusciamo dentro, addentrandoci nella “zona morta”. Camminiamo lungo il dorso della galleria che, come un gigantesco verme, si infila nella montagna. Mio fratello non era mai stato da quelle parti e così lo accompagno fino alla vecchia galleria. Ci infiliamo attraverso le sbarre e curiosiamo all’interno, fino alla falesia degli AsenPark, fino alla finestra del DryTooling.

Poi torniamo ad uscire, il nostro obbiettivo è il sentiero che rimonta la grande scala in cemento e si inerpica su per i prati e le rocce fin sopra la galleria. Settimane fa mi ero avventurato da solo lungo il “sentiero della finestra”, il passaggio che costeggia le pareti e rimonta la scogliera sopra i finestroni a sbalzo sul lago (Gavatoio: settore NoSpitZone). Ero risalito fino ad una vecchia casa abbandonata e da lì avevo piegato verso i prati raggiungendo il sentiero del 50° Osa. Oggi volevo trovare linee ed uscite diverse.

Il sentiero si innalza ripido, curve e tornanti aggirano rocce e reti paramassi. Il fondo è per lo più lastricato da gradini in sasso appartenenti ad un tempo ormai perduto e oggi resi scivolosi dalle piogge del giorno precedente. Roccia baganta e vuoto sono sempre una pessima accoppiata, ma Keko sembra non preoccuparse e vien dietro bene.

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Chi ha aperto il sentiero sapeva il fatto suo e deve essere stata un’ impresa tutt’altro che banale risolvere quei passaggi obbligati. La traccia scorre abilmente alla base di piccole ma verticali pareti concrezionate, ingannando con maestria quel labirinto verticale di roccia e prati. Inaspettatamente ci troviamo davanti un ponte, un ponte in cemento che attraversa uno dei numerosi “colatoi” che dall’alto calano sul sentiero. Potrei aggirarlo più sotto, il passaggio per quanto scomodo sarebbe sicuro. Però un ponte è un ponte. «Osti… aspetta che vedo se tiene» Cammino leggero cercando di ignorare che, se crolla, rotolerò a valle fin dentro il lago accompagnato da simpatici blocchi di cemento. «Okay, tiene! Però non camminare in centro: per scrupolo stai sopra la putrella che lo sostiene» Keko, quasi annoiato dalle mie precauzioni, passa con noncuranza.

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Più avanti incontriamo una valletta. Mi abbasso nella gola fino raggiungere la testa di una cascata asciutta che precipita nel vuoto. Poi, lasciando il sentiero, iniziamo a risalirla. A Kekko piace esplorare in questo modo, credo che la montagna e l’alpinismo lo annoino così come annoiavano me alla sua età. Però esplorare l’ignoto è avventura, niente a che vedere con quell’immagine tronfia e vetusta della ripetizione pseudo-eroica con il gagliardetto del CAI in mano. Già, forse se qualcuno raccontasse ai giovani, con onestà ed umiltà, che “l’alpinismo vero è esplorazione ed avventura” avremmo una nuova generazione di alpinisti straordinari.

«Aspettami qui che è pericoloso» Un colatoio/camino si annalza lungo la parete, la roccia è terribilmente bagnata e resa liscia dallo scorrere della pioggia. Cerco appigli ed appoggi sicuri con i miei scarponi pensanti, ma la sensazione è piuttosto precaria. Appoggio la mia maglietta bianca sul limo verde della parete e mi alzo in opposizione spingendo gambe e braccia sulla schiena. Sto conciandomi da sbatter via, senzo inzaccherarsi i vestiti, ma per il momento resto su, saldo nell’incerto. Mentre salgo racconto a kekko quello che vedo. «Qui il colatoio forma una nicchia e poi riparte con una successiva cascata verticale. E’ un bel posto ma è difficile, soprattutto scendere: è tutto viscido. Aspetta che faccio una foto così lo vedi!». Con una mano estraggo la macchina distendendo il cordino che la assicura alla mia celebre e terrificante borsetta a tracolla. «Già, hai perfettamente ragione!» La faccia di Kekko appare oltre la mia spalla mentre sghignazzando mi tallona da presso. Metto via la macchina fotografica e lo insulto allegramente. Ci scambiamo di posto e, dopo che anche lui ha dato un occhiata, iniziamo a scendere. «Guarda che se scivoli mentre sei in appoggio vai giù in un botto: non hai il tempo di reagire!» Ma forse questi sono discorsi di un quarantenne di ottanta chili, un ventenne di sessanta vede il mondo in modo diverso: «Tranquillo! È pieno di appigli» mi risponde mentre con le sue mani da musicista agguanta microprese viscide.

Riprendiamo il sentiero e raggiungiamo la sommità della scogliera e, da lì attraverso il bosco, la vecchia casa affiancata dal grande masso erratico. «Questo è davvero un bel posto. C’è persino una sorgente d’acqua: dovremmo venire qui a provare questo sasso prima o poi». Gironzoliamo un po’ per il bosco puntando verso la Val di Inferno. Ormai si è fatto tardi, per evitare il caldo siamo usciti a pomeriggio inoltrato ma è tempo di trovare una strada verso casa. Devo fare in fretta ma non sbagliare, non prendere rischi con Kekko ed il buio che si avvicina.

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Esploro il bosco: un’altopiano è circondato da pareti strapiombanti. A Est e a Sud ci sono le scogliere che sovrastano la galleria ma a Nord mi trovo di fronte le grandi pareti che precipitano nella valle. Conosco quelle muraglie dal basso, le ho osservate facendo kanyoning tra le cascate. Non abbiamo tempo per scoprire se i camminamenti degli animali ci possono insegnare qualche nuovo trucco. Tenendomi ad una pianta mi sporgo a dare un’occhiata all’abisso ed alle piante che ci salutano dal basso. «No, di qui decisamente non si passa».

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Dovrei tornare sui miei passi, tornare alla casa, tornare al sentiero. In cuor mio so benissimo, anche per esperienza, che scendere tra i pendii di un bosco circondato da salti rocciosi è una scelta tra le più rischiose, ma la curiosità ha la meglio. «Voglio essere chiaro: proviamo a scendere di qui, ma se non trovo un passaggio che sia accettabile devi essere pronto a rifare tutta la salita senza protestare. Ci sono troppi salti di roccia violenti per pensare di insistere nell’incerto.» Mio fratello accetta il patto ed inizio ad inseguire linee tra le foglie.

A mente cerco di aggiornare la mia mappa, la proiezione del mondo nella mia testa: cerco di intuire lo scorrere delle gole, il movimento dei pendii, il passaggio degli animali. Ma i miei ricordi sono pieni anche di muri bianchi e concrezionati, del ponte, dei passaggi aerei sul lago. Ed ora siamo tra roccie scure ed umide, tra colate di terra e fogliame ammassato. Devo fare attenzione, devo scegliere bene. «Aspetta qui, vado a dare un’occhiata da quella parte. Non ti muovere». Mio fratello senza protestare si siede e si accende una sigaretta. Io, con un bastone in mano, faccio l’indiano nelle terre selvagge. Strano equilibrio il nostro: è al sicuro da fermo, ma sei io precipito non ha l’esperienza per uscirne da solo, specie dopo un’evento simile. Saremmo entrambi perduti, dispersi ad un chilometro o due dalla macchina. Devo fare attenzione, devo scegliere bene.

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Ci vogliono un paio di sigarette perchè trovi la strada giusta, perchè acchiappi la magia. «Trovato!» gli urlo «Aspettami che vengo a prenderti!!» Kekko mi aspetta distratto su un sasso. Affascinante la serenità ed il coraggio incosciente con cui gli occhi della gioventù osservano il mondo: “Gli eroi son tutti giovani e belli” recitava la canzone.

Per riportarlo in una parvenza di civiltà dobbiamo ridiscendere un pendio, attraversare un canale ai piedi di una cascate, rimontare tra le piante fino ad un prato di erba alta che traversa sopra delle roccette. Poi, finalmente, ci si riaggancia al sentiero poco prima che affronti le pareti del ponte di cemento. «Ecco, lo sapevo che mi portavi ancora per prati!» e continua «Queste son cose che farebbe il Paolo!» Nostro padre, il Paolo, è il modello ideale di tutti i nostri difetti e di tutti i nostri inconfessabili pregi. “Come è il tronco, così sono i truccioli” dicono…

Ci sediamo a tirar un fiato d’acqua. Sono sudato fradicio, coperto di terra e foglie. Ma la gioventù non ha comprensione per l’età, o per la fatica. «Sai che mi son proprio divertito in questo giretto: son posti fuori dal mondo!» Mio fratello osserva il lago e nelle onde i riflessi del sole che scende lontano alle nostre spalle. Scendiamo lungo il sentiero, attraverso le reti paramassi, oltre la scala di cemento ed il vecchio asfalto ormai pieno di pietre cadute e cartelli divelti. Un paio di murales, il cancello e siamo di nuovo fuori dalla “zona morta”, forse mai così viva.

“Non far caso a me. Io vengo da un altro pianeta. Io ancora vedo orizzonti dove tu disegni confini”. Recita un adesivo appicciato ad un vecchio cartello di “Divieto di Caccia”.

Davide “Birillo” Valsecchi

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