Sopravvissuti dell’Eghen

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Alla soglia dei quarantanni porto ancora i capelli lunghi e mi vesto male come un adolescente. Questo mi espone drammaticamente alla “Sindrome del Milanese”. Professionalmente c’è sempre qualcuno che mi prende di mira e, parlandomi, cerca di darsi un tono attaccando con: “Io sono qui, Io sono là, bla bla…”. Quando capita inclino la testa di lato come Walter Sobchak e, mentre Steve Buscemi canta “obladi oblada”, penso tra me annuendo: “Certo, certo… io a 22 anni, sul confine tra Pakistan ed Afghanistan, sono riuscito a farmi prestare un ponte intero da un Generale dell’esercito tirandogli una terrificante supercazzola. Tu davvero pensi di riuscire ad impressionarmi?”

Il-Grande-Lebowski

“DRUGO: No, Walter, ammettilo, non c’è nessuna connessione con il Vietnam. Ti parli addosso.” In realtà non è la quotidianità, quello che ordinariamente siamo tutti i giorni, a definirci realmente. No, sono gli episodi speciali, quelli straordinari, che raccontano la parte di noi più autentica. Così, quando siamo circondati da insignificanti e petulanti rompipalle, è importante ricordare a se stessi chi siamo stati quando davvero era importante, chi possiamo essere quando serve fare la differenza. Senza questi ricordi, nell’alienante società contemporanea, rischieremmo di perderci, di lasciare che siano gli altri a definirci: le cicatrici, come i tatuaggi per “memento”, sono i nostri ricordi più preziosi.

L’altro giorno TeoBrex era a pranzo da noi «Era in questi giorni che lo scorso anno eravate sull’Eghen? E’ passato un’anno, no?» Già, l’Eghen. Alle volte credo di dare troppo peso a quella salita, altre volte mi sembra di non dargliene abbastanza. TeoBrex era appena rientrato dalla Grignetta, dove era stato con Mattia: inevitabilmente voleva risentire quella storia.

La Cassin al Pizzo d’Eghen è stato uno un viaggio, non una semplice via. Due settimane di caldo torrido prima, due settimane di bel tempo dopo. Nell’arco di un mese solo in un unico giorno si sono scatenati furiosamente gli elementi: quel giorno, quel giorno preciso, noi eravamo nel Camino dell’Eghen.  

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«Eravamo alla fine del Camino, dovevamo uscire tentado una variante in un lungo traverso. Da Nord arrivava il temporale, nero e spaventoso. Tu non hai idea di come sia terrificante il rumore della pioggia che avanza battendo sugli alberi mille metri sotto di te. “Mattia come va?” Gli ho urlato “E’ difficile…” La sua risposta era anche più spaventosa. Poi in lontanza “Sono sulla cresta! Sono in sosta su un mugo: vieni!”. Il rumore della pioggia era ormai assordate. Mattia recuperava la corda ma il mio tempo stava scadendo. Smonto la sosta ed inizio a partire per il traverso mentre grossi goccioloni solitari iniziano a cadere scuri sul calcare chiaro. “Peccato, mancava cosi poco”. Questa frase, questo pensiero, è il più vivido tra i miei ricordi. Racchiude tutta l’accettazione di quel momento: non ero rassegnato, ma accettavo quello che stava per accadere senza sensi di colpa. “Peccato, mancava cosi poco”.

Il temporale ci ha investiti in pieno mentre facevo il traverso: c’era acqua e vuoto ovunque mentre i fulmini rombavano tutto attorno. I piedi, sulla placca bagnata, sono partiti di botto: sono volato, sono piombato giù dalla cima del Pizzo d’Eghen. A pensarci è quasi divertente. Dannazione, mille metri di vuoto e passi giù in un pendolo infinito nel cuore della tempesta: non è qualcosa che ti capita tutti i giorni! Non ho provato paura, solo rabbia, una furia incontenibile …e meno male, perchè se non fosse scattata non mi sarei ripreso nè dal volo nè dalla botta! Sulla cresta, tra i mughi, tra i fulmini, al buio tra gli strapiombi, sono stato travolto persino da un’insensata euforia. Non sentivo più freddo, non sentivo più la fatica: ero sul tetto del mio mondo a dare battaglia al cielo. Morire, per un essere umano, forse è un prezzo accettabile per vivere un momento del genere!

Ma nonostante la furia non vedevo soluzione. Mattia era demolito, cercava caparbiamente una via d’uscita da quell’oscuro labirinto verticale, ma aveva ormai comprensibilmente raggiunto il suo limite (…aveva già tirato da solo tutta la via prima che il tempo precipitasse!!). Eravamo alla fine della storia. Ho preso una fettuccia per fare sicura sul ramo di un mugo: curiosamente, al buio, mi è finito in mano il taxy driver fatto a mano che mi ha regalato Ivan Guerini, lo stesso che oggi ho sempre al collo come portachiavi. Non aveva senso morire dopo aver ricevuto un regalo simile: era karmaticamente sbagliato. Nei miei pensieri è riemersa la voce di mio padre, di quando mi raccontava dei cacciatori di camosci in Carnia che si riparavano dai temporali in quota nascondendosi sotto i mughi. Ecco: dovevamo bivaccare, dovevamo nasconderci. Forse avevamo una possibilità.  

Io e Mattia parlavamo faccia a faccia, abbagliati dai lampi e dalle frontali, urlando sopra la pioggia. Lui non voleva fermarsi, voleva continuare nonostante il freddo ormai lo scuotesse visibilmente. “Se ci prendono i fulmini siamo morti!!”. Aveva ragione, ma pascolando alla cieca oltre ai fulmini rischiavamo di finire di sotto. Alla fine si è convinto ed abbiamo trovato uno piccolo sperone di roccia sotto cui ripararci. L’immagine di Mattia mi è indelebile: si è seduto sotto questo piccolo tetto, accucciato e rassegnato come un’alpino della prima guerra mondiale avvolto nella propria mantella. “Cristo santo …così crepiamo per davvero!” Non andava affatto bene.

Qualcosa di nuovo è scattato in me: dovevo aiutare il mio amico, era imperativo. Ho preso il martello ed è ho cominciato a pestare allargando e scavando una piccola nicchia. Come Ian Solo ne “L’impero colpisce ancora” dovevo trovare il modo di scaldare Luke Skywalker. Mattia ha capito e mi ha aiutato ad allargare il buco. Poi l’ho infilato sul fondo, mi ci sono sdraiato sopra ed ho avvolto entrambi nella metallina. Eravamo fradici ed il vento continuava a soffiare gelido: quell’arrocco era la nostra ultima linea difensiva contro l’ipotermia. Quando è arrivata l’alba è stato un po’ come rinascere: fracassati ma vivi siamo tornati a casa. La montagna ci ha restituito alla vita di tutti i giorni.»

Mattia è un alpinista ed uno speleo straordinario: un mese più tardi è tornato sulla cima dell’Eghen calandosi in solitaria nel camino Cassin. Non c’è paragone tra noi, io non sono altrettanto forte. Come dicono i miei eroici dettrattori sono più un filibustiere che un vero alpinista. Tutto questo però non ha importanza, quello che conta è che quel giorno, nel mezzo della tempesta, ero ciò che serviva perchè la nostra cordata facesse la differenza: il compagno di cordata giusto nel momento sbagliato. Sopravvivere è stata una piccola ma importante soddisfazione (…sì, sto sorridendo ed ho il medio alzato).

“Peccato, mancava cosi poco”. Non penso quasi mai a quella salita, ma questo pensiero ogni tanto torna a trovarmi. Quando la routine diventa fastidiosa, quando le difficoltà quotidiane sembrano soffocanti o il rompipalle di turno diviene inarrestabile. Piego la testa di lato ed osservo distaccato il mondo: “Birillo, sei sopravvissuto al Pizzo D’Eghen: in fondo questo non può essere peggio…”

Buon Quattro Luglio, Mattia!
Davide “Birillo” Valsecchi

Per la storia completa: https://www.cima-asso.it/2015/07/via-cassin-pizzo-deghen/
La foto iniziale me l’ha scattata Bruna prima che, finalmente, mi infilassi nella vasca da bagno

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