Anello della Valverde

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Bruna è ancora bloccata in casa per via dell’infortunio e così, la sera, la carico in macchina e la porto al Rapanui da Bebbe per bere un “Hugo” prima di cena. Accoccolati in riva al lago sembra di essere in riviera, quasi in vacanza: mentre mi avvolpacchio con lei posso gustarmi il tramonto sulle montagne che si innalzano sul lago (un vero spettacolo di colori!). Curiosamente quella zona di lago, all’ombra della Nord del Moregallo, appartiene a Mandello del Lario, uno dei principali comuni sull’altra sponda del Lario.

Da quella spiaggia, con un bicchiere in mano, ho studiato spesso le forme delle grandi pareti del San Martino ma, se devo essere onesto, tutta quella zona è ancora un mistero per me. Ci sono davvero troppe cose che devo scoprire e ricollegare tra loro. In primo luogo i nomi! Le pareti alla base sono abbastanza note e “censite”, spesso trasformate in falesie più o meno sportive. Ma tutta la parte alta, da metà in sù, è un tripudio di guglie, canali e cime. Quello che comunemente chiamo “San Martino” racchiude in realtà una moltitudine di nomi e luoghi: la vetta San Vittore, il corno Regismondo, la bastionata della ValVerde, la Punta Forcellino, per esempio.

Così, spinto da una curiosità ormai difficile da trattenere, sono andato a curiosare ma, sempre per essere onesto, la mia esplorazione ha prodotto più dubbi che certezze. Nuovamente al Rapanui con il bicchiere in mano ho cercato, con insuccesso, di ricostruire le lunghe ore trascorse tra quei canali senza però riuscire a sbrogliare la matassa: “Accidenti, ma da dove accidenti sono passato?”

Ivan Guerini mi ha raccontato, spesso fino allo sfinimento, di aver aperto lassù migliaia di vie. Quel tripudio di pareti, guglie e creste così “vicine” alla città ed al treno con cui si spostava Ivan da giovane, così come la natura selvatica di quei luoghi, giustifica un numero così alto di “esplorazioni”. Il suo affetto e la sua attenzione per quei luoghi e poi cosa nota anche attraverso alcuni dei suoi scritti (“Dalla parte delle Pareti”, per esempio). Tuttavia, senza metterci in naso, mi era davvero difficile comprendere i suoi racconti. Curiosamente, una volta immerso in quel dedalo, qualcosa è cambiato: non mi interessava più molto quello che aveva visto lui, ero assolutamente rapito da quello che potevo vedere io!

Alle sette del mattino ho attaccato il sentiero dei Pizzeti risalendo verso il Rifugio Piazza. Nonostante la gamba sinistra non funzioni a dovere cerco di spingere il più possibile sbuffando come un mantice, ma i miei sforzi sono vanificati ed umiliati da una giovane ed abbronazata ragazza che, all’alba delle sette e mezza, mi raggiunge e superara saltellando in scarpe leggere ed in uno svolazzante vestitino corto a fiori. A questo vecchiaccio accasato toccano strani incontri mattutini mentre i giovinastri dei Badgers poltriscono ancora in branda…

Sprofondo nella fontana del Rifugio Piazza, piacevolemente gelida, cercando di contenere la calura estiva che si fa pressante. Speravo che che il cielo nuvolo e l’orario mi concedessero tregua ma l’afa cominciava a montare e purtroppo il vento non accennava a darsi da fare. “Questi sono posti da inverno, quando la foglia è caduta ed il sole riscalda”. Nella mia testa la fastidiosa voce di Ivan mi ricorda quest’ovvietà ovvia. “Chi ha tempo non aspetti tempo!”

Faccio il giro del Rifugio ed attacco il sentiero della val del verde. Il cartello indica due ore per arrivare ai Resinelli. Ad occhio calcolo la strada, l’uscita sul piano appare ovvia e, per quanto appaia distante, giudico la stima piuttosto esagerata. Appena mi inoltro nel bosco capisco però quanto siano sbagliati i miei calcoli! Quello che appariva come ul lungo traverso in un grande piano boscoso prima della salita finale è in realtà un continuo susseguirsi di sali e scendi tra ripide vallette. Passaggi umidi e fangosi spesso protetti da catene che attraversano torrenti e rimontano speroni rocciosi. “Accidenti! Questo posto non scherza affatto!!”

Spesso mi avevano descritto quel sentiero come “selvaggio” ed “impegantivo”. Un mio amico era stato anche più specifico “E’ sicuramente come una di quelle ravanate che combini tu al Moregallo! Ti piacerà!”. Onestamente, per essere un sentiero “ufficiale”, è davvero di frontiera. La natura “ruzza” da ogni parte ed tutti gli evidenti sforzi di mantenere il sentiero sono sottoposti ad una prova durissima: l’ambiente circorstante è davvero serevo. Ci si trova spesso a strapiombo sul vuoto che sovrasta la superstrada, disorientati dal dedalo di picchi e canali che ci si è costretti ad attraversare. La vegetazione, fatta di radure erbose e fitto bosco, non aiuta a districare la geografia di quei luoghi. Davvero terribile quanto affascinante!

In alcuni punti le catene, che proteggono alcuni dei passaggi più tecnici, erano profondamente segnate dall’ambiente. Dove i fittoni erano ceduti sono stati sostituiti da chiodi tradizionali ma anche questi si erano fatti ballerini o erano saltati. Come ho detto appare evidente che qualcuno si sta davvero dannando l’anima per conservare quel sentiero, ma pare davvero essere uno sforzo improbo contro quella natura pressante! (Leggisi: controllate quello a cui vi appendete!)

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Qua e là ho cercato di risalire qualche canale curiosando fuori linea, ma la quantità enorme di “cose di che non so” suggeriva assoluta prudenza. Trovarsi bloccato e disorientato in mezzo a quel labirinto era una prospettiva da evitare accuratamente. Così ho continuato a seguire il sentiero nel suo tortuoso sviluppo. Finalmente sono arrivato alla base della rampa finale che sale al giogo d’uscita verso il Piano dei Resinelli. Pensavo di raggiungere la sommità e ridiscendere dalla Val Cololden o dal Sentiero del Ger ma una palina ha introdotto un opzione inaspettata. Una deviazione indicava infatti un collegamento con “Il sentiero dei Tecett”. Visto che ne avevo sentito parlare senza mai percorrerlo quella sembrava una buona scelta.

Se il sentiero principale della Valverde era quasi inghiottito dalla vegetazione, la “bratella” era tutt’altro che invitante. «Birillo, questa è una “sola”! Non c’è traccia e non hai idea di come scenda verso il basso. Qui le rogne sono a sbalzo nel vuoto! Torna a salire, non scendere». Dopo la palina il sentiero infatti scompariva, erano una serie di traccie parallele che correvano nell’erba alta tuffandosi nel ripido del bosco. Quei segni appartenevano di certo a qualche selvatico quadrupede, non era roba per bipedi in trasferta.

«Birillo, questa è una “sola”!» Continuavo a ripetermelo ma accennavo a desistere. Così ho rimontato una specie di prua che, come tante delle guglie che puntando il lago, emergeva dalla vegetazione concedendomi un punto d’osservazione. Da lassù ho potuto fare delle buone foto ma ancora non mi era chiaro dove andasse quel sentiero disperso. Così, tornando nel bosco, ho cominciato a cercare qualcosa di più concreto: “Qualcuno si è preso la briga di piantare una palina, qualcosa ci deve essere per forza!”.

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Dietro uno sperone trovo qualcosa di interessante. C’è quello che resta di una piccola tettoia ad onduline, qualche bottiglia di vetro rotta ed una scritta a vernice su una roccia: “Rifugio Jeremy J”. Qualcuno in passato aveva usato spesso quel posto e non sembrava roba da pastori. Chissà, forse il Guero conoscerà la storia di questo curioso “bivacco” dal sapore anni settanta.

Poco più sotto trovo una sbiadita traccia rossa su un albero. Il sentiero, ammesso sia quello, è poco più che un colatoio per l’acqua piovana ma, rincuorato dai segni, ho ripreso a scendere. Ogni “tot” mi allonavo dal centro della valletta per osservarne i lati. Nel bosco, spesso in modo inaspettato, ci si trova davanti bui salti verticali, anche di una decina di metri, creati da queste strane “prue” che si innalzano dal bosco. “Sticazzi… guarda quanti ammazza-fungiat da queste parti!” Vere e proprie trappole a ridosso di invitanti radure erbose.

Man mano si scende si trovano sempre più segni rossi ad indicare la via. Il bosco si fa sempre meno fitto trasformandosi in uno degli scenari più fastidiosi da attraversare. La valle infatti si allarga ed è invasa da sassi, nuovi e vecchi, che sono caduti dall’alto. Un ghiaione scomposto e tortuoso invaso da trocchi abbattuti allineati dalla pioggia tra i sassi (deve essere davvero un posto poco raccomandabile durante un temporale!). Per quanto disagevole quel sentiero aveva ormai una forma ed ero convinto, sbagliando, che mi avrebbe portato alle rive del lago. In reatà ero ancora in una “terra di mezzo” sopra le grandi bastionate del lago.

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Tra i sassi ho trovato una strage di penne e piume: una sfortunata ghiandaia, dall’inconfondibile colore azzurro, doveva essere diventata la colazione di qualcuno ed il suo piumaggio sparso era tutto ciò che ne era rimasto. Visto che le piume di ghiandaia hanno per me un grande valore mi sono fermato a raccoglierne un po’ allinendole su un sasso per una foto. Mentre trafficavo con le mie faccende sciamaniche ascoltavo i rumori nel bosco di qualcuno che si avvicinava. Senza che potessi ancora vederlo un camoscio era stato costretto ad avvicinarsi a quello strano sconociuto nel centro del canale. Sorpreso ed indeciso sul da farsi si teneva nascosto cercando di mostrare le sue intenzioni. “FIUUUUU! FIUUUU!” Il camoscio emetteva il suo verso a metà tra un fischio ed uno sbuffo. “Cosa sei? Cosa vuoi? Guarda che io sono qui e devo passare!” Ecco quello che voleva dirmi il camoscio. Senza alzare la testa, ma cercandolo immobile con la coda dell’occhio, gli ho risposto: “AURRRR!”. Secco, deciso e diaframmatico, una via di mezzo tra il bramito di un cervo ed il ruggito di uno spartano. Quando il camoscio ha risposto nuovamente con il suo fischio ero davvero divertito: dopo la fatina in scarpe da ginnastica quello era il primo essere con cui scambiavo parola. Dopo qualche altro fischio il camoscio è stato costretto a mostrarsi, a superare il passaggio obbligato rimontando veloce su per una riva impossibile. “Vai stupida capra! Vai!” l’ho salutato ridendo “Almeno non mi tiri sassi in testa! Va!”

Ero davvero divertito dalla faccenda ma, giunto alla successiva palina, ho capito nuovamente quanto i miei calcoli fossero sbagliati. La “bretella” mi aveva portato in un punto pianeggiante del sentiero dei Tecett, tuttavia non avevo idea di quale direzione prendere (nè sapevo bene dove andasse o dove vinisse quel sentiero). Pensavo che verso nord portasse a qualche falesia e che verso Sud, visto che sembrava abbassarsi, portasse da qualche parte lungo le spiagge del Pradello (dove sono stato solo una volta in vita mia andando a curiosare in bici la tanto chiacchierata ciclabile chiusa). In realtà solo a casa ho scoperto che il sentiero sale da nord attraverso alcuni tratti attrezzati e che poi, in un suggeguirsi di sali e scendi, punta verso sud rimontando fino al Rifugio Piazza. Alla prima salita (mentre speravo in qualche fantasmagorico passaggio che mi portasse verso l’azzurro del lago) ho compreso il mio errore: “Bravo birillo! Sei sceso per poi dover risalire! Brutto mona: finirai per ritrovarti alla palina da cui sei partito!” Pensavo infatti che risalendo mi sarei ricongiunto al sentiero della Val del Verde, forse in qualche deviazione che mi era sfuggita. Invece il sentiero “attraversava” il finto piano del San Martino con una linea completamente diversa. Ancora una volta il susseguirsi di sali e scendi cerca di confondere il mio orientamento e, nonostante mi sforzi, fatico ad individuare dove, più a monte, passava il sentiero delverde.

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“Sembra di stare nella valle dei Mille Picchi! Non si capisce un osti di ‘sto posto!” Era incredibile quanto quella terra di mezzo fosse grande e come questa fosse separata dal lago da vertigionose bastionate. Ormai rassegnato a non trovare il bandolo della matassa mi sono appollaiato su un cucuzzolo osservando il Moregallo mentre sotto di me, ad una distanza irraggiungibile, i bagnanti si accalcavano sulla spiaggia.

Tornato al Piazza ho chiuso il mio anello e sono sceso in fretta dai Pizzetti, fiondandomi a casa per un pic-nick in terrazza con Bruna. Ivan ha davvero ragione, sono posti bellissimi ma assolutamente ragguardevoli. Si può davvero aprire migliaia di vie d’arrampicata in questa miriade di balze, guglie e pareti. Tuttavia l’ambiente è assolutamente severo, una stramaledetta giungla, tanto intricata quando indecifrabile. Onestamente guardandomi intorno non mi interessava molto arrampicare, nel senso puro del termine, tuttavia credo che tornerò volentieri a curiosare da quelle parti (anche se di fatto ho percorso quasi tutti i suoi sentieri ufficiali). Quello che è certo è che non sono luoghi da affrontare alla leggera. Diversamente dal Moregallo, dove le difficoltà sono spesso evidenti, continue e massive, questo è un luogo di piccoli e grandi pericoli che si alternano ad opportunità tutte da valutare e ponderare. Un posto davvero intenso, ma davvero da non prendere sotto gamba.

Davide “Birillo” Valsecchi

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