Giaggiolone dove sei?

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Dalla stazione ferroviaria di Lecco fuoriesce un fiume di studenti ed impiegati che come una mandria disordinata si riversa sul marciapiede della fermata dell’autobus. Io, parcheggiato dentro la Subaru con le quattro frecce lampeggianti, li osservo preoccupato mentre incuranti mi scorrono attorno, come se fossi niente più che nuovo masso adagiato lungo il loro corso della loro routine. Ero preoccupato che in quella posizione potessi dare loro fastidio, essergli di intralcio. Ero preoccupato che quella mia “attesa forzata” potesse apparire come una prepotenza e cercavo un modo o un luogo per togliermi di impiccio. Ma il loro stesso scorrere mi impediva ogni scelta: non ero io ad intralciarli, erano loro a circondarmi. Così, dentro la mia sempre più scassata “BirilloMobile”, non ho potuto fare altro che alzare il volume dei Rancid – “Life won’t wait”- studiandoli e catalogando i gesti ed i movimenti. La maggior parte era persa nel cellulare camminando a piccoli passi con la testa bassa. Poi, là in fondo, leggermente più alto, vestito di rosso con uno zainetto arancione, avanza uno a testa alta, stonando in quella massa uniforme. “Eccolo, ecco il Guero…” Quando mi vede il suo sorriso si allarga ancora un poco: davvero curioso il modo in cui il destino accomuna le persone estraniandole da tutte le altre. Apre lo sportello e si infila nel Subaru, il suo sorriso è ora un ghigno compiaciuto: «Buongiorno Biriz, andiamo?». Appoggio le mani sul volante con in un film di Mad Max mentre il ringhio del vecchio ed orgoglioso motore Boxer Impreza spalanca la folla manco fosse il mar rosso: «Sì, Sguero: andiamo!»

Due ore più tardi siamo alla base della parete. Figlio di un cacciatore della Carnia individuo senza diffoltà i camosci mimetizzati tra le rocce. Sguero, stupito dal mio colpo d’occhio, si ferma ad ammirarli mentre, nel silenzio, spuntano anche i cuccioli dell’ultima estate. I camosci si accoppiano in autunno e partoriscono in tarda primavera: figli dell’inverno sono i signori delle montagne. Mufloni e Stambecchi non avranno mai la nobiltà e l’eleganza di un Camoscio.

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«Ma noi una via di quarto grado riusciremo mai a trovarla?» Guero mi aspetta in sosta e, dalla quantità di chiodi con cui la sta rinforzando, comprendo che il tiro rischia di essere anche più complicato di quanto appare. Rimonto fino ad una profonda fessura nera, infilo le mani, stacco i friend cercando di spingermi in alto in spaccata con i piedi: la fessura è solida ma quello che la circonda un po’ meno. Questa volta non strapiomba ma la verticalità e lo sforzo sono continui. Il secondo tiro è una placca con un passaggio strapiombante nel mezzo. All’uscita un grosso sasso sposato sembra appartenere ad una partita interrotta di “Jinga”. «Biriz, fai attenzione: non uscire dritto ma evita sulla sinistra uno spuntone che sporge. Non toccarlo…» Ecco, appunto… Come un elefante con il tutù da ballerina mi muovo delicato e leggero: sono peso fragile in una foresta di cristalli. L’attacco del terzo tiro richiede un chiodo, l’unico su tre tiri, l’unico che abbiamo lasciato in loco. Sguero lo supera in libera, ridendo sornione quando le prese gli si sgretolano sotto le mani. Poi dall’alto mi urla: «Biriz! L’ultimo metro è quarto grado: davvero!»

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Quando lo raggiungo all’ultima sosta mi guardo intorno osservando gli enormi blocchi di roccia che, senza giustificazione apparente, mantengono un equilibrio instabile sporgendosi nel vuoto. «Io le Dolomiti me le immagino così: sassi ovunque e roba enorme che si sgretola in secoli o in qualche istante». Guero sorride. «Infatti sono esattamente così». Ripenso alle difficoltà della salita e a come il vecchio adagio “saldo come la roccia” non si possa applicare al calcare. «Sai, forse potrà sembrarti presuntuoso ma a volte credo che arrampicare sul granito sia più facile: forse a volte è tecnicamente più difficile ma immagino tutto grande e solido, mentre sul calcare ogni cosa è un incognita di cui dubitare.» Tempo fa avevo fatto un discorso simile con Gianni Mandelli e lui, con grande saggezza rappresentativa, mi aveva detto «Il granito riesce ad esaltarti, a spingerti oltre i tuoi limiti. Il calcare invece spesso ti opprime, ti respinge soffocandoti.» Alla mia domanda Ivan ride, come sempre, e curiosamente mi da ragione. Il Profeta delle grandi placche della Val di Mello mi guarda e annuisce: «Sì Biriz, sul calcare ci sono molti problemi in più e spesso anche proteggersi, piazzare un friend o un chiodo, diventa molto più difficoltoso». Viviamo su un pianeta dove il granito è la roccia più diffusa in assoluto ma, ahimè, siamo figli del Calcare, figli di un Dio minore che, emerso dalle profondità abissali, punta al cielo trasformando la vita in roccia: già, forse non poteva essere diversamente…

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 La sera ho trovato Mattia, il mio socio di cordata, il 75% de “I Due dei Corni™”, e Simone, il marito di mia sorella, il padre dei miei nipoti e compagno della spedizione “cima-asso” nel lontano ‘99. Gli ho raccontato dove avevamo aperto la nuova via e lui, divertito, si era limitato a dire «Ma lì è tutto un marcione?!» Io, facendo spallucce, ho semplicemente annuito «Il Guero dice che quella è Dolomia Monolitica, assolutamente solida salvo i detriti di deposito. Io non so, forse ha ragione. Oppure è come quella storia del calabrone: tecnicamente dovrebbe restare su ma, visto che nessuno glielo ha detto, continua a venire a basso!»

Davide “Birillo” Valsecchi

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