Pace in tempo di Guerra

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La sveglia suona alle sei e mezza ma ci metto un’ora intera prima di uscire di casa. Bruna dorme, io mi faccio un caffè, una doccia e mi aggiro per il salotto dando un’occhiata ad Internet mentre coccolo i gatti. Cerco il giusto stato mentale, diversamente conviene me ne torni nel letto. Poi, finalmente, esco e lascio che ogni passo aggiusti e riassetti il mio corpo.

Quando arrivo a Passo400 soffia un vento forte da nord, supero il crinale a sbalzo sul lago e mi ritrovo davanti il regno selvaggio del Moregallo Orientale mentre il sole del mattino ne illumina le forme. Per un istante tentenno, mi siedo e scatto qualche foto mentre studio ancora il canale che intendo salire. Se mi fermo troppo a lungo il coraggio verrà meno: respiro, mi alzo e riparto.

Alla base del canale sono sovrastato dalle pareti ritorte e la mia unica possibilità verso l’alto è quella ruga nella montagna, scavata dall’acqua e dall’ignoto. Mi aspettavo un canale detritico a blocchi ma il primo rialzo è di roccia compatta, quasi placca: bene e male. L’attacco sembra parlare chiaro: qui si arrampica o non si passa. Supero il primo salto ed affronto il successivo. Nello zaino ho trenta metri di corda, la mia sola possibilità di fuga. Ad ogni salto di roccia mi guardo in giro cercando dove giocarmela con una doppia. Poi i salti rocciosi diventano quattro, cinque, sei: sempre più sostenuti, sempre più impossibili da affrontare in discesa.

“Con doppie da 15 diventa un inferno scendere da qui”. Rimonto il salto successivo ed ormai mi è chiaro che indietro non si torna più: ho mollato gli ormeggi, non resta che navigare nell’ignoto e trovare un’uscita. “Io ho fatto la mia scelta, ora tocca alla montagna non essere troppo cattiva”. La solitudine avvolge i miei pensieri mentre le mie percezioni si dilatano: la mia vita è ora nelle mie scelte. Sembra spaventoso ma è qualcosa di piacevole.

Il canale si abbatte un poco e la vegetazione ne approfitta per invaderlo. Senza la gravità a lavorare in verticale il fondo si riempie di detriti e sassi instabili. Sembra meno difficile, ma devo fare più attenzione. Mentre avanzo trovo qualcosa di inaspettato: un vaso di plastica per fiori! Sorrido e gli scatto una foto: sopra di me, sulla sinistra orografica c’è il Sasso Preguda e la sua chiesetta: quel vaso è finito di sotto spinto dal vento.

Proseguo ma il canale sembra chiudersi morendo in pareti verticali, quindi mi sposto sulla destra cercando di guadagnare il crinale che separa il mio canale da quello affianco. Raggiungo la cresta ed inizio a salire aggirando i grossi sassi di calcare e le piante che segnano il confine tra i due “vuoti”. L’esposizione è ragguardevole ma le difficoltà sono accettabili: ora tornare indietro è davvero impossibile. Seguo linee invisibili accarezzando la roccia, ma la vegetazione mi nasconde il resto della mia storia: non posso far altro che credere e dubitare.

La cresta obliqua ancora verso sinistra, verso il mio canale. Rientro nel fossato di roccia e faccio una nuova sorpresa: un teschio di tasso dai ragguardevoli denti. L’incontro in parte mi inquieta: un tasso morto, disperso in un canale sconosciuto, non è un bel presagio per il Nostromo dei Tassi del Moregallo. Mi fermo a studiarlo, scatto qualche foto. Mi sfiora l’idea di infilarlo nello zaino ma subito desisto. Con quei denti era un’animale forte ed orgoglioso, ha trovato la morte cadendo dall’alto, vinto dalla montagna, forse al buio, forse nella pioggia. Meritava di più che finire nei miei trofei, così l’ho appoggiato su una bella roccia salutandolo: “Augurami sorte migliore, fratello tasso”.

Il canale diventava uno stretto diedrino erboso tra una placca compatta ed un muretto a salire. Mi alzo nel diedro ma davanti a me, oltre la vegetazione vedo solo la roccia ed i caratteristici prati verticali sotto Preguda. Mi alzo ancora ma devo cambiare strategia, in quella direzione non si può proseguire. Così rimonto sul muretto ed inizio un traverso su roccia verso destra cercando di guadagnare nuovamente il crinale. Ormai sono fuori, sono in parete, l’esposizione è ormai irrilevante: arrampico slegato su passaggi di IV. La cosa, curiosamente, non mi disturba: è l’unica opzione razionalmente possibile e la roccia è stupenda. Rimonto il crinale per poi abbassarmi nel canale di destra, dentro cui guadagno ancora quota.

Qui faccio un errore di valutazione che comprenderò solo più tardi. Un’esile traccia di muflone sembra alzarsi ancora verso destra attraverso una cengia di detriti. Le piante mi impediscono di vedere bene ma mi alzo seguendo quella linea che punta a rimontare sulla spalla destra del secondo canale. La roccia si fa però friabile e poco convincente: quel “sentiero da capre” potrebbe essere la soluzione più logica ma anche una pericolosa trappola. Non mi fido, rientro nel canale e lo riattraverso riguadagnando il crinale sfilando dentro una roccia spaccata.

Davanti a me ho uno strano mosaico di prati verticali e roccia bianca costellata da piccole ma apparentemente solide piante. Punto dritto per dritto arrampicando nel misto. Poi prendo, mi alzo sopra un diedro roccioso e mi ritrovo davanti una pancia di rocca. Per rimontarla devo alzarmi oltre lo strapiombo su prese piccole e riposizionarmi su fessure, oppure tirare un metro di dulfer orizzontale su lama buona e placca liscia prima di rimontare su una pianta. In entrambi i casi, se nel momento di massimo sforzo non mi bastano le braccia o mi partono i piedi, passo di sotto senza scampo. “Gli equilibristi muoiono credendo che l’esercizio sia finito”. Un pensiero che abbozza la frase di Philippe Petit, di cui ricordo il senso ma non le parole esatte.

Al primo movimento mi accorgo che è troppo, che mi sto giocando il jolly quando forse manca poco ad uscire. Mi fermo, mi guardo in giro e di lato, scendendo e compiendo un piccolo traverso, vedo una soluzione più abbordabile. Forse anche più esposta ma gestibile e frazionabile in più movimenti. Mi abbasso, mi incastro in una nicchia, mi sfilo e con una “mastrufolata imperiosa” raggiungo una pianta e finalmente il bosco di betulle.

Faccio due passi, mi allontano dal vuoto, ed inizio a respirare a pieni polmoni. Altri due passi ed i miei respiri si fanno ancora più intensi e rumorosi. “Fuori, sono fuori!”. Ormai sto iperventilando e mi siedo a terra sul prato. Dallo zaino prendo la bottiglia dell’acqua e bevo avido. Respiro e prendo il cellulare: “Sono fuori. Canale fatto, Birillo vivo” scrivo a Bruna. Poi mi alzo e guardo di nuovo di sotto: senza sporgermi troppo perchè mi fa un po’ paura…

Sull’altro lato del canale la cengia delle capre appare ora come una buona soluzione percorribile ma, in fondo, era stato figo anche chiudere con una bella serie di placche intense! Mi siedo di nuovo ed dallo zaino estraggo una busta di fette di mela essiccate. Le mani non tremano ma si muovono in modo strano, mi sento una scimmia goffa che tenta di infilarsi in bocca patatine sbriciolate. Il mio corpo ha staccato la spina e la mente ha mollato il colpo: improvvisamente mi sento un vecchio pieno di dolori. Ma il sentiero è venti metri alle mie spalle, mi godo il momento.

Davanti a me, sul lato opposto del lago, fa mostra di sè il Forcellino. E’ da questa mattina che ripenso a Dean Potter ed alle sue parole raccontate da Luca Calvi: «Una delle espressioni che maggiormente lo infastidiva era sentirsi accusare di essere un adrenaline-addicted, adrenalina-dipendente. “No, Luca, per favore, aiutami a spiegare che la mia non è ricerca dell’adrenalina, è esattamente il contrario. Fin da piccolo mia madre mi ha insegnato l’arte dello yoga, il sapermi concentrare e controllare. L’adrenalina è l’esatto contrario di quello che cerco io. Io spingo le difficoltà al massimo, salgo una via in free-solo oppure cammino sulla slack senza cordino di sicurezza perché così mi concentro al massimo, mi avvicino maggiormente a quello stato di benessere con me stesso e col mondo che è l’esatto contrario delle sensazioni di chi va a drogarsi di adrenalina. Per loro l’adrenalina arriva dal gioco quasi inconscio con il rischio semisconosciuto, una sorta di roulette russa. Per me no, non c’è nulla di non calcolato, è un percorso che mi porta a salire, ad elevarmi, a camminare con vuoto tra le gambe ed infine a poter volare… So che mi capisci, scrivilo tu…”». Curiosamente le parole di Dean mi ricordano quelle di Ivan e quelle apprese studiando “la via della mano vuota” (Karate-Do). L’ignoto è la mia difficoltà massima, la posta in gioco la stessa: con una punta di egocentrismo avevo quasi sperato fosse lui uno dei due corvi che avevano vegliato la mia salita nel canale. Sull’altro non ho dubbi, mi segue ormai da anni su queste montagne. 

Ieri, Bruna ed io, eravamo ad Esino Lario: Davide Castelnovo era il tracciatore della prima edizione del EsinoBlockRock, una gara di Street Boulder tra le vie del paese. Oltre a Davide e suo papà Pier abbiamo incontrato anche il Guerra e gli altri ragazzi di Valmadrera: tutti veterani dell’Isola Senza Nome. “Serve la testa per le vie dei Corni” chiacchieravamo insieme “Senza il giusto stato mentale al secondo tiro cerchi la fuga in doppia anche se hai già ripetuto la via più volte”.

Come spesso accade ero affascinato dalle straordinarie capacità dei boulderisti, dal modo in cui riuscivano a risolvere movimenti tanto complessi con apparente semplicità e leggerezza. Probabilmente non riuscirò mai ad arrampicare come loro, così come non sarò forse mai al livello di Mattia, di Josef, Ivan o Gianni. Ma in fondo è giusto così: nelle mie “cose”, nella mia “dimensione”, nel mondo che ho scelto di sentire mio, credo di essere diventato piuttosto bravo …e forse mi basta questo per apprezzare il giusto equilibrio. Quella di oggi è stata una bella salita, completa in tutti gli aspetti che mi appartengono.

Davide “Birillo” Valsecchi

Non credo che il canale sia mai stato salito o che possieda un nome. Ho pensato a tanti nomi ma nessuno mi sembrava appropriato, così mi piacerebbe chiamarlo “Canale del Nostromo”: ma è giusto un vezzo, non è fondamentale. La salita non scende mai sotto il secondo/terzo grado ed è da considerarsi prevalentemente di “misto-verde”. Serve intuito e capacità nel tracciare la rotta, bisogna saper mitigare le difficoltà ma anche essere consapevoli che molte situazioni vanno risolte di petto con passaggi, anche lunghi, di IV tendente al IV+ (La roccia è buona quindi è possibile che il grado sia più alto e che semplicemente non l’abbia sentito). Di questi passaggi, ahimè, non ci sono foto perchè ero troppo impegnato a cercare di sopravvivere anzichè fotografare 😉 Il punto d’uscita l’ho segnato con un adesivo vinilico su una betulla. Due ore e quaranta nel canale. E’ una ravanata intensa di quasi quattrocento metri di dislivello senza via di fuga: mi raccomando, non mettetevi in testa idee stupide se non è il pane vostro.

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