Nanga Parbat 1970

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Il Nanga Parbat, 8126metri, in Hurdo significa “montagna nuda”. Il toponimo Diamir, utilizzato localmente, significa “re delle montagne”. Gli scherpa invece la chiamano “la mangiauomini”. Oggi, ancora una volta, capeggia nelle cronache per un ennesimo incidente: Tomasz Mackiewicz, disperso ormai da giorni, ed Elisabeth Revol, scesa a valle grazie all’intervento di Jarosław Botor (capo del team), Denis Urubko, Adam Bielecki e Piotr Tomala.

Non credo spetti a me raccontarvi o commentare questa recente vicenda. Tuttavia, nonostante le enormi ed assolute differenze, ci sono similitudini e paralleli tra quanto è avvenuto ora e quanto avvenuto nel 1970, quando al Nanga Parbat diedero l’assalto i fratelli Messner. Così ho cercato tra le riviste della Biblioteca Canova articoli che, oggi come allora, raccontassero l’accaduto. L’ho fatto perchè la figura di Gunther, l’eterno secondo di cordata, il fratello più debole, ingiustamente sottovalutato dai più, mi ha sempre affascinato. Forse perchè spesso sono anche io un “secondo di cordata” o forse perchè il Reinhold che preferisco è proprio quello arrampicatore, quello non ancora famoso che con il fratello cerca di spingersi in libera oltre il VI° grado.

Una parte di me vorrebbe sperare che Tomasz, come Reinhold, sia ancora in vita da qualche parte, ai piedi della montagna, accolto dagli indigeni. Ma la speranza più credibile è che sia stato Gunther a trovarlo, accompagnandolo con gli altri della montagna nell’ultima parte del suo viaggio.

L’articolo che segue è tratto da “Rivista Alpina” del settembre 1970, a pochi mesi dalla tragedia: è un articolo che porta la firma di Armando Biancardi e si conclude con l’ultima cartolina che Gunther scrisse all’autore. 

SUPERATA LA PARETE RUPAL AL NANGA PARBAT

«L’apporto recato dai fratelli Messner alla conquista del Nanga Parbat dal versante Rupal è stato decisivo. La stampa teutonica, tuttavia, l’ba minimizzato ed ha posto maggiormente in evidenza la vittoria della cordata austro-tedesca Scholz-Kuen. I nostri lettori si renderanno qui conto, anche nei dettagli, di come questa vittoria sia avvenuta non solo lungo lo stesso itinerario aperto dai Messner, ma il giorno appresso e in uno stile eticamente discutibile. Tuttavia, se la minimizzazione può risultare alla fine anche comprensibile, rimangono invece inspiegabili almeno due fatti. Che la spedizione al completo fosse già sulla via del ritorno in patria senza aver effettuato ricerche dei fratelli Messner d’una qualche seria validità. Che una spedizione capeggiata addirittura da un medico risultasse candidamente sprovvista, sia pure sulla via del rientro, da ogni riattivante circolatorio. I congelamenti riportati da Reinhold Messner alla mano destra e ai piedi hanno poi dovuto imporre varie amputazioni alle dita dei piedi. Queste amputazioni, anche se probabilmente non impediranno al nostro Reinold la ripresa dell’attività alpinistica, non avrebbero potuto essere evitate? Sembra quindi che sotto l’insegna del Nanga Parbat, l’ormai celebre “Montagna della discordia”, onde poter rispondere alle perplessità e agli interrogativi, siano in corso regolari inchieste per l’accertamento delle relative responsabilità. Non ci rimane che esprimere al caro Reinbold e alla sua famiglia tutte le nostre più sincere condoglianze per la perdita del valoroso indimenticabile fratello ».

In queste tiepide giornate di settembre, Innsbruck è una cittadina quasi allegra. Nelle ore serene, i tetti delle case e le cuspidi delle chiese si stampano con perentorietà teutonica contro le montagne terse. E tutto intorno è un richiamo alla dinamica prepotenza della vita. Anche Reinhold Messner, che esce solo oggi dalla Chirurgische Universitàtsklinik dopo pressochè due mesi di tribolazioni, potrebbe essere confuso con un giovanotto qualsiasi. Chi si aspettasse di vederlo vacillare, di appoggiarsi al muro, di allungare una mano in cerca di aiuto rimarrebbe deluso. Anche se la carne è duramente segnata, anche se il morale è letteralmente a terra, c’è qualcosa di intangibile in questo ragazzo di ferro che si e fatto il Nanga Parbat dalla inviolata parete Sud.

IL BUHL DI OGGI
Venti anni appena sono trascorsi dal 1950. A quel tempo, Maurice Herzog (che aveva pagato anch’egli un durissimo pedaggio), era uscito vittorioso sul primo ottomila, l’Annapurna. E, in vent’anni, conquistate le vette di questi ottomila, eccoci con la tematica alpina trasferita in pieno sulla catena himalayana. Raggiunti nel 1953 gli 8125 metri del Nanga Parbat risalendone aspramente il versante Nord (memorabile la scalata solitaria di Hermann Buhl, contornata da un pazzesco bivacco sugli ottomila metri senza adeguata attrezzatura), l‘attenzione alpinistica convergeva sull’opposto versante Nord. Fatta cioè la cima, interessava la via nuova anche se ben più difficile, anzi, proprio per quello. Ma lo stesso Hermann Buhl, il cui ardimento e le cui possibilità erano in quel momento fenomenali, aveva dato della tremenda parete uno di quei giudizi che li per li fanno colpo, ma che il tempo sistematicamente si incarica di ridimensionare. A dire il vero, quella parete l’aveva vista solo dal disopra. E ogni alpinista sa che non è il modo migliore per valutaria. Era comunque stato categorico: «quattromilacinquecento metri di roccia e ghiaccio sul verticale: già il solo tentarli rappresenterebbe un suicidio». Innsbruck, Buhl, Nanga Parbat, Messner… Ecco, cercavo una pietra di paragone e mi sembra di averla trovata. Per la brillantezza delle imprese (velocità di realizzazione e solitarie incluse), soprattutto, perla ininterrotta e mai mortificata ricerca della purezza nello stile, Reinhold Messner è l’Hermann Buhl di oggi. Buhl era nato a Innsbruck, nel 1924, da padre austriaco e da madre originaria della Val Gardena. Messner, italiano, è nato in Alto Adige, e precisamente a Funes, nel 1944, da genitori altoatesini. In Buhl e in Messner, impossibile non notare come il confluire e il rafforzarsi delle qualità che distinguono la razza latina e quella teutonica.

LA PIU’ ALTA
Anche se le parole sembreranno roboanti, la parete Sud del Nanga Parbat, alpinisticamente considerata è la più alta di tutto il mondo. «Vedendola per la prima volta, mi ha scoraggiato. È alta tre volte la Nord dell’Eiger e la verticalità è incredibile per una montagna himalayana». Ecco le esatte parole di Messner, arcinoto per non essere scalatore tanto facilmente impressionabile. Nel 1963 e nel 1965 e 68, erano state gettate le prime basi per dare l’attacco a questa ormai famigerata parete. La parete del versante Rupal. Dapprima fu una spedizione esplorativa, poi, due tentativi veri e propri. I tentativi, tuttavia, si erano spinti soltanto poco sopra i settemila. Infine, l’ennesima spedizione germanica con quattordici alpinisti tedeschi, due austriaci e due italiani, guidati dal instancabile medico Karl Herrligkoffer (come molti alpinisti già sanno, fratello di latte dell’eroico Willy Merkl, organizzatore e capo di ripetute spedizioni himalayane), eccola avviarsi nell’aprile di quest’anno verso il colosso. Da ben una quarantina d‘anni, la tattica austro-germanica su questa montagna è stata palesemente tipica. Là dove un uomo cade, ecco l’imperativo ingigantire: altri dieci incalzino. Gli olocausti non sono davvero mancati. Merkl, Welzenbach, chi non li ricorda? Da solo, il Nanga Parbat ha mietuto più vittime di tutti gli altri ottomila messi assieme. C’è poco da fare, sono state un’abbondante trentina. Tuttavia, la forza solare dell‘azione e dell’affermazione se ne stropiccia delle critiche. Se andiamo al sodo, e proprio nella caparbietà dello scalatore, a qualunque nazionalità appartenga, un buon novanta per cento delle sue probabilità di successo. Con Reinhold Messner, la spedizione sembra poi essere partita con l’asso nella manica. Se non riuscirà lui che è destinato a essere l‘uomo di punta… Ma l‘invito alla partecipazione è stato esteso anche al più giovane fratello. Gunther (24 anni) compagno di Reinhold in più di una grande avventura alpinistica, tuttavia, quasi sempre da secondo di cordata.

AVVICINAMENTO
La solita trafila: Rawalpindi, Gilgit, e in sole tre giornate a piedi, ecco a quota 3.600 il campo base alla malga Tap. Il solito piccolo esercito di portatori: trecento per l‘esattezza. Poi, nevicate sempre più frequenti, sempre più cospicue. Ora un passo avanti, ora uno indietro. Ora una giornata di sereno, ora una di tormenta. E non manca di certo il contorno delle valanghe. In un mese e più di aspro lavoro, vengono via via drizzati i campi di quota sino al V a 7.200 metri, dopo aver attrezzato passaggi di difficoltà rilevante, specie nella parte superiore. Si fa presto a dire. Si, si, a collaborare ci sono quindici Hunza, i portatori per i campi alti (fino al II). Uno di loro, anzi, Isa Khan, già con la vittoriosa spedizione italiana al K2, memore dei Compagnoni e dei Lacedelli. Ma, se le soddisfazioni non mancano, la vita e il lavoro, lassù, sono durissimi e Iogoranti. Stralcio dal diario personale di Reinhold alcuni brani: (8 giugno: Campo III – quota 6.000) «Da sei giorni neve, vento, bufera… e un freddo cane. Al mattino, mezz‘ora di sole e nuova speranza. È sera adesso e, il freddo, peggiore che mai. Siamo a trenta sottozero. Alle 19,30 una slavina copre tutta la tenda. Dobbiamo uscire per alleggerirla e rimetterla in sesto». (24 giugno: Campo IV – quota 6.500) «La notte è trascorsa con un freddo intensissimo. Non abbiamo certo dormito molto. Finora ho ricercato tutti i posti per i campi… Mi ha divertito questo mestiere… Mi ha quasi entusiasmato l’erezione di una tenda… Durante tutta questa fase preparatoria, Gunther e io abbiamo battuto pista dal campo base fin qui, eccettuati forse cento metri. La via verso la cima sembra ormai libera»

RAZZO ROSSO
Dai 3.600 metri di quota, ne hanno così aspramente guadagnati altri 3.600. Con que- sto campo base, si era convenuto che sarebbe stato sparato un razzo blu se i bollettini meteorologici avessero lasciato prevedere alcuni giorni di tempo buono. Uno rosso se il maltempo fosse stato imminente. Nel primo caso, con equipaggiamento regolare, l’assalto alla vetta sarebbe stato condotto da due cordate, con maggior sicurezza per tutti. Nel secondo, soltanto Reinhold Messner, alleggerito, con azione lampo si sarebbe alzato fin dove gli fosse stato possibile ripiegando quindi con gli altri al campo base. La stagione dei monsoni si avvicinava minacciosa. Tuttavia le previsioni erano buone e il bel tempo si mantenne più o meno tale per vari giorni. Ma quando il diavolo ci mette la coda… Il razzo che avrebbe dovuto essere blu fu rosso (e il capospedizione – credo bene – disse poi che si trattò di un errore). Cosicché, ali ai piedi, toccava a Reinhold muoversi. E, dal momento che i malpensanti non mancano mai, se insinuassero che Messner non aspettasse altro che la palla al balzo, ricorderemo soltanto le parole di Marcel Kurz a proposito della battaglia condotta sul terreno himalayano: «La competizione si è ormai grandemente evoluta. Trionfa lo spirito di corpo. Un uomo solo può rappresentare l’intera spedizione e la sua personale vittoria è infinitamente migliore di una comune disfatta». Con il fratello Gunther e con Gerhard Baur, Reinhold Messner prende gli accordi: mentre avanzerà, essi dovranno attrezzare il canalone per assicurargli e facilitargli la discesa.

L’ORA PIU’ BELLA
I compagni sonnecchiano ancora quando alle due del mattino del 27 giugno, con pochissime cose, Reinhold Messner lascia la tenda del Campo V alla luce della lampada frontale. In alto, la luna fruga sulla sciabolata del Canalone Merkl. Eccolo, questo canalone, ecco i primi salti di roccia che costringono a togliere i guanti. Poi, un camino a strapiombo, ghiacciato, con l‘uscita in neve polverosa. Un tentativo diretto e la rinuncia. Aggiramento sulla destra: nuova rinuncia. Sull’orlo dell’abbandono, una scappatoia sulla sinistra che consente di superare alcuni salti prima e dei costoni rocciosi poi, ora lisci, ora rivestiti di neve e, grazie a una rampa, i pendii ghiacciati sotto la Spalla Sud. Quando Reinhold getta uno sguardo sul canalone ormai vinto ha un sussulto. Qualcuno sta salendo dietro di lui. E’ il fratello. Certo, la saggezza, ma a posteriori, dice che così, senza corda d’assicurazione, sarebbe stato meglio per entrambi tornare sui propri passi. Ma tant‘è. Gli errori si assommano e se ne fa l’inventario solo quando le cose sono andate male. Tra i fratelli non vengono scambiate molte parole: per loro è chiaro che dovranno proseguire insieme. Sembrano tesi soltanto a rinnovare i necessari miracoli di abilità tecnica, di energia, di perseveranza, di fede straordinaria. È mattino ormai, allorchè iniziano la grande traversata verso destra sotto la Spalla Sud, con l’intento di raggiungere la cresta. Avanzano adagio,uno dietro l’altro, costretti a ricercare continuamente l’itinerario meno difficile sulle rocce innevate. Nebbie al disotto e sole sfolgorante al disopra, procedono poi sulla neve molle sostando sempre più spesso, ripiegati sulle picozze per riprendere fiato, per ricacciare indietro la stanchezza delle notti insonni, per scambiarsi qualche breve incitamento. Poco sotto la cresta è persino Gunther che batte pista. Ma la vetta è ormai a due passi appena. I fratelli si apprestano a vivere sulla cima del Nanga Parbat l‘ora più bella della loro gioventù ardimentosa. L‘ora del trionfo, appena velata dalla strenua fatica e dalla preoccupazione per il ritorno.

E DOPO?
Gerhard Baur, che avrebbe dovuto attrezzare la discesa con Gunther, per un mal di gola, ha dovuto scendere dal Campo V al IV. Nel frattempo, Peter Scholz e Felix Kuen salgono dal lV al V. Ed Herligkoffer, il capospedizione, darà loro l’ordine di andare in cima. Ma all‘indomani. I Messner non si aspettano una seconda cordata. Stando al razzo rosso, il maltempo dovrebbe incombere imminente. Prima di iniziare la discesa, Reinhold cerca di rimettersi i grossi guanti norvegesi, ma risultano talmente induriti dal gelo che non riesce più a infilarli sopra le altre due paia. Ne ha ancora di riserva e li abbandona, fermandoli con alcune pietre, lungi dal- l’immaginare che guanti e ometto costituiranno poi l’unica prova del loro arrivo in vetta. È sera ormai e debbono affrettarsi a scendere. Si calano fino alla Spalla Sud e lì discutono il da farsi. Gunther trova che già la discesa, dalla Spalla all’imboccatura del Canalone Merkl, è difficile e rischiosa. Figuriamoci lo stesso canalone che può essere accostato a una Nord Cervino e presenta difficoltà di quarto e quinto. Ma solo dall’alto di questo grande canale potranno farsi sentire e chiedere aiuto. Ne raggiungono perciò l’imboccatura e, sotto uno spuntone, trovano una nicchia in cui bivaccare. Tolti gli scarponi, si avvolgono i piedi nei fogli termici in dotazione agli astronauti, e se li rimettono. È tutto lì quanto possono fare per sfuggire ai paurosi rigori di un bivacco in quelle condizioni a 7.800 metri d’altezza. Si rannicchiano su quegli scarponi e, così accovacciati, iniziano la lunga attesa. Dopo una notte agitata, più volte, verso il mattino, Gunther prega il fratello di rimboccargli le coperte… E stesso, ogni tanto annaspa con le mani come dovesse raccattare qualcosa… Le condizioni di Gunther preoccupano Reinhold. Verso le sei, perciò, quest’ultimo si mette a chiamare. Per tre ore, facendo la spola tra il posto di bivacco e un punto dal quale si domina bene il canalone, Reinhold continua a chiedere una corda.

STORIA DI UN MALINTESO
Finalmente, verso le dieci, si scorgono due uomini risalire lentamente seguendo le piste lasciate dai Messner. Sono Peter Scholz e Felix Kuen e si trovano ormai un centinaio di metri al disotto. Reinhold vede chiaramente che hanno una corda. Senza dubbio, sono saliti per accorrere in loro aiuto e, alla fine, si sente rinfrancato. Si parlano, ma siamo sugli ottomila e, con il fiato mozzo o qualche colpo di vento, non tutto è comprensibile. Sembra vogliano raggiungere a loro volta la vetta…. il percorso di salita della spedizione. Quindi, Reinhold grida, più forte che può, di salire verso di loro per poi continuare sulle tracce lasciate la qualcosa avrebbe anche abbreviato la salita. Felix chiede a Reinhold se tutto è a posto. E Reinhold… risponde di si. Altro errore, a posteriori E altro errore quello degli amici, che riprendendo a salire, aggirano sulla destra scomparendo entrambi dietro un crestone. Inutilmente, urlando a squarciagola, Reinhold cerca di far capire che a quel modo, con il fratello, sarà costretto a scendere addirittura dall’altro versante. I due proseguono, ma debbono lasciare la loro corda (quella che sarebbe servita ai Messner) sulla grande traversata che porta sulla Spalla Sud. C’è poco da fare, si tratta di passaggi molto duri. Comunque, alle 17, entrambi sono in cima, raggianti per la nuova vittoria. Anche loro senza ossigeno. Ma non proprio con tutte le carte in regola se uno di essi non ha esitato a ricorrere alla pervitina per raggiungere una mèta sportiva, allargando così l‘uso del doping da controllabili a incontrollabili campi. Faccenda discutibile semmai solo allorquando, a traguardo raggiunto (e il traguardo, lo si sa, è la vetta), ci si accorga che non si è calcolato tutto bene (il che è già grave) e si constati «in ritardo» che si è spinto il gioco troppo in là. Magari in un rischioso bivacco o in un ritorno che si è complicato oltre il prevedibile (maltempo interminabile o moribondi…) e si cerchi comunque di «sopravvivere» (e la parola presuppone già chiaramente una «sconfitta morale»). Mi sembra cioè in definitiva che con una mèta eccitante sopra il naso, si dimentichi troppo presto che si può anche indietreggiare. Un gioco deve pur sempre basarsi su una possibilità, o sbaglio? Altrimenti, meglio cercarsi qualche buLldozer… i Comunque, avere la pervitina in tasca non è forse come avere i chiodi a espansione nello zaino? E magari non usarli… Già! E fino a quando? Tuttavia, le imprese che riescono con simili garanzie anche solo psicologiche, avranno poi lo stesso valore delle altre? Di qui è fin troppo facile constatare quanto l’impegno morale dell’alpinista, che dovrebbe condurre il gioco sulle sue sole forze, vada via via scadendo. Alla Spalla Sud, Scholz e Kuen affronteranno anch’essi un durissimo bivacco. il giorno appresso, scenderanno per la stessa via di salita nel frattempo attrezzata con corde fisse da Werner Haim, Hans Saler e Gerhard Mandi. Passeranno un’altra notte al Campo IV e, il giorno dopo, rientreranno regolarmente al campo base.

IN TRAPPOLA
Per i fratelli Messner non ci sarà alternativa d’uscita se non il versante Diamir, tecnicamente assai più facile ma assolutamente privo di qualsiasi punto d’appoggio. È questo il versante occidentale del Nanga Parbat lungo il quale il celebre Mummery, nel 1895, aveva condotto il suo primo tentativo scomparendo poi, con due portatori, in circostanze oscure. Reinhold ha ben delineato in mente questo percorso così come altri mille di montagna. Più in basso, Gunther si sarebbe certamente ripreso. Ma Reinhold ha proprio qui il suo momento critico e i nervi gli saltano. Tuttavia, si tratta di un momento solo. Gunther insiste per la soluzione dello scendere comunque: afferma che non ce la farebbe assolutamente ad un secondo bivacco a quell’altitudine e, forse, neppure Reinhold. A scendere da solo per il Canalone Merkl, Reinhold probabilmente riuscirebbe, ma Gunther dovrebbe sobbarcarsi ad un‘altra notte lassù e senza assistenza per giunta. Intraprendono allora la discesa Diamir tenendosi sulla destra, lungo il crestone roccioso che scende dalla vetta. Sotto di loro si stanno scatenando violenti temporali. Poi, sono investiti dalla grandine. Trovano infine un passaggio di stretta misura tra due grandi seraccate, si destreggiano sul ghiaccio vivo, proseguono mirando alla costola rocciosa di Mummery che scende con un susseguirsi di passaggi di media difficoltà. Verso la mezzanotte si accingono al nuovo bivacco. Poi, alle tre, sorge la luna e, poiché Gunther si sente meglio riprendendosi dalla stanchezza e dal malessere, riprende anche la discesa per sottrarsi al freddo. Un buon passaggio sulla sinistra e, di primissimo mattino sono sul facili nevai a sinistra dei due costoloni interiori. Sgusciaeranno giù fra le lingue di due ghiacciai,raggiungeranno al più presto i verdi prati, sosteranno alla prima sorgente per spegnere l’arsura. Anzi, adesso, scendono ormai di corsa, sopravvanzandosi a vicenda poiché non ci sono più difficoltà.

MA GUNTHER, DOV’È?
In basso, affermerà amaramente Reinhold, «dove il ghiacciaio forma un piccolo ripiano ai piedi delle rocce, decido di piegare a sinistra: una lunga conoide di valanga consente una veloce discesa. Giunto al sale, il ghiaccio comincia a sciogliersi e c’è acqua. Acqua! Bevo e ribevo mentre la stanchezza mi invade e mi intorpidisce. Mi volto continuamente per vedere se Gunther arriva e, non vedendolo, penso abbia continuato diritto, sotto le rocce». Un miraggio, delle voci: Reinhold si sofferma bocconi su ogni rigagnolo. «Mi spoglio, mi lavo, continuo a bere.Un’ora dopo, Gunther non è ancora arrivato. Comincio a chiamarlo: non risponde. Mi ricopro e ripercorro la morena verso monte continuando a chiamare. Gunther non c’è. Non lo vedo nemmeno presso i molti ruscelli del ghiacciaio dove lo ricerco con apprensione. Ritorno in fretta al mio posto di sosta e proseguo per un buon tratto verso valle: nessuno». «Sono di nuovo al posto di prima, e intanto si è fatto pomeriggio. Prendo la piccozza e rifaccio il cammino già percorso in discesa. Ogni fatica è dimenticata, la stanchezza è scomparsa ma è nata l‘angoscia.Chiamando, cercando, ricalco le orme del mattino. il ghiacciaio è ora una palude e mi bagno sino alle ginocchia. Lentamente, risalgo la conoide fino al ripiano dove ho visto Gunther per l‘ultima volta. Qui, non ci sono più tracce del nostro passaggio, anche le mie sono scomparse:quando siamo scesi, la neve era dura e non abbiamo lasciato orme profonde. Salgo ancora controllando minuziosamente se per caso si sia aperta una qualche buca. Chiamo disperatamente: nessuno risponde. il sole è tramontato da un pezzo quando mi decido a scendere tra i due ghiacciai dove dev’essere passato Gunther. Le tracce di una valanga mi colmano di sgomento: le risalgo e chiamo di continuo mio fratello. Ridiscendo per un buon tratto lungo il ghiacciaio, sempre chiamando. E buio ormai. Torna su a tentoni. Sbaglio strada due volte, ritrovo la valanga, cerco e chiamo accanitamente. Più volte, però, devo essermi addormentato senza accorgermene. È il freddo sferzante che mi risveglia, o sono le mie grida, o forse le grida di Gunther’? Chiamo ancora, chiamo insistentemente per tutta la notte cercando fra i solchi e le pieghe della montagna. Al mattino sto ancora chiamando, ma ormai non so più a quale scopo». È in queste notti trascorse ai cinquemila che, scarponi e calzettoni fradici. Reinhold riporta i congelamenti agli arti.

LUNGO CALVARIO
All’indomani, con la disperazione in cuore, Reinhold non sa decidersi a scendere. Poi, lentamente, deve pure rassegnarsi e trascinarsi a valle. Di quando in quando si toglie gli scarponi e immerge le estremità nel torrente. Le dita dei piedi sono ormai violacee. Di pietra in pietra, con soste sempre più frequenti, scende a valle, perde quota. Ora ricade, ora si riaddormenta. Allorché si risveglia, ha ancora delle allucinazioni. Poi, sente qualcuno che spacca della legna. Si avvia da quella parte e trova tre boscaioli. A| campo base Felix e Peter raccontano per filo e per segno delle parole scambiate all’imbocco del canalone con Reinhold e Gunther. Dicono d’aver trovato in vetta i guanti e le tracce. Se la congettura della discesa dalla parete Diamir avesse fondamento, ci sarebbe il Passo Mazeno che consentì allo stesso Mummery di trasferirsi dal versante Rupal a quello Diamir. Ma al campo base, per forza di cose. si temporeggia. il 3 luglio, finalmente, si va verso Gilgit con una jeep, tuttavia, la strada è interrotta e non si può proseguire.

PROPRIO UNA COMBINAZIONE
Reinhold impiega un‘eternità per fare intendere ai boscaioli d’aver fame. Un pezzo di pane è il suo primo cibo dopo tre giorni. All’indomani, un giovanotto lo accompagnerà fino al paese di Diamirai. Li otterrà qualche altra cosa per sfamarsi in cambio di qualche capo di vestiario. Quel che non scambia, gli verrà rubato da quella diseredata disperata gente. La piccozza in una mano, nell’altra un bastone, eccolo andarsene. Al margine dell’abitato, però, due uomini Io raggiungono. Uno di loro è addirittura armato di fucile… Ma i due gli saranno invece di grande aiuto. Quando non potrà più camminare, a turno, lo porteranno a spalle. Dove il percorso si farà difficile si arrabatterà comunque. Sulle salite ripide procederà carponi. Alla fine, sarà barellato su mezzi improvvisati. Deve assolutamente proseguire per Gilgit e l’odissea avrà un taglio solo allorquando incontrerà due militari che lo rifocilleranno e lo aiuteranno. A venti miglia dalla città, la strada è interrotta da una frana e deve attendere che l’ostacolo venga rimosso. Qui sopraggiungono il capospedizione e tutti gli altri. Hanno smontato il campo base e se ne stanno tornando a casa. «E cosi che ci ritroviamo, per caso, a notte fonda, otto giorni dopo il nostro ultimo colloquio per radiotelefono…». Sono le accorate parole di Reinhold Messner a chiusura di una sofferta esperienza, di una scontata sventura. Ma le polemiche Hermann Buhl. contro lo stesso capo e a causa di una più o meno analoga situazione, avranno un‘eco? Anche se mentre cercava disperatamente suo fratello tra i blocchi di ghiaccio, al campo base si festeggiava la vittoria di Felix e Peter.… Reinhold Messner, pur giovane com’è, sa forse sorvolare e tacere. Con la scomparsa di Gunther, la documentazione fotografica della conquista della vetta andrà perduta. Ed è questo un altro particolare del tutto trascurabile?

ARMANDO BIANCARDI

LE MIGLIORI SALITE DI GUNTHER MESSNER
La breve vita di Gunther Messner (che era nato nel 1946), si è chiusa a 24 anni appena. Compagno preferito nelle scalate del celebre fratello Reinhold, Gunther aveva messo all’attivo una serie tutt’altro che trascurabile di grandi salite nonostante la giovane età. Il modo più degno di onorare un caduto della montagna, non è forse quello di ricordare alcune delle sue migliori imprese? Ecco quindi quali furono.
Roccia: Agnèr – Nord-Est – 1a ascensione (VI-); Monte Cavallo – pilastro di mezzo – 1a ascensione (VI) e via Livanos – 1a ripetizione (VI+); Marmolada di Rocca — via Vinatzer – due volte (VI+); Rocchetta Alta di Bosconero – Nord – 1a ripetizione (VI) e spigolo Strobel – 4a salita (VI+); Cima Ovest di Lavaredo – spigolo Scoiattoli (VI) – tutta da capocorda; Cima Canali – via Buhl (V-VI) – tutta da capocorda.
Misto: Eiger – pilastro Nord (1800 m.) – 1a ascensione; Aiguille d’Argentière – Nord-Est – 1a ascensione.
Ghiaccio: Ortles – parete Nord per il seracco centrale – 1a ascensione e Via Ertl; Presanella – parete Nord per il seracco destro – 1a ripetizione; Aiguille de Triolet – Nord – via Contamina- Lachenal – 4a salita.

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