Il Bisogno dell’Infinito

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[Testo di Giusto Gervasutti – pubblicato su “Alpinisme” nell’Ottobre 1951 e riproposto su “Rassegna Alpina” nell’Agosto 1970] Ho sempre avuto il culto dell’immaginazione e del sogno. Quante volte il professore mi sorprese con lo sguardo distratto, intento piuttosto a seguire un gioco di nuvole, così bello, di fronte alla pedestre e noiosa realtà professorale! Per me, la vita è sognare. É combattere e competere per la realizzazione del sogno. Non sono, i sogni, il lievito della vita stessa?

Ma se mi volto sul passato, quanti ruderi di sogni ed illusioni vedo lungo il cammino. Dal sogno dell’amore fra gli uomini al sogno d’una spedizione in terre nuove.  Eppure, il sogno è il mio pane spirituale. Se mi fosse dato di vivere senza possibilità di sognare e di lottare per un ideale tanto bello quanto inutile, sarei un uomo finito, senza scopi e senza missione.

Davvero, non sono mai riuscito a capire quali attrattive potesse avere l’esistenza di coloro che non sanno staccarsi dalla terra, di coloro, insomma, che nella vita, come comunemente si dice, “ci sanno fare”. Ricordo d’avere sentito parecchie volte questi signori, in rifugi o in alberghi alpini, parlare con la massima disinvoltura dei loro affari, delle loro speculazioni e dei loro pettegolezzi. Nulla poteva sui loro animi inariditi la poderosa voce della natura.

Nel cielo reso straordinariamente limpido da un forte vento, il sole sta calando dietro le vette dei monti. Tra la sinfonia delle luci e l’animo dello spettatore entra in gioco una strana tensione. L’uomo si sente di colpo sbalzato in un’atmosfera irreale e tormentosi impulsi cominciano a premerlo. Vorrebbe muoversi, agire, compiere grandi imprese; fare cose mai osate. Forse, fondersi o annullarsi in quelle luci. Dinanzi a questi spettacoli; che con la loro sovrumana possanza e bellezza, con la loro trascendente realtà, ci narrano il mistero e la grandezza d’una forza onnipotente, una forza ignota s’impadronisce di noi e ci spinge, in armonia con il creato, a manifestare quale sia la nostra. Anche in noi, arde una scintilla di quell’infinita potenza che ci accosta e ci affratella alla natura. Vorremmo essere incarnati con il coraggio eroico d’un Prometeo. Ed questo divino desiderio che ha fatto scrivere all’uomo pagine incancellabili.

Dalle tenebre del Medio Evo sorgono, nella luce d’ una titanica audacia, le figure di Vivaldi e di Colombo. Sulle loro tracce si avvicendano Magellano, Caboto, Vespucci, De Gama… Cosa cercano? Gli storici rispondono: il dominio del mondo, la via delle spezie, la ricchezza… Quanta banalità! Sono risposte di miseri che non comprendono il richiamo delle solitudini.  Che nella vita, non alzeranno mai il capo per ammirare lo scintillio d’una stella.

Che cosa cercano questi audaci? Nulla, forse. Ma nell’ansia di andare oltre, essi seguono soltanto l’occulto richiamo che domina nei loro cuori.  É una disperata volontà di proiettare il proprio mondo nell’infinito.  Solo chi ha provato il senso d’ebbrezza nel trovarsi solo, sperso, quasi assorbito dalla circostante incontaminata natura può comprendere.

Ma, inseguire la bellezza del cimento nella forma più astratta, rimane pur sempre chimera di pochi. Perché i valori nell’esistenza sono falsi, come falsa tutta la morale umana. Lo vediamo nelle alte posizioni politiche, nel carattere dei conquistatori, negli uomini di mondo dove frode, falsità e calunnia sono erette a sistema di vita. Dove il cammino dell’uomo non lascia la traccia dello sci nella neve ma un’orma nel fango.

Distogliersi da questa vita bisogna; affermare a dispetto di molti l’anelito che ci sospinge verso l’alto, verso qualcosa di più grande, di più “nostro”.  L’uomo possiede molteplici mezzi per manifestare questa forza interiore. L’arte, sovrana di tutte le cose. Le grandi avventure sui mari e sui continenti. Le grandi scoperte nell’ignoto delle leggi della scienza, dello spirito, della natura.Mezzi che nella loro estrinsecazione attingono o dall’azione o dal pensiero.

Io sono per l’azione.

Riconosco però a priori come nell’alpinismo non vi sia azione sola. Ma, seppure stimolata dalla contemplazione della natura e dall’esaltazione della propria personalità, vi è pur sempre prevalentemente azione. Parecchie volte, assistendo a un concerto, ho sentito prepotente il bisogno d’essere trasportato di colpo tra i turbini d’una bufera, di lottare con i denti per riavere la vita. Quando nel tramonto in città, vedo le montagne stagliarsi in un cielo ormai verdognolo, un accorata malinconia mi invade. È allora che, maggiormente consapevole, so come il sublime valore della vita consista nel viverla in modo eroico. Stupende sono le grandi avventure sulle pareti a piombo.

La lotta silenziosa ha inizio. Quando ha di fronte la natura, l’uomo ha di fronte se stesso. E la battaglia si sublima. Si sublima per la spaventosa intensità che interamente lo assorbe. Circondato da giganti di sasso, in una solitudine senza pari, l’uomo attacca la parete. Non fanfare, non applausi, non incitamenti lo spingono; solo un intransigente volontà di combattere. In questa lotta, lontano dalla mollezza dei trascurabili quotidiani allettamenti, lo spirito si purifica nello sforzo, e nei muti colloqui con il sole, i venti, le stelle, ritrova la sua libertà.

Quel bisogno d’eroismo, oscura forza millenaria che dal tempo degli eroi greci ha tormentato palesemente l’animo umano, si soddisfa sui precipizi, nei canaloni, nel morso del gelo. È una calunnia degli uomini volti soltanto al comune meschino tornaconto, affermare che gli alpinisti sono spinti all’azione rischiosa, solo dall’avidità della fama e della ricompense… Nel più vile dei mortali c’è qualcosa di più nobile.  Il povero soldato che presta giuramento, pronto al sacrificio, ha il suo onore e il suo amore di soldato. Difficoltà, abnegazione, martirio, morte: ecco le attrattive che agiscono sul cuore.  Massime, queste attrattive, là dove la natura ha posto all’uomo il suo apparente divieto.

Invidio il pilota: egli lavora solo, per ore e ore, senza il brusio delle folle, senza il fastidio di collaboratori e dei colleghi, signore assoluto dei suoi pensieri e soprattutto della sua fantasia. L’uomo ha bisogno dell’infinito per l’infinito, di combattere nell’infinito.

L’orizzonte delimitato, la vita vissuta con visioni ristrette, non è per l’eroe. E quale miglior campo d’azione al disopra della montagna? L’asprezza della natura è presente in ogni variante: dal cirro sfilacciato alla roccia segnata dai fulmini, dagli spigoli smussati al pino ritorto, dalla frana alla slavina, tutto testimonia quali forze usino scontrarsi. Perciò, quando siamo lassù, la nostra volontà si tende in un disperato appello alla forza, essa non fa che uniformarsi al carattere ambientale della montagna. E nella lotta, appunto, ci incontriamo con la genuina e cristallina trasparenza del nostro essere. Nella lotta, abbiamo modo di svelare sempre qualche nostro intimo celato aspetto, di scoprire qualcosa che mai prima d’allora avevamo immaginato poter possedere.

E ogni volta che alla lotta torniamo, dobbiamo in noi stessi trovare la migliore disposizione per esaminarci. Così, in questo esame, bisogna essere severi ed intransigenti.

L’irrequietezza  è stato d’animo abbastanza normale in me: mi sembra sempre ci sia qualcosa che non vada, sono sempre insoddisfatto di me stesso.  Vorrei staccarmi da tutto ciò che è meschino, debole, dal corpo anche, quando non risponde, dalla società che mi obbliga di sprecare gran parte di questo tempo che passa inesorabilmente portandosi via i miei sogni migliori. Essere sempre in uno stato di grazia bisognerebbe, in un’ideale fusione dello spirito con il muscolo. Condizione indispensabile per gustare appieno tutte le gioie della passione allorché trova sfogo.

Ma questo stato di grazia è una inafferrabile utopia che si fa inseguire per anni e anni e con la giovinezza scompare senza darci I’addio. Solo gli eroi greci, forse, nella realizzazione delle loro imprese, raggiunsero una condizione simile: ma con ciò, torniamo nel mito. In questo secolo febbricitante di passioni perverse, le condizioni, cosiddette civili, ci infrolliscono e ci imprigionano. Tuttavia, per gustare a fondo l’ebbrezza dell’azione, dobbiamo sforzarci di essere sempre fisicamente e moralmente preparati. Quanti ho visto disertare la montagna perchè non sapevano tenersi quotidianamente predisposti, così come l’alpinista deve. Spesso, il vedere allievi, compagni, amici che barattavano i silenzi del monte per gli alberghi al mare, ho provato un amaro senso di delusione, di solitudine, di abbandono.

Solo io, a capofitto nei continui cimenti, perseguo un vano ideale? Quante volte mi è tornata questa domanda… Allora, un profondo scoramento mi prendeva. Fra le mie quattro mura mi sentivo un illuso, uno spostato.

Ma la montagna continuava a richiamarmi lassù, dove era più aspra, più terrificante, più spettralmente pura. Ed era lei che mi ammoniva sulla miopia degli uomìni. Sulla loro debolezza, sulla loro nevrotica incostanza in ogni amore.

Con l’andare degli anni, le gioie che la montagna largisce, consolidandosi, si fondono. Tuttavia, infinite sono le gioie che si colgono sul cammino e si rinnovano di volta in volta con ogni ascensione.  Così, infinite sono le forme di alpinismo che possono avere vita. Dare all’alpinismo un solo significato, una sola espressione, è voler cadere nella unilateralità e nell’estremismo.

A certuni patrà parere che questo nostro ansioso vagare di monte in monte rappresenti qualcosa di puerilmente o di follemente chimerico. Costoro, però, evidentemente, si fermano alla superficialità delle cose e non sanno elevarsi dalla loro grettezza. L’uomo felice è sempre stato fanciullo e, come tale, ha sempre rincorso la sua ombra. Ai primordi della nostra umanità, l’uomo che pascolava il gregge nella solitudine dell’alpeggio, sentì il bisogno di cantare, di zufolare, di suonare. Quella semplice melodia, quel monotono canto, erano l’espressione musicalmente primitiva d’un sogno della sua anima.

Passano i secoli, i millenni, progrediscono le condizioni materiali della vita e si centuplicano i sogni e le illusioni degli uomini. L’arte,l’illusione sovrana, viene dai greci portata al massimo splendore, benchè la vita che quei popoli conducevano, agli occhi d’oggi, appaia un’esistenza in cui, all’idillico, si sovrapponga l’irreale. Eppure, l’uomo ha bisogno di illusioni! Nasce e si sviluppa la mitologia, si erigono i massimi templi adorni di sculture e di pitture, si canta, si suona, si balla: un’epoca d’oro per l’uomo. Ogni suo pensiero un’avventura nell’inesplicabile che lo circonda: si sogna a occhi aperti. I Fenici, popolo ricco, cercano al di là delle colonne d’Ercole qualcosa di più bello dei pingui mercanti: lo spirito degli Argonauti li spinge in azioni sublimemente inutili.

E quando la civiltà minaccia di spegnere nell’oro e nel vizio ogni virtù e ogni sogno, giunge il Cristo ad apportare in dono all’umanità, con il perdono, la più bella realtà che trascende il sogno: la legge divina dell’amore. Sarà a questa legge che uomini di pensiero e d’azione sottometteranno le loro migliori qualità. Frattanto, il campo dello scibile umano ingigantisce celermente, il mistero viene relegato in secondo piano, e chi nel mistero voglia immergersi, per ritrovarsi fanciullo, prenderà la via del Catai, delle spezie, della circumnavigazione del globo. La scia delle caravelle di Magellano la scia sulla quale si lanceranno all’avventura gli audaci che sognano… Vasco de Gama… Cook… Pitt. Con l’invadenza d’una marea, il sapere umano dilaga inarrestabile, conosce tutto, tutto analizza, distruggendo il mistero e la poesia che un tempo albergavano sulla bocca della caverna.

Allora, coloro che alla meditazione, alla contemplazione, prediligono i fatti, si aprono una nuova strada con l’esplorazione dell’ignoto spinta alle terre estreme: i Livingston, gli Stanley, i Casati, si susseguono sulle medesime tracce. Gli ultimi angoli rimasti sconosciuti vengono ispezionati con morbosa passione e neppure il trono degli dei, la montagna, se ne salva. Ecco i Whymper, i Mummery, i Sella, i Purtscheller… La febbre dell’avventura ha perso in estensione ciò che ha guadagnato in intensità. Ma la posta in gioco sempre rimasta la stessa, perché, all’audace, la vita conta solo per viverla da audace.

Oggi, la nostra giornata è una continua lotta fra le miserie degli uomini e la loro avidità di denaro. Chi sogna qualcosa di infinitamente più nobile e più grande, passa per un perdigiorno o per uno scervellato. Ecco perché noi, uomini d’azione, non siamo riconosciuti dalla società, ecco perché la taccia di pazzi ci persegue vanamente.

Ma lassù, fra Cielo e terra, spesso fra vita e morte, il brusio della voce di chi nel piano della meschinità si affoga, non giunge più all’orecchio. Solo il baleno delle luci, dei colori, delle audaci architetture, ci sussurrano parole che restano incise nel cuore con l’assordante silenzio della verginità del ghiaccio. Lassù, tornati uomini nel senso vero della parola, udiamo solamente le pure voci della natura, di quella natura intimamente simile al nostro cuore. Lassù, sugli esili appigli, la meschinità non ci può più seguire: una gioia piena ci esalta e fa cantare in cuore l’ebbrezza della vittoria.Vittoria su noi stessi, vittoria sulle debolezze della materia. É l’affermazione della potenza interiore.

Sulle vette, alte, solitarie, austere, solenni, dove gli uomini avevano posto la dimora degli dei, il nostro “io”, purificato, naufraga nell’infinito. Non avvertiamo più limiti alle nostre ali. Siamo assorbiti da quel qualcosa che ci è infinitamente superiore.

Giusto Gervasutti 
 

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