Sono passati ormai tre anni: Fabrizio fu investito una buia domenica mentre tornava a casa a piedi, fu ritrovato in una scarpata solo dodici giorni dopo. Che a trovarlo sia stato io è un fatto, una circostanza, un elemento della storia a cui, mio malgrado, non posso sottrarmi. Io ricordo bene quei giorni e la lezione che mi hanno impartito.
Nevicava, faceva un gran freddo. Ma ciò che mi colpì fu l’indifferenza. “E’ scappato” dissero, lo cercarono un po’ e poi smisero. Qualcuno fu persino crudele nei giudizi. Io Frabrizio quasi non lo conoscevo, non sapevo niente di lui se non che era un mio compaesano e che eravamo quasi coetanei.
Io ero tornato ad Asso da poco, ero stato via a lungo e cercavo un po’ di equilibrio, un po’ di pace. Sapevo bene sulla mia pelle cosa fosse la solitudine e la tristezza. Non era il freddo dell’inverno che scuoteva le mie ossa.
Una domanda mi ossessionava: “Se fossi io quello scomparso sarebbe diverso? Direbbero che sono scappato? Che sono un poco di buono? Inventerebbero maldicenze o qualcuno aiuterebbe mio padre ed i miei fratelli a cercarmi nel bosco?” La parola Comune, la parola Comunità, che senso hanno oggi nella vita di un paese? La solitudine, l’indifferenza e l’egoismo soffocano ogni cosa? Se scompariremo nell’inverno qualcuno ci verrà a cercare? Se la mia anima urlerà aiuto nel vento qualcuno le presterà ascolto?
Dodici giorni. Lunghi giorni in cui uscivo nel bosco e scrivevo appelli su questo neonato blog, l’anomalia un po’ frivola per la valle che era cima-asso. Mi sentivo in colpa, ero intimorito dal prendere una posizione così pubblica: “Cosa pensi di fare? Diranno che sei un esibizionista, uno che vuole farsi vedere. Cosa vuoi cercare? Cosa vuoi trovare? Non vedi che non interessa a nessuno? Pensa agli affari tuoi!”
E’ strano perseguire la cosa giusta e sentirsi in colpa, ma decidere di alzarsi in piedi quando sono tutti seduti significa innanzitutto essere soli. Con me c’era Max e c’era Enzo, altri due “strambi” del paese in giro per il bosco mentre i savi ed i probi giudicavano da dentro le case.
Ci vollero dodici giorni perchè ci fosse un moto d’orgoglio, perchè si rianimasse un paese. Finalmente era una giornata di sole e tutti quelli che contano erano finalmente intervenuti. Il piazzale era gremito ed io, finalmente, ero solo uno tra i tanti. Anzi, ero nel gruppo degli “scarsi”, quelli che avrebbero fatto bene a non perdersi e a non farsi male disturbando le operazioni di ricerca.
L’ironia ha voluto che fosse nel posto più ovvio ed al contempo meno accessibile. Gli ero quasi passato accanto in una giornata di neve, i rami e la coltre bianca me lo avevano nascosto mentre arrampicavo su quella scogliera. Quando sono tornato su quelle rocce, tra i rami a strapiombo sul Lambro, non pensavo che toccasse a me ritrovarlo. Non eravamo più soli, non avrebbe dovuto toccare a me. Invece andò diversamente, la mia ricerca era finita e dopo tanto tempo io e “Gigio” c’eravamo ritrovati faccia a faccia.
Fabrizio aveva con sè anche la verità: un misero pezzo di plastica, uno specchietto d’automobile, ma tanto bastava per azzittire tutte le cattiverie e le maldicenze. Era un ragazzo che una domenica pomeriggio tornava a casa a piedi quando fu investito da un’automobilista che non si fermò. Sarebbe stato diverso se fossi stato io al suo posto?
Davide Valsecchi
L’unico modo che conosco per non essere sopraffatto dalla tristezza è agire, puntare i piedi e tentare di rialzarmi comunque. La mia volontà mi rende spesso una persona priva di tatto, di questo mi scuso con chi vorrebbe lenire la propria sofferenza in un quieto cordoglio. Mi dispiace, non voglio dimenticare e non ho altro modo per ricordare.
Un grazie ad Andrea della Torre che scattò questa foto così importante