[Krulak] E’ lunedì mattina, arrivo da una notte mezza insonne, persa in mezzo a mille pensieri: sono in ferie e dovrei essere a Berlino, con una persona speciale, ma… ma nulla, non dilunghiamoci sulle paturnie sentimentali di questo “tasso”. Guardo fuori dalla finestra, il Bolettone è offuscato dal fumo di alcuni focolai d’incendio alle sue pendici …un’altra giornata persa nei pensieri di questo periodo? Ma poco più a oriente scorgo il profilo delle montagne che chiamo casa. Butto tutto, ma proprio tutto nello zaino, viaggio verso “casa” per ritrovare una parte di me: è stata un’annata in cui mi sono dedicato poco a me ed alle nostre (di noi Badgers) montagne. Pochissime uscite, perso dietro a sogni ed utopie. Speravo di tornare qui, presto, con qualcuno. Non da solo: ma chissà, forse leggendo questo racconto, sentendosi chiamata in causa, forse un po’ si arrabbierà.
Non so ancora dove andrò, ma mezz’oretta e sono ad Oneda, pronto a partire. Scelgo la strada più veloce per portarmi in quota, il sole spunta a malapena dietro al Corno Centrale giocando con le ombre autunnali degli alberi spogli, donando colori a dir poco singolari, mentre la mia mente vaga in ricordi di ormai quattro anni fa. Quando un po’ per caso ho conosciuto il “Capo” della masnada dei Badgers! Due sconosciuti in montagna per la prima volta insieme a saggiare le abilità e le competenze dell’altro…
A tempo di record per il mio scarso allenamento di quest’anno sono al SEV, una breve sosta ad osservare il San Primo che ricorda un vulcano con quel pinnacolo di fumo per il vasto incendio che si sta propagando sopra Veleso. Incredibile come l’uomo sia capace di generare distruzione simile, un senso assurdo ed inconcepibile della psiche umana l’appiccare incendi. Spero che con l’aiuto del Canadair riescano a domarlo prima che si mangi ancora ettari di montagna. Immagino lo spavento negli occhi del piccolo capriolo, quella piccola creatura con cui mi sono quasi “scontrato” di notte, un anno fa: quelle fiamme, quel fumo, chissà quanta paura. Ma ormai sarà adulto, posso solo sperare sia nascosto, abbia trovato riparo…
Mi sposto rapido sfiorando il Pilastrello, ricordando la prima volta in cui Birillo mi mostrò la forra che si nasconde alle sue spalle, le pareti di quel mondo misterioso e segreto appeso sotto un sasso incastrato. Poi su al Corno Orientale, una rapida sosta ed una pronta risalita verso la vetta del Corno Centrale. Poi mi allontano dal sentiero, in cerca di una bella sosta dove godermi i colori autunnali: sotto i miei piedi la bianca roccia dei corni csi riscalda al caldo sole anomalo per questa fine di ottobre. Gioco a nascondino con una nuvola, non vuole saperne di farmi fare foto in pieno sole. Poi via, verso l’ultima tappa, il Corno Occidentale, teatro dei nostri auguri natalizi e di romantici tramonti… e intanto il vulcano San Primo erutta ancora…
Scendendo verso il SEV, per tornare all’auto, incontro il primo e unico essere umano della mia mattinata, un altro avventuriero dell’Isola Senza Nome con cui scambio giusto qualche parola sulla tranquillità di questa mattinata. Non vedo l’ora di tornare a fare un bel giro con i Badgers: cosa che manca ormai da troppo tempo!
Il Corno Birone è alle mie spalle, il sole basso sull’orizzonte filtra oltre la cresta sull’erba alta. C’è un gran silenzio quando si è lontani da tutto. Mi siedo a prender fiato, mi siedo con i piedi a ciondoloni sul tronco di una betulla che il vento ha piegato tanto da costringerne la crescita quasi in orizzontale. Sono sdraiato su qualcosa che dovrebbe essere verticale, guardo il cielo sospeso sul vuoto sopra i prati. “Birillo, in Catalonia fanno la guerra civile e tu sei qui a cazzeggiare…”. L’immagine dei pompieri che si schierano a difendere la folla dalla polizia non mi esce di mente: no, è qualcosa di troppo profondo per essere ignorato.
Scintille di un cambiamento che forse non avverrà: nei porti davanti alla città hanno ammassato 10.000 militari della Guardia Civil. Il sindacato degli scaricatori di porto ha boicottato il loro attracco, ma prima o poi scenderanno nelle strade. “Bisognerebbe andare in Catalonia. Cristo santo, settanta o ottanta anni fa saremmo partiti: una guerra, un ideale, uno scopo, un avventura.” I giovani del novencento erano pronti a credere in qualcosa, erano poeti, scrittori, eroi. Oggi siamo schiavi di non si capisce cosa. “Non possiamo più uccidere il Re, perchè ci hanno detto che il Re ora siamo noi” recita la canzone: ogni battaglia è stata vinta per una generazione di sconfitti.
Davanti a me c’è il grande ed orrido camino del Bevesco: sono anni che lo osservo, che fantastico di infilarmi nelle sue tenebre per riemergerne vivo e vittorioso sulla sua cima. Un pensiero fisso tra i tanti. Ma “Andrea” scalcia nella pancia di Bruna ed una specie di epifania mi ha colpito all’improvviso: per un istante ho distolto lo sguardo dalle montagne ed ho osservato le terre degli uomini. Come svegliarsi da un lungo sonno, riaprire gli occhi destandosi dal Sogno di Smeraldo per scivolare nello sguardo di un bambino ancora non nato: “Cazzo è sta merda?! Per quanto ho dormito? Come ho potuto lasciare che tutto questo accadesse? Dove ero quando questo mondo aveva bisogno di me?”
“Gli otto dell’orchestra suonavano Jazz mentre il Titanic affondava.” La prima volta che sono stato a Parigi avevo 15 anni. Con un professore di filosofia, un ex calciatore anarchico, abbiamo visitato i mercati, bancarelle di roba usata affollate dall’umanità più improbabile. Mi ero innamorato di una giacca usata da motociclista marrone, probabilmente anni ‘60, consumata e livida di vita vissuta. Vivevo “la pace nella guerra fredda”, mai più guerre in Europa: il “Kuwait” e “la tempesta nel deserto” erano ancora lontani e sarebbero state comunque solo “Traccianti verdi nella notte di Baghdad”.
Il futuro sembrava certo così come lo sarebbe stata la pace, l’uguaglianza, la giustizia: era il tempo dei diritti per tutti, dei diritti per le minoranze, per le eccezioni. In un mondo perfetto e luminoso potevo ritagliarmi il mio spazio ai margini, viaggiare, esplorare gli ultimi spazi vuoti, gli spazi buii in cui la luce rischiava di perdersi. Ognuno di noi allora pensava di poter essere “diverso”, ora ci siamo ritrovati tutti “uguali”.
Il G7, il G8 e poi l’11/9. L’Afganistan, l’Irak. Le bombe nelle città, nei treni, gli spari ai concerti ed i camion sulla folla. La luce si è fatta opaca, il mondo delle possibilità è diventato il mondo dei limiti. Il disordine e l’ingiustizia sono diventati la nuova regola. La paura e l’incertezza ci hanno reso tutti deboli, pavidi …omologati ed incolonnati, rabbiosi ed impotenti contro tutti coloro che, per coraggio, per necessità o per opportunismo o spregiudicatezza, piegano le leggi insensate a cui non sappiamo ribellarci.
«Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà.» L’Isola Senza Nome è il mio giardino dei Getsèmani: ma io sono salito qui per pregare o per nascondermi? Il coraggio tra queste rocce solitarie e selvagge è forse solo paura? “Cosa farai Birillo? Condannerai la tua progenie ad un futuro da pirata come il tuo? Ne farai avventurieri erranti, ma esiliati, in un mondo in declino?” All’improvviso tutta la mia debolezza mi assale ed il mondo selvaggio attorno a me si piega mortificato davanti ai miei dubbi. «Gli Dei delle Montagne benedicano la Catalonia. Forse sono solo un popolo di “brianzoli” ottusi ed arricchiti, ma sono in strada, cantano insieme aspettando la marea nera dei 10.000 soldati della Corona. Cantano mentre sognano di affrontare e sconfiggere un Re, di plasmare e dare forma al proprio mondo. Il Re ed il suo Governo sbraitano contro di loro minacce ed ultimatum mentre noi, respirando il fumo dell’inceneritore, la puzza dell’ingiustizia, annuiamo a promesse e lusinghe che già conosciamo come bugie. Dio benedica i Catalani: domani forse saranno sconfitti ed incatenati, ma oggi hanno il proprio prezioso futuro stretto nelle proprie mani. Io non credo di possedere tale ricchezza…»
“Bona sort, Déu t’ajuda!”
Davide “Birillo” Valsecchi
Oggi è un anno che il ponte di Annone è crollato. Tutti hanno guadagnato qualcosa, solo uno sfortunato ha perso tutto, e dopo un anno la colpa è di nessuno. Fanculo…
[Giuseppe.D.] Partiamo da lontano: nel 2009 ho fatto la mia prima escursione, ai Pizzetti, non avendo mai sentito parlare prima di “escursioni”. Fino ad allora, io avrei detto “andare in montagna”, che per me in pratica significava prendere la bici e farsi un giro di un centinaio di km: Penice, valle Imagna, Campo dei fiori, Sestriere, a seconda di dove abitavo..
Da bambino avevo fatto qualche passeggiata sul Vesuvio, e questa era l’idea più vicina al trekking che mi ero fatto: “vai un po’ dove te pare…”. Quando poi mi sono trovato su un sentiero con bolli e cartelli, mi è sembrata una cosa strana. Un po’ alla volta ho cercato di re-interpretare tutti questi segni e di intenderli solo come dei consigli, ma anche così, mancava qualcosa di fondamentale, che Messner chiamerebbe “la libertà di andare dove voglio”.
Come diceva un tale:«Ci sono dei luoghi, credo ce ne siano diversi, che non appartengono proprio del tutto alla geografia fisica; sono dentro la carta geografica ma la topografia dice molto poco di loro. Sono i luoghi dell’ “altrove”, e i chilometri non rendono giustizia della loro distanza: sono molto più lontani della strada che bisogna fare per arrivarci. Appartengono appunto ad un altrove, e quando ci arrivi percepisci tattilmente la loro singolarità: devi adattare il tuo sguardo, la tua mente, le tue attese non semplicemente ad un paesaggio inatteso, ma a un’inattesa realtà. Ci arrivi per caso, o ci arrivi perchè quel luogo ti chiama, assai raramente perchè lo trovi su una guida turistica.» O un altro tale un po’ più conciso: «C’è ancora terreno d’avventura..». E potremmo citarne tanti altri… Perché altrimenti dovrebbe venirci in mente di andare in questi posti?
Ho visto “la temibile” pochi mesi dopo i Pizzetti, cercando una spiaggia dove nuotare lungo il lago: un posto spettacolare. Ma chi se ne intendeva mi aveva detto: “mica si può salire da lì!..”.
Poi è venuto il 50° OSA, poi il lungo periodo della valle Moregge …e poi, una cartina Kompass su cui trovo la traccia che cercavo. A ottobre 2013 ci proviamo un paio di volte, l’ultima anche da solo: le tracce degli animali in realtà sono tante, e fanno tutte paura: si arriva intorno ai 700m ma poi non si capisce dove andare. Si potrebbe salire a caso, ma senza segni “umani” e senza nessuna sicurezza di uscirne in alto, mi sembra troppo difficile…
Passa un altro anno, prima di conoscere “ItinerAlp”, un marziano che fa tranquillamente Manduino e pizzo di Prata in un fine settimana, ed organizziamo un altro tentativo: per lui è solo una variante di un giro già fatto, e con il suo aiuto salgo “facilmente”. Il Moregallo però per me rimane misterioso: ci ho capito ben poco, e tutto quello che ho visto sul lato Est rimane ancora frammentario. Faccio altre esplorazioni dall’alto, arrivo da Preguda alla casetta di “Argo”, da “Argo” scendo alla scalinata della temibile, da “Passo400” a “Preguda”, da “Argo” in traverso verso Nord… ma ogni volta la domanda è “dove diavolo sono??!”
Poi passa il tempo e un po’ alla volta non me la sento più di rifare tutto il giro partendo dal lago; fin quando Davide non arriva lì con il suo omonimo: allora decidiamo di sentirci per la prossima volta… 4 anni e 4 giorni dopo il primo tentativo!
La casa in cui sono cresciuto è molto vecchia, risale alla fine dell’800. L’architetto che la costruì curiosamente aveva lo stesso nome di mio padre. In un angolo della facciata, in basso nascosto tra le rose, l’architetto lasciò un “bottone” immerso, ma ben visibile, nell’intonaco rosa della casa. Una cosa in verità piuttosto curiosa. Un giorno, all’età di cinque o sei anni, litigai con i miei genitori, forse per un capriccio o per qualcosa che mi era stato negato. Mi arrabbiai a tal punto che decisi di fare qualcosa di cattivo: presi un sasso e distrussi quel bottone. “Ecco cosa posso fare! Guardate cosa posso fare quando mi fate arrabbiare! Nessuno può impedirmelo!!”. Nessuno mi vide compiere quel gesto e nessuno si accorse mai che il bottone era stato rotto. Solo io lo sapevo ma, passata la rabbia, continuavo a pensarci. Avevo distrutto il ricordo di una persona, una persona che non conoscevo e che non mi aveva fatto nulla, una persona che non esisteva neppure più, se non nel ricordo tangibile di quel bottone lasciato a testimonianza. Quel bottone aveva forse il triplo della mia età ed io avevo fatto una cosa semplicemente terribile. Pensai a quel bottone per anni e riuscii a fare pace con me stesso solo quando trovai una moneta della giusta dimensione da infilare nel “vuoto” lasciato dal bottone. Quella moneta avrebbe ripristinato il “ricordo” e sarebbe stata la testimonianza del mio errore, della lezione che avevo appreso.
In questi mesi sulle nostre montagne, soprattutto quelle ad est del lago, è nata una piccola ma intensa faida tra “croci di vetta” e “bandierine tibetane”. In realtà questi oggetti non hanno tra loro nessuna animosità, ma altrettanto non si può dire delle rispettive fazioni. In passato mi sono occupato del restauro di croci, madonnine e lapidi danneggiate o vandalizzate sulle nostre montagne. Con lo stesso entusiasmo ho dato anche vita a piccole iniziative legate alle bandiere tibetane, sia sulle montagne del lago che su quelle Himalayane. Quindi, curiosamente, entrambi i lati della contesa si sono rivolti a me in cerca di supporto per la propria causa. Io, come spesso accade, ho finito per litigare bruscamente con entrambi (non vado mai per il sottile in una contesa).
Io sono molto attento a distinguere gli aspetti spirituali da quelli religiosi e, lo confesso, le religioni sono per me più che altro una questione antropologica e sociale. Se davvero esiste un dio credo sia più interessato ai dubbi ed alla ricerca di chi si professa ateo che alle certezze di chi pensa di parlare in suo nome. Per me croci e bandierine hanno forse significati diversi ma lo stesso valore umano. Storco il naso quando una nuova croce viene issata su qualche cima, sopratutto quando grandi, ingombranti, appariscenti e trasportate con l’elicottero. Tuttavia non posso che provare affetto per le vecchie croci, che hanno resistito al tempo, che sono state lasciate (a spalla) dai nostri predecessori e che sono state testimoni di tante storie di montagna. Allo stesso modo storco il naso quando un simbolo delicato, come le bandierine del vento, viene abusato, trasformato in festoni di carnevale abbandonati con supponenza modaiola in ogni dove.
Paradossalmente il cristianesimo delle origini ha grandi similitudini e contatti con la visione del mondo buddista, più di quanto la maggior parte della gente possa essere portata a credere. Paradossalmente entrambe le filosofie apprezzerebbero più l’umiltà del mio “bottone” che le grandi cattedrali, le croci, i gompa o i templi. Anche gli umili “cavalli del vento”, quando usati in malo modo, perdono la straordinaria forza che contraddistingue lo spirito e la preghiera del “bottone”.
Ieri notte in Grignetta, teatro principe di questo scontro, è crollata la croce di vetta. Nessuno saprà mai se sia stato il vento o la mano di qualche sciocco. Le reazioni delle due fazioni sono però arrivate immediate: i “pro-bandierine” più integralisti, i rastapanda del nirvana takeaway, festeggiavano la caduta dell’idolo contestato con enfasi imbarazzante, paradossalmente simile a quella dei talebani dopo aver aver bombardato e distrutto i Buddha di Bamiyan. Ovviamente la fazione opposta, che raccoglie tanto i bacchettoni religiosi e quanto i semplici appassionati della tradizione, recriminava minacce ed accuse.
La vecchia croce è ora a terra, tradita dalla mano di qualcuno o forse piegata dalla fatica e dal tempo. Due fazioni se la contendevano e, mentre tutti erano più intenti a litigare che a prendersene cura, forse si è davvero lasciata cadere. Ora inevitabilmente arriverà una nuova croce, i rastapanda gioiranno ancora per poco perchè probabilmente sarà più grande, più solida, più imperiosa. “Hai visto? Hai visto cosa posso fare quando mi fai arrabbiare? La vedi questa? Pensi ora che il vento o una spallata potranno buttarla a terra?” Di rimando i Rastapanda faranno scaletta salendosi sulle spalle l’un l’altro per appendere le proprie bandierine più in alto, più numerose, più soffocanti. “Hai visto? Hai visto cosa faccio alla tua croce! Hai visto quante bandierine posso appendere se mi fai arrabbiare?” Il ciclo riprenderà, violento e spietato come le stagioni, mentre la vecchia croce sarà dimenticata, rottamata con i ricordi, la gioia, le testimonianze e le aspirazioni delle persone per cui “semplicemente” rappresentava la cima della Grignetta.
Questo mio fiume interminabile di parole, forse inutile ed affidato al vento, solo per ricordare la vecchia croce e sperare che il suo crollare, il suo lasciarsi andare, possa essere l’inizio per qualcosa di nuovo. Che il futuro possa essere per tutti una “moneta della misura giusta”, per ricordare e superare gli errori in una ritrovata unione.
Bruna è incinta ormai da quasi tre mesi, attende l’arrivo di “Andrea”: ancora non sappiamo se è un maschio o una femmina, ma “Andrea” è per certo il suo nome …e non siamo stati noi a deciderlo. Già, non starò a spiegarvi come vengono al mondo i bambini ma nel momento del concepimento, in quel momento lì, è successa una cosa piuttosto strana e decisamente trascendente: anziché muggire come un vecchio alce in calore – come normalmente accade – sono diventato improvvisamente serio e, quasi fuori di me, ho pronunciato solenne due parole: “Benvenuto Andrea!”.
Bruna, comprensibilmente, ha scosso la testa sconsolata per la mia ennesima stramberia. Il giorno dopo aveva ben presto dimenticato l’accaduto. Io no, per me era davvero successo “qualcosa” ed ora, alla luce dei fatti, tutta la faccenda appare molto più che una semplice coincidenza. Quando i vari test hanno confermato la situazione, ho raccontato questa storia a mio fratello che è subito scoppiato a ridere divertito: “Bene, in pratica più che un concepimento è stata un’evocazione!”.
Bruna potrà confermarvelo: misteriosamente io lo sapevo molto prima di lei. Può sembrare buffo, ma per me è una strana sensazione avere la piena cosapevolezza del momento in cui “Andrea” ha fatto il passo, nel momento in cui è entrato in questa realtà.
“La consapevolezza (awareness in inglese) indica la percezione e la reazione cognitiva di un animale al verificarsi di una certa condizione o di un evento. La consapevolezza non implica necessariamente la comprensione.” Ho percepito con precisione un “cambiamento” grazie alla mia stramba sfera sensoriale, ma percepire un cambiamento non necessariamente significa sapere come affrontarlo. Da quel momento, infatti, ho dovuto confrontarmi con incertezze ed inquietudini che non avevo mai sperimentato. Un’ansia interiore imprevista, non soffocante o travolgente, più simile ad una pulsione, ad un imperativo inconscio. Qualcosa che non ho ancora messo a fuoco ma i cui effetti pratici sono abbastanza chiari.
Avevo un sacco di progetti, esplorazioni e salite che volevo tentare: tutto rimandato. In un mese e mezzo, incredibilmente, sono uscito in montagna solo due volte. Una volta fino a Preguda: una specie di pellegrinaggio solitario verso il grande Sasso Erratico su cui poggia la chiesetta di San Isidoro, letteralmente “dono della dea della luna”. Un luogo che fin dall’antichità è testimone di culti e riti di fertilità. La secondo a San Tomaso, semplicemente accompagnando Bruna a fare due passi all’aperto. Il resto del tempo sembriamo due pinguini che hanno trasformato i divani del salotto in una specie di nido dotato di Wifi: Bruna non fa altro che dormire ed io le ciondolo attorno. Sono io il primo a stupirsene, ma la natura è davvero incredibile e sembra che neppure consapevolmente ci si possa opporre ad istinti millenari.
Impossibilitato dall’affrontare in modo volontario il “rischio” mi sono ritrovato in una specie di “armistizio”, di tregua olimpica: “tutti i combattimenti si concludono senza che nessuno si arrenda”. Ogni battaglia è sospesa senza che per questo possa essere considerata perduta. Una sensazione decisamente “nuova”.
Tuttavia, in questo turbine di novità, mi sono imbattuto in una soluzione inaspettata: sono tornato in laboratorio, sono tornato in palestra. Per come mi sento ora non era concepibile attaccarmi alla “plastica” delle palestre di arrampicata, nè volevo immergermi nella rigida disciplina di un Dojo di arti marziali. Fortunatamente il destino mi ha offerto la migliore tra le possibili alternative: la suprema libertà del movimento a corpo libero.
Sull’Isola Senza Nome è mandatorio conservare ed ottimizzare le proprie energie, mentali e fisiche, perché da questo dipende banalmente la propria capacità di sopravvivenza. Per poter arrampicare con Ivan, con Josef, con Mattia oppure esplorare in solitaria il Moregallo questo concetto è semplicemente la base, diversamente conviene lasciar perdere o si rischia di farsi seriamente “male”. Ma in palestra, in questo tipo di palestra, è tutto diverso: già, in pratica faccio degli allenamenti terrificanti, ma assolutamente innocui!
Correre, saltare, allungarsi, equilibri nuovi attraverso movimenti dimenticati o mai completamente esplorati. Mi “tuffo” spendendo tutto, fino a crollare esausto, privo di forze. Poi mi fermo, tiro fiato e mi infilo sotto la doccia. Ho dolori per tre o quattro giorni e poi ricomincio.
Quindi perdonatemi, anche per questo scrivo poco: questo è il mio “armistizio”, quello che faccio mentre osservo i passi di Andrea e Bruna.
La vecchia Subaru Impreza mi attende, parcheggiata come sempre in mezzo al fango ed alle erbacce. La fiancata di destra è “ammaccata”, il blu metallizzato del cofano si sta scrostando ed il paraurti è tenuto insieme da fascette di plastica. Un vecchio rottame a trazione integrale permanente prodotto nel 2001: beve come un alpino con la ripresa di un bradipo. Sembra l’auto di Saul Goodman: un vecchio rottame spompato che non vuole arrendersi, ma in fondo in questo ci assomigliamo. Era l’auto di mia madre, probabilmente dovrei cambiarla, ma è un ricordo: finchè ce la farà a marciare sarà la mia “Birillo-Mobile” ufficiale. Mi infilo dietro il volante, mi piego sulla pedaliera, riattacco i fusibili: qualcosa nell’impianto elettrico si è “guastato” e quella è l’unica soluzione per accendere e spegnere le luci. Come il pilota di un 747 controllo con diligenza la check-list prima del decollo, poi giro la chiave ed il motore “Boxer” si sveglia e ruggisce: ha ancora una bella voce. La plancia si illumina e lo stereo si accende: “Life won’t wait”, la vita non aspetterà, un CD originale dei Rancid che risale al 1998 e che gira nello stereo ininterrottamente da cinque o sei anni. Me lo regalò Irene per il mio compleanno, l’anno prima di partire per il Pakistan, quando avevo ventun anni. Dicono che Irene mi facesse il filo: io non me ne ero mai accorto e, per il bastardo che sono, mi misi con la sua migliore amica. Ora però è tempo di andare, sui ponti di Lecco inizia a formarsi traffico. Infilo la retro, stringo il volante, ingrano la prima, ballo sul cambio mentre lascio che il 4X4 strida sulle gomme ad ogni rotonda.
La mia giornata è cominciata ormai da un pezzo. Da quando Bruna è incinta le cose sono cambiate, lentamente, in modo sottile e quasi impercettibile. La mattina, ogni mattina, mi alzo, infilo i pantaloni della tuta ed una felpa con il cappuccio. Infilo una fascia per i capelli. Poi i calzini, tirandoli sopra i calzoni. Ormai ho imparato a trovare i vestiti al buio, in silenzio, ma c’è voluta un po’ di pratica e di organizzazione. Entro in cucina e sotto il lavandino prendo un sacchetto di plastica. Poi esco sul terrazzo. Per un istante guardo il cielo, studio se l’alba sul Resegone porterà pioggia o bel tempo. Poi scoperchio le cassette dei gatti, impugno la paletta/setaccio e comincio a trafficare con merda e piscio di gatto incrostati di sabbia. Ormai è qualche mese che faccio pratica: ho imparato qualche trucco ed ho la mia “routine” collaudata. Muovo la sabbia, la setaccio, sò cosa e dove cercare. Poi chiudo il sacchetto, rientro in casa, lavo diligentemente le mani e preparo il caffè prima di infilarmi sotto la doccia. Ogni giorno. Toxoplasmosi. Questo è il motivo per cui uno come me è diventato suo malgrado una “gattara”, perchè mi tocca l’aspetto meno nobile dei tre gatti di Bruna: Mina, Nora ed Abu.
Bojack the Horseman è il cavallo di un cartone animato, un fallito alcolista che ha avuto successo in una serie TV degli anni 90. “Sarà sempre così difficile?” Chiede Bojack ad un Babbuino mentre stremato prova con il Jogging a raddrizzare la deriva della sua vita: “Poi diventa più semplice. Ogni giorno diventa un po’ più facile. Ma devi farlo tutti i giorni: questa è la parte difficile. Ma poi diventa più semplice.” Gli risponde il saggio Babbuino con la fascia anni ‘80.
Orbene, io di cose strane ne ho fatte tante in quarant’anni, ma per quanto mi sforzi non ricordo di aver “fatto e rifatto qualcosa ogni giorno”. No …per quanto io riesca a ricordare “spalare merda di gatto” è la cosa che fino ad oggi ho fatto con maggior costanza. Già, e l’aspetto curioso è che non ho mai fatto qualcosa di simile per nessuno, nemmeno per me stesso. Ora invece mi viene quasi naturale, quasi spontaneo, e lo faccio per qualcuno che ancora nemmeno conosco, per qualcuno che ancora non esiste. Sì, pare decisamente che qualcosa sia cambiato… “Life won’t wait”
[TeoBrex] Ci sono numeri telefonici che andrebbero composti con moltissima attenzione, in quanto portatori di esplorazioni ed avventure fuori dal normale. Sabato pomeriggio ero immerso nella lettura del gran libro di Andrea Gobetti “Storie di SOCCORSO SPELEOLOGICO” mentre accanto a me il felino dormiva sognante e fuori dalla finestra il cielo si preparava a scaricare di nuovo pioggia come violentemente aveva fatto venerdì notte mentre tornavo con amici del neonato GRUPPO SPELEOLOGICO TIVANO dalla nuova sede del GRUPPO GROTTE MILANO dopo aver passato una gran bella serata di condivisione sulla Speleologia Esplorativa.
Chiamo Ivan giusto per fare “quattro chiacchiere” e dopo un attimo ecco fulminea la proposta. Come volevasi dimostrare. Senti un po’ Teo, tuona il Guerini, domani non riusciremo a tornare per aprire nuove vie in parete lassù perché in Montagna danno pioggia sino alle otto, invece qui in città dalle tre dovrebbe smettere per poi lasciare spazio al sole, ascolta la mia proposta: verresti con me a vedere una paretina di conglomerato in un luogo terribile e dimenticato di Milano? Prima andiamo a fare un po’ di riscaldamento alla montagnetta, poi vediamo se la roccia sarà asciutta e nel caso andremo al parco a ripetere dei tiri sulle rocce dove noi giovani nati negli anni cinquanta andavamo ad arrampicare durante le pause di scuola e nei pomeriggi. Impossibile rinunciare ad una proposta del genere, appuntamento a Milano alle 9.30.Aperitivo a casa del Tasso Capobranco Birillo per festeggiare il compleanno di Bruna e ritorno verso casa molto presto.
Arrivo alla rotonda di Erba pensando che al mio locale preferito è in svolgimento una serata PostPunk e DarkWave ed un evento del genere al Rock Pub Centrale so bene cosa significa: ballare, bere qualcosa (poco nulla visto che sono sempre alla guida e la macchina da sola non viaggia) e tirare l’alba al parcheggio chiacchierando. L’auto tira dritta verso casa, la vita è fatta di scelte ed ora come ora preferisco l’esplorazione al divertimento. Preparo uno zaino leggero, mi sparo lo Jägermeister surgelato della buona notte e mi fiondo in branda.
Viaggio verso la città, oltrepassati i suoi confini il paesaggio è spettrale: nessuno su entrambe le carreggiate solo io mi trovo sulla strada, gli unici occhi testimoni del mio transitare sono quelli delle telecamere di sicurezza, sembra di essere sul set di ventotto giorni dopo. Non male come paesaggio post-apocalittico!
Puntuale scende Ivan, parcheggiamo l’auto in un luogo sicuro e protetto dalle grinfie di criminali e sbirri assetati di contravvenzioni da lasciare sotto al tergicristalli anteriore ed andiamo a fare colazione. A piedi arriviamo alla montagnetta che sovrasta la città e passiamo in rassegna ogni costruzione installata sul posto per fare esercizi, risaliamo i crinali fuori sentiero e scenderemo poi di buon passo a ripetere le ultime serie di allenamenti alle sbarre e sulle scalette attrezzate.
Non pensavo ci fosse un luogo così tranquillo a ridosso del cuore pulsante della Milano frenetica che sono abituato a vedere, una piacevole scoperta e davvero un bel luogo ben attrezzato da tenere in considerazione. Non male. C’era una grande gara di corsa a piedi e la città era presidiata ad ogni crocicchio dalle forze dell’ordine, siccome volevamo anche fare qualche movimento di boulder sulle strutture di metallo della zona, abbiamo preferito attendere che la manifestazione finisse onde evitare inutili rimproveri o discussioni. Tempo di tornare sui nostri passi dopo aver girato in lungo ed in largo la montagnetta ed ecco come per magia di nuovo tutto semi deserto.
Arrivati al ponte del grande raccordo stradale che porta od esce dalla città a seconda dei casi, cominciamo a fare qualche movimento estremo di boulder sulla base della ringhiera, sui pilastri portanti e successivamente sul ponte, davvero bello fare street boulder in totale libertà è un bel modo di assaggiare ed esplorare materiali diversi dalla roccia ed adattare il corpo ed i movimenti ad essi.
Tempo per un paio di birre gelate ed un toast per poi portarci sempre a piedi dalla parte opposta della zona. Arriviamo in questo luogo dimenticato e lasciato a se stesso, nemmeno sulla carta della città esiste eppure c’è. La zona di giorno sembra essere tranquilla, ma di notte si trasforma in una pericolosa terra di nessuno, quindi possiamo stare tranquilli ma sempre con i sensi all’erta.
Le pareti sono lì, belle e totalmente inesplorate, purtroppo completamente bagnate e quindi impraticabili. Osservo la composizione della roccia, Ivan sembra il conglomerato dove ho arrampicato con Josef a Trezzo e Paderno. Certo Teo, le hanno importate da li queste pareti secondo la storia… Bello capirsi al volo senza troppe parole inutili.
Ora che so dove si trovano, sicuramente ci torneremo di giorno e lontano da giornate di pioggia. Altro cammino ed eccoci ad uno dei parchi più grandi della città, dove anni fa i giovani si divertivano ad arrampicare le pareti di roccia che costeggiano il percorso più esterno del luogo. Ivan mi indica le vie che avevano tracciato immaginariamente ai tempi, ovviamente nella roccia non ci sono infissi o segnalazioni, si arrampica in libera e le prese te le devi cercare da solo, ma con me c’è l’enciclopedia vivente della Valle di Mello, delle vie delle Alpi, dei massi erratici, delle pareti dei parchi di Milano quindi sono a posto!
Nel giro di poco ripeto tutte le vie e parto col traverso finale, che meraviglia. Riprendiamo a camminare e mi ritrovo a gustarmi una Milano incredibilmente bella ed attraente fatta di antichi palazzi, monumenti storici e rocce che mai mi sarei aspettato di trovare qui.
Ivan mi invita a salire a casa e Monica mi accoglie con un ottimo caffè mentre stupiti mi osservano fare amicizia col felino di casa, bellissimo! Ci dividiamo cordini, moschettoni e friends per le prossime esplorazioni e riprendo la strada che dalla città mi riporterà ai piedi dell’amato Triangolo Lariano.
Che tedio questo scritto, tutta questa menata per raccontare una giornata in città? Non è stata una semplice giornata in città, anche perché tenendo conto solo dei tiri sulle paretine del parco, abbiamo comunque calcolato più di un centinaio di metri di arrampicata verticale, senza tenere conto dei chilometri percorsi a piedi tagliando la città dagli estremi, le ore al monte facendo esercizi agli attrezzi, le camminate scendendo e salendo dai pendii fuori sentiero.
Insomma, una giornata alpinistica vissuta lontano dalla Montagna nella sua antitesi per eccellenza: la città. Una cosa strana e meravigliosa. Respirare quel senso di glorioso passato che certe costruzioni e monumenti emanano, osservare con sana curiosità la città e rimanerne affascinato quasi come un panorama naturale. Questa è la vera avventura, qui si nasconde la vera esplorazione.
Ora avrò dei luoghi magnifici in cui tornare quando il meteo non permetterà di andare in quota, sicuramente guarderò con occhi diversi anche questa strana città dai mille volti e dalle infinite sfaccettature. Ho imparato molto da questa esperienza, sopratutto perché come guida ho avuto due persone magnifiche come Ivan e Monica che sono preziosi custodi di un’etica di rispetto, di un modo di vivere e di esplorare la natura verticale e non solo, che purtroppo si sta perdendo come la memoria storica, nel mio piccolo farò in modo che si possano ricordare ancora per un poco queste cose preziose, anche solo scrivendo qualcosa o parlandone, in questi tempi bui c’è ancor più bisogno di questi valori… Non si smette mai di imparare, quando la parola d’ordine è esplorare. Però, questa mi è venuta bene, non male come citazione!
Alla prossima!
Bene… ci sono novità. Ad Agosto ho tracciato due roboanti linee di salita sul versante Orientale del Moregallo. Durante la seconda, superate le insidie dell’ interminabile zoccolo, stava per investirci il temporale. Non era la prima volta che rischiavamo di vedercela brutta ma, nella mia testa, si è formato un pensiero strano: “Se esci di qui, Birillo, questa volta devi darti una calmata: devi dedicarti di più a Bruna ed alla tua famiglia”. La grandine, grazie al cielo, non ha attraversato il lago e siamo riusciti ad uscire indenni sulla cima, in un tramonto sereno dopo oltre 600 metri di via esplorativa.
Il giorno dopo, tuttavia, ero di nuovo a fantasticare osservando la parete, sperando che gli “Dei delle Montagne” non ne avessero troppo a male se fossi venuto meno al mio proposito. Perchè in fondo gli alpinisti sono come marinai, le loro preghiere nella tempesta, così come le loro promesse in porto, vanno prese con cautela e grande pazienza.
Ma il destino è un regista beffardo: Bruna in quei giorni si sentiva debole, fiacca, così ha fatto gli esami del sangue pensando di essere anemica. Gli esami, tuttavia, hanno mostrato qualcosa di diverso. Bruna era incredula mentre io, in fondo in fondo, forse l’avevo capito da un po’. Test di gravidanza: positivo.
Ma un test è qualcosa di empirico …così come lo sono nausea, ingrossamento del seno, appetito, narcolessia, raffreddore (rinite gravidica), ecc, ecc… Niente poteva convincere Bruna che, davvero, era incinta: doveva essere sicura, doveva vedere. Così oggi, accompagnandola all’ospedale, ho assistito alla mia prima visita ginecologia …e confesso che aver affrontato rischi e pericoli in quattro continenti non ti prepara ad una cosa simile!
Mi sono ritrovato in una stanza dalla luce soffusa, con una dottoressa piuttosto carina nel suo camice bianco che armeggiava con mia moglie, mezza nuda, utilizzando uno strano strumento fallico mentre insieme guardavano un video. Una scena che, in un contesto differente, avrebbe avuto su di me bel altro effetto, ma in quel frangente, immobile con lo sguardo perso, ero assolutamente agghiacciato ed impietrito. “Si sente bene?” Mi ha chiesto la dottoressa osservandomi perplessa. Io, che manco più sapevo dove guardare, dentro di me ho pensato: “Certo che se svengo alla prima ecografia, al parto non sopravvivo!”
Nonostante l’assoluta incapacità maschile di trovare un ruolo sensato in tutta questa faccenda, sul piccolo schermo c’era “qualcosa”. La dottoressa sorride e proclama serena: “Ospite: uno”. Poi lo misura ed il responso è chiaro: “8 + 5: data di nascita prevista 21 Aprile 2018”. Poi indica una sfarfallio, un tremore ritmico in quell’immagine strana e a tratti incomprensibile: “Quello è il battito. Il suo cuore che batte”.
No, davvero, puoi aver affrontato uomini, bestie e montagne ma non sei preparato ad una cosa simile. Non è una questione logistica o strategica, semplicemente non sei preparato, non potevi nemmeno immaginarlo… però capisci subito che tocca darsi una sveglia, e in fretta, perchè se in questa faccenda un maschio è una “recluta” inesperta, le donne sembrano veterani dei marines che procedono a passo di marcia mentre tu inciampi negli scarponi!
Quindi bene: c’è qualcosa di nuovo e, in modo per me ancora misterioso, vive. L’avventura apparentemente più “normale” e “comune” rischia di diventare tra le più incredibili ed emozionanti.
Detto questo posso solo aggiungere un’ultima cosa. Tra due giorni, il 16 Settembre, è il compleanno di Bruna: quindi tanti auguri Mamma Bruna!