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Aspettando la Sgrignettata

Aspettando la Sgrignettata

Nella calura di Agosto si sono aperte nuove vie, compiute nuove esplorazioni e si è dato vita anche ad un nuovo inaspettato “progetto” ancora segreto. Ora, che è giunta finalmente la frescura di Settembre, è tempo di riprendere il viaggio del PitOnTour. Prima tappa dopo l’estate: la Sgrignettata!

La Sgrignettata nasce da un‘idea di Giovanni Viganò, “anima e curoe” dello Sherpa Mountain Shop di Ronco Briantino. Una tre giorni al Pian dei Resinelli per incontrare produttori di materiale alpinistico, guide alpine, appassionati ed alpinisti di rilievo. Venerdì 15 Lecco, Sabato 16 e Domenica 17 Piani dei Resinelli.

L’evento di apertura si terrà a Lecco, nella sala cinematografica del Politecnico, con una serata/incontro con Tom Ballard. Classe 1988, nato in Inghilterra, Tom è uno dei pochi Alpinisti che guardo con grande ammirazione ed una punta di invidia.

Tom è fortissimo: mi piace quello che fa, mi piace il modo in cui lo fa e non posso che fare il tifo per questo “ragazzone biondo” che, in solitaria, ha salito tutte le grandi Nord delle Alpi in un unico inverno. “Starlight and Storm” un progetto che prevedeva di salire le sei grandi pareti nord delle Alpi in solitaria invernale in un’unica stagione: Cima Grande di Lavaredo, Pizzo Badile, Cervino, Grandes Jorasses, Petit Dru e l’Eiger.

Tom Ballard
Venerdì 15 Settembre ore 21:00. Ingresso Libero.
Aula Magna Politecnico Lecco, via Gaetano Peviati 1/C.

Sabato la Sgrignetta si sposta per due giorni ai Resinelli. Qui vi saranno gli stand delle aziende promotrici ed il punto di coordinamento per le numerose attività previste. Test dei Materiali, escursioni con le Guide Alpine, esercitazioni di TreeClimbing, pratiche Yoga e giochi per tutte le età.

Sabato, alle 21:00, una serata di alpinismo al Femminile con Annalisa Fioretti ed Eleonora Delnevo presso la Baita di Laura, rifugio Casimiro Ferrari, ai Piani dei Resinelli, via Carlanta 4. Io ho già avuto occasione di incontrarle e le loro storie, i loro viaggi e le loro sfide, meritano davvero di essere ascoltate e condivise.

Ci si vede alla Sgrignettata!

Davide “Birillo” Valsecchi

Per Info: http://www.sgrignettata.it

Giuseppe Verderio

Giuseppe Verderio

La sera del 27 dicembre 1968 la passiamo al Rifugio Medale in compagnia del buon Zaccheo. Fuori fa un freddo boia. Un ultimo bicchiere e poi si va a dormire nella tendina che abbiamo piantato a poca distanza dall’attacco della Cassin. Anche il giorno dopo il freddo è carogna – e il Beppe pagherà caro l’essersi dimenticato di mettere l’antigelo nel radiatore della sua Seicento! In parete, non molto lontano da noi c’è baraonda: Tiziano Nardella e soci stanno finendo la Taveggia. Ma in quanti sono? Da quanto urlano, si direbbero una metà di mille. Anche noi oggi siamo qui per assaggiare una via nuova. Attacco per la Cassin. Alla sua prima sosta prendo a destra e salgo tre tiri gnecchi fin sotto gli strapiombi. Tutto in libera: giusto un paio di chiodi di sicurezza e quelli per le doppie. Per oggi ci basta, la via ci pare possibile. Ritorneremo in primavera, quando il caldo avrà sciolto i ghiaccioli che penzolano sopra le nostre teste. Il 2 marzo del 1969 ritorniamo sulla Cassin alla Medale per fotografare di profilo la “nostra” futura via. Il Beppe assicura la new-entry, Diego Pellacini, io salgo in libera fino al primo diedro. Qui mi unisco alla loro corda e portiamo a termine l’ascensione. La Cassin non sbuca in vetta, ma esce sulla destra seguendo una cengetta, prima della quale ci si slega. Parto io, mi segue Diego, chiude il Beppe. Subito sento un rumore sordo, una botta attutita. Mi giro: siamo in due, il Beppe non c’é. Scendiamo a rompicollo. Dico a Diego di andare da Zaccheo per dare l’allarme mentre io perlustro il ghiaione al piede della Medale. Lo trovo quasi subito. Giuseppe Verderio, classe 1944, da allora riposa nel cimitero di Vimercate.

Bruna è sdraiata al sole sul terrazzo, si sente “strana” in questi giorni. Così, per lasciarla tranquilla, il week-end lo passo oziando a casa con lei invece che a zonzo per l’Isola. Tuttavia, quando apro la posta elettronica, resto sorpreso: inaspettatamente è come se fosse l’Isola stessa a scrivermi.

Giancarlo Mauri, grazie a Pietro Corti, ha da poco scoperto l’esistenza di questo piccolo blog ed ha deciso di scrivermi. Quel poco che so’ di lui l’ho letto sul libro L’Isola Senza Nome, dai suoi racconti sulle pareti dei Corni di Canzo. Racconti che fanno parte ormai del folklore e delle leggende che permeano le nostre montagne. Racconti che devono accompagnare le nuove generazioni nei loro gesti sul calcare liscio dei Corni, nel loro tramandare la tradizione dell’Isola. La “Via Elvezio”, la “Dell’Oro-Maggi”, la “Città di Cantù”, la “Via Pozzi” ed infine anche la “Giuseppe Verderio”, la linea verticale che affronta e rimonta la “Grande Onda” del Corno Orientale. Una via dedicata ad un amico scomparso, un ricordo nella roccia.

Giancarlo mi ha inviato un link ad un pdf, una nuova versione, arricchita di nuove immagini, del suo lungo ed intenso racconto “Arrampicare ai Corni di Canzo”. Il ricordo iniziale, qui riportato, è un passaggio di quel lungo racconto. Nella foto proprio Giuseppe Verderio, che come avrete ormai compreso, cadde il 2 Marzo del 1969. Leggendo il racconto di Giancarlo si scopre molto di più sul “Beppe”, sulla loro amicizia e sulle loro avventure.

“Arrampicare ai Corni di Canzo”, nella sua nuova edizione, è disponibile gratuitamente on line a questo indirizzo: Arrampicare ai Corni di Giancarlo Mauri (2014 riedizione academia.edu). Chi abbia arrampicato ai Corni di Canzo, o sia semplicemente affascinato da queste grandi e solitarie pareti, non potrà che rimanere coinvolto, rapito dalle nuove immagini quasi inedite che ora accompagnano questa storia.

Ancora una volta ringrazio Giancarlo per aver condiviso le sue avventure, a tratti dolorose, con noi. Avventure che hanno dato forma alle nostre fantasie, ai nostri sogni su quelle pareti. Avventure, grandiose e terribili, che hanno spalancato le porte di un mondo nuovo, di una visione delle nostre montagne tanto antica quanto moderna. Grazie: fino a quando questo spirito animerà gli arrampicatori dell’Isola il ricordo di Beppe non andrà perduto.

Davide “Birillo” Valsecchi

Giancarlo Mauri attraverso la grande “Onda” del Corno Orientale

Moregallo: Via Buontempo

Moregallo: Via Buontempo

“The climb is going where no man has gone before” Questa frase, pronunciata dal leggendario Capitano Kirk interpretato dallo storico William Shatner, mi ronzava nella testa sotto forma di un buffo video musicale. “Andare là dove nessun uomo è mai stato prima”: questo era il motto di StarTrek, una scheggia d’infanzia davanti alla televisione aspettando l’ora di cena. Forse anche per questo il Moregallo, con i suoi grandi spazi ancora sconosciuti, è per me la grande frontiera, il confine oltre cui spingersi.

Da anni, con una birra in mano al Rapanui, sognavo ad occhi aperti osservando la grande parete Nord e il suo “zoccolo” verde: una muraglia verticale di roccia infida ed erba, un dedalo, un rebus da risolvere. Solo la via “Gioventù 77” si era avvicinata zoccolo rimontando però sullo spigolo della parete Nord. Io invece volevo arrivare lassù, sopra lo zoccolo dove si innalza la seconda grande parete Nord, dove la montagna sembra prendere respiro arrestando il proprio impeto in un piccolo pianoro verde.

Quella roccia fragile, spazzata dall’acqua ed immersa nella vegetazione, aveva tenuto lontano tutti, anche i “grandi” che hanno conquistato la Nord. Serviva scaltrezza e metodo per fare ciò che nessuno ha mai (ragionevolmente) fatto. Per questo la mia mente vagava in quel mondo verticale che ho catturato in mille foto, in mille diverse inquadrature.

Il grande zoccolo è attraversato da due evidenti canali che lo attraversano in obliquo raccogliendo l’acqua che precipita dall’alto. Il primo, quello più basso, scende quasi tutta la lunghezza dello zoccolo. Il secondo, il più alto, lo attraversa più di taglio, quasi nascosto osservandolo dalla base, e precipita verticale in un salto ciclopico quando tocca i margini della grande parete Nord. Bal basso quel canale sembrava irraggiungibile, protetto da un’invincibile cascata strapiombante al cui centro una nera cavità osserva minacciosa, il grande occhio.

Ma io sono un pessimo arrampicatore e questo ha reso la mia mente allenata alle soluzioni alternative. Spingendomi alla base del grande canale avevo scoperto il “Trucco” con cui tentare di ingannare il gigante. Alla base della cascata una rampa erbosa si innalza su uno sperone di roccia, qui una spaccatura, una piccola e bassa grotta taglia la parete raggiungendo la rampa erbosa che obliqua risale fino alla sommità della cascata. Una mossa a cavatappi dal sapore speleo per raggiungere il grande canale. Ero già stato in quel punto, avevo tentato il passo verso la rampa in solitaria ma mi ero arreso davanti all’evidenza. Quello è un viaggio senza ritorno, superata la grotta si può solo uscire seicento metri più in alto, quando finisce la montagna: niente che potessi affrontare da solo.

I sogni sembravano coprirsi di polvere finché Mattia non se ne esce con una cosa delle sue  “Facciamo la via dei Panda?”, un’altra storica ed irripetuta via del Moregallo oltre “il grande buio” nel cuore della Nord. “Naaa… se dobbiamo metterci nei guai scegliamo noi la nostra strada, andiamo dove nessuno è mai stato prima!”.

Durante la notte un violento temporale aveva investito il lago e le sue montagne. Fulmini, vento, ed acqua a secchiate: la mattina, seduto su un muretto aspettando Mattia, osservavo sconsolato le grande pozzanghere sull’asfalto. “Oggi non è giornata”. Mattia, binocolo alla mano, invece se la ride:  “Ma no, vedrai che asciuga”. Sappiamo entrambi che non è vero, ma ora non c’è modo di arrestare ciò che ho messo in moto.

Due corde da 60, vasto assortimento di friend, fettucce e cordini in abbondanza, quindici chiodi, compresi i chiodoni ad u ormai fuori produzione. Completano l’equipaggiamento due fittoni da 40 cm realizzati con i pioli di una scala in alluminio e due picozze da ghiaccio, qualora l’arma bianca si riveli l’ultima possibilità nel corpo a corpo contro i prati verticali.    

“Fai le cose difficili quando sono facili, e inizia le grandi cose quando sono piccole. Un viaggio di mille miglia deve iniziare con un singolo passo. (Lao Tzu)” Risaliamo la piccola rampa erbosa e, legati, ci sdraiamo strisciando nella stretta grotta raggiungendo la base della rampa erbosa. Il viaggio ha inizio. Due tiri da 30 e siamo in cima al canale e, con un passo piuttosto ardito, ci infiliamo al suo interno dove una grossa clessidra sembra accoglierci come solida sosta.

Ma il canale non è pronto a concedersi: grandi cascate sbarrano la strada costringendoci ad aggirarle sui lati quando affrontarle frontalmente non è possibile. Il nostro viaggio è scandito dal suono del martello sui chiodi, chiodi buoni su cui però non cadere, chiodi che quando non escono a mano cedono con qualche martellata. Indietro non si torna, l’unica possibilità è verso l’alto, attraverso l’erba, le cascate, le placche compatte e bagnate, la roccia marcia. Indietro non si torna.

L’esplorazione diventa un viaggio totale, un’immersione completa. Mi sforzo di scattare qualche foto, di documentare, ma fatico a contare i tiri, tutto quello che importa è salire, superare il tiro, scoprire quello successivo, lavorare bene, lavorare in fretta, non sbagliare. Mattia, come un trattore guida la nostra cordata, mentre io, immobile nelle silenziose angosce del secondo, manovro le corde studiando la situazione.

Verso mezzo giorno ci sediamo a mangiare un po’ di frutta secca. Sono ormai tre ore che affrontiamo il canale ma ancora non cede, prima o poi dovrebbe abbattersi, perdere inclinazione, ma i tiri si fanno sempre più impegnativi ed intensi. Ogni mia previsione è sovvertita e distorta: il Moregallo è la montagna dei grandi inganni, dove le prospettive vengono puntualmente imbrogliate. Con un avversario tanto temibile nessuno stratega può spuntarla senza uno slancio di coraggio. Come disse qualcuno “Il Moregallo non ti regala niente”.

Ripartiamo, un tiro alla volta, mentre la nostra determinazione assume le sfumature della rassegnazione sfiorando l’autoironia. Su un traverso, dove la roccia è il trionfo dell’inconsistenza,  Mattia si diverte a sfottermi: “Devi fonderti con il marcio! ..stai li che ti faccio una foto!”. Ho i piedi su dei detriti e le mie prese ballano verso l’alto, se piombo faccio cinque metri di pendolo nel canale, eppure riesce a rubarmi un sorriso anche nel momento di massima concentrazione.

Il tiro successivo è un’altra rogna, poi qualcosa cambia. Il canale sembra abbattersi e la corda scorre veloce per sessanta metri prima di chiamare la sosta. Forse si esce, forse il canale è finito! Ma quando arrivo alla sosta, quasi camminando, mi trovo davanti il nuovo ostacolo: una grande cascata che sembra chiudere la testa del canale. Mattia parte, pianta una fila di chiodi, nessuno su cui sia possibile azzerare, si gira, si torce in opposizione, aggrappato come può e finalmente supera la cascata. Quando lo raggiungo in sosta sono le quattro e mezza, siamo stati nel canale quasi sette ore e mezza ma ora sembra sembra concluso e lo scenario attorno a noi cambia radicalmente.

Siamo alla “Piazza grande”, ci aggiriamo quasi spaesati nel centro del mondo ignoto, nel punto in cui tutte le linee si uniscono. Sopra di noi svetta la grande parete nascosta: spaventosa e bellissima è un susseguirsi di tetti strapiombanti e fessure oblique. Quella parete è il futuro dell’Isola Senza Nome: la progenie dell’Isola, i testimoni della tradizione, un giorno verranno qui e scriveranno nuove e meravigliose storie  …e dovranno essere davvero fortissimi per farlo!

 Ci sediamo a mangiare quello che è rimasto nel sacco razionando l’acqua a disposizione. Poi alle mie spalle un boato distante. Nella mia mente una domanda senza senso “Il sabato sparano le mine nella cava di Lecco?”. Ma la risposta è davanti ai miei occhi: le Grigne sono coperte di nero e lampeggiano di fulmini. Chiusi nel canale non avevamo visto il cambiamento del tempo. Osservo quella massa nera che brilla di viola quasi sconsolato. Il nostro piano non cambia, possiamo solo sperare di uscire verso l’alto ed ora dobbiamo farlo prima che quell’inferno ci si schianti addosso.

Abbiamo davanti a noi solo due soluzioni. La terza, quella più ambiziosa ed esplorativa, va purtroppo scartata a priori. Possiamo puntare sul canale di destra cercando di intercettare l’uscita delle vie sulla Parete Nord oppure puntare sul canale di sinistra e cercare di guadagnare l’uscita. Non esistono informazioni sul canale di sinistra, tutto quello che sappiamo sono le foto scattate dall’alto la scorsa estate con mio fratello e quelle fatte la scorsa settimana dal battello. Forse si passa, ma di sicuro c’è un grande salto prima della valle erbosa. Puntiamo a sinistra con la possibilità di rimontare la cresta centrale qualora servisse un “Piano B”.

I tuoni si fanno sempre più forti ma nel canale, sotto i grandi tetti della Parete Nascosta, non abbiamo idea se abbia già iniziato a piovere. Dobbiamo muoverci in fretta, ma non sbagliare. Spingere e trattenere: il temporale all’orizzonte batte il suo ritmo come un tamburo ma noi dobbiamo tenere il nostro.

Il primo tiro nel canale è poco incoraggiante. Ciò che sembrava facile si dimostra difficile e ci fa tribolare, ci ruba tempo. Poi la situazione cambia, il canale si allarga, compare qualche pianta e salvo qualche salto roccioso superiamo due tiri da sessanta quasi camminando.   Poi il canale reclama e si oppone con una piccola cascata fatta di lame oblique che rimontiamo con un friend e un chiodo “simbolista”. Forse ce la si fa, il temporale incalza ma la montagna sembra finire. Se riusciamo a raggiungere il bosco in cima possiamo giocare a carte con Noè sotto la pioggia, ma dobbiamo uscire.

Due grandi grotte segnano il nostro cammino prima che questo si infranga contro l’ultima colossale muraglia: il muro dei sogni rubati. Il canale è bloccato da una cascata di roccia inchiodabile e coperta di melma. Proviamo un attacco frontale ma appare subito disumana.

A sinistra la grande parete nascosta mentre a destra roccia fragile che rimonta la cresta centrale. “Piantiamo tutti i chiodi che abbiamo, ma dobbiamo rimontare quello schifo sulla destra”. Attraversiamo il canale mentre il temporale ringhia minaccioso. Mattia si alza, pianta un chiodo il cui suono è una promessa, poi si alza e gira lo spigolo: “No! Non è così male come sembra, si passa bene di qui!!” La corda inizia a scorrere, Mattia si muove veloce. “Trenta!” urlo quando passa il segno della mezza corda. “Dieci!”. “Cinque!”. La corda scarseggia tra le mie mani. “Mi servono cinque metri per raggiungere una pianta!” Mi urla Mattia dell’alto. I tuoni ridono di noi, smonto la mia sosta e parto verso il primo chiodo. “Vengo!”. Sono scocciato, quasi arrabbiato, niente e nessuno dovrebbe provare a fermarmi quando sono in quello stato mentale. Raggiungo il chiodo e mi alzo finchè ancora mi è ancora possibile schiodarlo. “Sono alla pianta! Stai fermo che faccio sosta!” mi urla Mattia. Lascio che si leghi e riparto, ha bisogno di altra corda per mettermi in sicura. ”Okay, ora sei dentro! Vieni!” Il tiro scorre veloce tra roccia ed erba, altri sessanti metri che ci portano finalmente tra le grandi piante. Il temporale si è spostato verso sud, non ha attraversato il lago, non ci ha preso.

Siamo fuori, tra le piante, le Grigne sono limpide ed un tramonto rosso illumina il Lario e la punta di Bellagio. La “pace” è una gioia che scoppia all’improvviso. Siamo fuori: abbiamo attraversato la frontiera e fatto ritorno. 

Ci stringiamo la mano riempiendoci di pacche prima di crollare seduti sull’erba. Lui chiama Serena, io Bruna: è tempo di rassicurarle. “Siamo fuori, tutto bene”. Bruna ride, mi racconta che a Varenna è da poco finita una terribile grandinata. Quando lo racconto a Mattia restiamo un attimo in silenzio osservando il lago: “Varenna è là davanti…”.

Poi Mattia si fa avanti. “Hai già un nome? Io ne ho pensato uno poco fa.” “Spara!” “C’è la Parete del Tempo Perduto, la via del Tempo Rubato, la via Tempo al Tempo. Potremmo mantenere la tradizione e chiamarla via ‘Buontempo’, tutto attaccato: sia per celebrare il brutto tempo sfiorato che per rimarcare il ‘buontempo’ che devi avere per una ravanata simile!” “Mi piace! Approvata!”.

La via esplorativa “Buontempo” si innalza per oltre seicento metri, con uno sviluppo a zig-zag piuttosto difficile da valutare. Non sono in grado di ricordare il numero esatto di tiri, credo siano attorno ai quindici: la maggior parte sui trenta/quaranta metri ma tre o quattro anche sul sessanta pieno. Abbiamo impiegato poco più di dieci ore dall’attacco all’uscita. Il grado massimo, con la dovuta furbizia, è un V+ …ma nella gradazione dei Corni di Canzo con l’aggiunta di un tocco speleo. Nessun chiodo è stato lasciato in via. La roccia è terribile, l’erba spaventosa, l’esposizione agghiacciante appena metti il naso fuori dal canale. No, non abbiamo mai usato le picozza ma, con quello che l’ho pagata, era un piacere sentirsela addosso. Il triangolo nelle foto indica il punto denominato “Piazza Grande”.

Mattia si conferma uno straordinario chiodatore, un caparbio lottatore capace di mantenere il sangue freddo nelle difficoltà. Uno dei migliori con cui abbia mai arrampicato, uno dei più “solidi”, probabilmente l’unico con cui affrontare una “ravanta” tanto incerta e scomoda quando la tempesta incalza. Negli annali dell’Isola Senza Nome la nostra cordata non sarà ricordata come la più forte, nè la più furba o saggia, ma per certo come una delle più coriacee e selvagge che abbiano attraversato con coraggio i territori dell’Isola. Grazie per essere stato mio compagno in questa nostra ennesima avventura.

Davide “Birillo” Valsecchi 

Sono Pazzi Questi Tassi

Sono Pazzi Questi Tassi

Il tasso è un animale strano: ha un’indole spesso solitaria ma, al contempo, crea attorno a sé una solida struttura sociale, una vera e propria famiglia o “clan”. Ne sono una prova le tane, i rifugi ed il complesso sistema di gallerie che la “tribù” costruisce nel proprio territorio. Forse è proprio per questo concetto di “famiglia” che i Tassi del Moregallo ogni tanto si radunano e danno vita a colossali mangiate (e bevute!).

L’altra sera eravamo a casa di Gaetano per la TassoConsulta, la grigliata d’estate! Mentre ingollavo birra osservando le salamelle sulla griglia, ascoltavo la curiosa storia che mi stava raccontando Luca. Io e lui ci conosciamo ormai da oltre quindici anni, quando vivevo a Milano siamo stati allievi dello stesso maestro, un amicizia che è sopravvissuta alle insidie del tempo e che lo ha portato ad essere un membro della sconclusionata “squadra” che oggi sono i Tassi.

Luca mi ha sempre stupito perchè quasi mai ha il “Physique du role” per gli strani guai in cui spesso va ad infilarsi: ogni tanto, guardandolo, mi domando ancora come abbia fatto a sopravvivere tanti anni in Africa facendo rilievi forestali in mezzo al nulla. Tuttavia il suo attuale racconto non faceva che aumentare le mie perplessità. “Volevo fare un giretto semplice e così ho pensato di fare la Direttissima dai Resinelli al Rosalba” E fin qui nulla di particolare. “Non l’avevo mai fatta e così mi sono portato dietro l’imbrago ed il set da ferrata”. Forse un po’ eccessivo ma prudente. “Ho fatto la scaletta e sono arrivato davanti ad un segnale di divieto d’accesso” Un classico: quel buffo cartello stradale, appeso tra due guglie di roccia, indica il punto in cui il vecchio sentiero è franato invitando a seguire la traccia che scende ed aggira il torrione. “E cosa hai fatto, sei sceso o sei passato sul vecchio sentiero?” Gli domando quasi distratto “No, non sapevo bene dove andare, però sopra c’era un canale che sembrava fattibile ed allora ho cominciato a salire..” Strabuzzo gli occhi “Cosa?! Ti sei infilato nel canale?!” “Sì, all’inizio era facile, ma poi è diventato sempre più ripido ed isolato. In effetti ad un certo punto ero piuttosto preoccupato perchè se trovavo una parete sarei stato davvero nei guai a tornare indietro”. Quasi sbotto “Ma perchè?! Perchè ti sei infilato in un stracazzo di canale sperduto della Grignetta?! Non potevi tornare indietro e cercare dove proseguiva il sentiero?!” Obbietto con fare paternale!

Al mio fianco TeoBrex scoppia ridere aggrappandosi alla birra “Perchè? Proprio tu gli chiedi perchè?!?! Lo sai benissimo perchè: sei tu il primo che non segue mai un sentiero!” Teo ride di gusto senza più trattenersi ed io, che sarei tentato di fare un cazziatone a Luca, mi trovo curiosamente dall’altra parte della barricata. “Ma quindi che hai fatto?! Come era sto canale!?!” “Bhe, c’erano dei salti di roccia e dei passaggi sull’erba. Fortunatamente dopo un‘ora e mezza sono riuscito a raggiungere il sentiero, credo si chiami Cecilia, poco prima che si congiungesse alla Cermenati”. Ero allibito: Luca, con simpatica scelleratezza, si era infilato in una ravanata colossale dagli esiti preoccupantemente incerti. Teo al mio fianco sghignazzava divertito ormai rosso in faccia “Dai, prova a dirgli qualcosa. Digli che sono cose che non si fanno. Forza, sentiamo un po’…” Nella mia testa faccio i conti con la geografia di quello strano viaggio che deve aver messo insieme Luca. Poi immagino la faccia di quelli del soccorso se avessero dovuto andare a cercarlo per quei canali: sai le matte risate trovandolo disperso in un canale con l’imbrago, il set da ferrata per poi concludere presentandosi come “un amico del Birillo”!! Così tiro un fiato di birra prima di parlare come Zarathustra. “Vabbè, visto che di cognome fai Pennaccino questa stramberia la chiamiamo ‘Occhio alla Penna’. Ma, te lo garantisco, andrò a vedere in che pasticcio ti sei andato a cacciare: la prima ripetizione sarà mia. La prossima volta però non farlo più, non senza organizzarti un po’ meglio!” Teo, che mi guardava silenzioso, si tratteneva a stento dallo sghignazzare e sembrava pronto a scoppiare. Scuotendo la testa abbiamo brindato solennemente alla curiosa impresa di Luca, una stramberia fin troppo simile alle mie. “Hurrà!!”

Così, una birra dopo l’altra, iniziamo a discutere delle ossa di tasso che sempre più spesso ritrovo nelle mie esplorazioni. “Hai visto che sberla di denti il Tasso? Il cranio mostra come, contrariamente a quanto si creda, non è affatto piccolo” “Piccolo? E’ grosso come un accidenti di cane! Ne ho incontrato uno tempo fa! Ero appena uscito dalla grotta e scendavamo dal Tivano quando ce lo siamo trovato davanti in mezzo alla strada. Era grosso e non è mica scappato! Ci ha guardato e con quelle sue zampette corte se ne è andato via indifferente.” “Badger don’t care!” “Comunque riesci a vederli solo di notte, di giorno se ne stanno rintanati”

Poi, più o meno sulla grappa, salta fuori un’altra stramberia. “Ma hai dato la toppa a qualcuno di recente?” “Bhe,  ho regalato qualche adesivo, ne ho fatto autografare uno a ‘Teo e le Veline Grasse’” “No, intendo se lo hai dato a qualche nuovo membro?” “Nope. Salvo i presenti non ho arruolato nessuno di recente… perchè?” “Perchè ho trovato un furgone che aveva l’adesivo l’altro giorno” “E vabbè, può essere… aveva qualche altro adesivo, quello degli Asen o di qualche altro gruppo?” “No, no …solo il nostro. C’era solo il tasso ed era chiaramente un’insegna del gruppo. Ma nessuno di noi ha un furgone scuro che io sappia.” “O bella… e chi può essere tanto stramboide da farsi vanto di appartenere ai Tassi senza essere qui con noi a bere?”

Quindi, caro amico tasso con un Doblò scuro, fatti avanti che la prossima TassoConsulta si beve tutti insieme! Ciao!

Davide “Birillo” Valsecchi

Costanza Senza Gloria

Costanza Senza Gloria

Il mare impetuoso al tramonto salì sulla luna e dietro una tendina di stelle… Dopo la seconda birra media le parole di Zucchero Fornaciari riemergono dalla memoria senza un vero perchè. All’improvviso sono di nuovo un ragazzino sul campo di pattinaggio di un paesello di montagna mentre echeggia un sottofondo di musica anni ottanta. Ho i pattini ai piedi e faccio a cazzotti con i ragazzi più grandi tutte le sere: vado lungo disteso sul ghiaccio, ma ogni volta mi rialzo e riparto alla carica a testa bassa. Per loro è un gioco, e se la ridono, per me è una guerra da combattere con il sorriso sulle labbra sanguinanti. «Sai Bruna, credo di avere qualche strana malattia: la mattina le gambe sono rigide, bloccate, quasi non riesco a muoverle…» Lei mi guarda attraverso il boccale «No, la tua malattia si chiama semplicemente “età”» Matrimonio con una bergamasca: non è facile come dirlo…

Il mio sabato mattina era cominciato alle sei. «Mattia, andiamo a fare una vietta “plasir”: roccia buona e quarto grado. Godiamocela un poco con qualcosa di piacevole…» Immaginavo qualcosa di luminoso, appigliato, tipo una Crestina Osa in trasferta sul Pilone Centrale della Grignetta. «Tranquillo! Ce l’ho io la via giusta! Storia e divertimento!» Qualcosa però non deve essere andato per il verso giusto visto che, mezzo addormentato, mi sono ritrovato in viaggio per il Torrione Costanza e la via del Littorio.

Riccardo Cassin – nel libro “Capocordata”- racconta: “Finora questa parete non è mai stata scalata. Vi fu la scorsa primavera un tentativo di Comici con Mary Varale e Augusto Corti, troncato sull’inizio da un banale incidente: uscì un chiodo e Comici fece un volo. Da allora la Varale accarezza l’idea di portare a termine l’impresa e più volte me ne ha parlato. Boga ed io, da parte nostra, siamo ben lieti di unirci a lei. Alla parete nord dell’Angelina capocordata fu Boga: stavolta tocca a me. Giunti ai piedi della torre, pieghiamo a destra nel canale che ci porta sotto la parete est e saliamo per rocce facili alternate da liste verdi e pianerottoli erbosi fino alla placca che da un lato è saldata alla torre, dall’altro forma un camino che si contiene fra il terzo e il quarto grado. Lo rimontiamo legati con doppia corda per tutta la sua lunghezza. La roccia è fredda, le cortine nebbiose si vanno chiudendo, ma la ginnastica sostenuta ben presto ci infonde calore. Più tardi quando le difficoltà vere e proprie cominceranno, avrò modo di sudare. Gli ostacoli iniziano infatti da questo pulpito in su, con una di quelle fessure strapiombanti che servono per i polpastrelli e i chiodi e nelle quali raramente i piedi entrano. Sono crepe non continuative ma alternate, che costituiscono, come già ho detto, una delle caratteristiche della Grignetta. Lungo questa fessura, Comici si era alzato sei o sette metri; trovo dei chiodi e la Varale – che ferma sul ballatoio insieme a Boga fa sicurezza – conferma che sono quelli del loro tentativo. Quei chiodi mi sono d’aiuto: con molta fatica ne piazzo altri. Ero convinto che dopo questo scabroso passaggio il terreno si facesse più mite, ma mi accorgo d’essere un inguaribile ottimista poiché quanto segue è ancora di sesto grado. Poi grandi difficoltà non ne restano e per piacevoli rocce tocchiamo la vetta. C’è vento a sdrucire la nebbia e la signora Varale, con la sua espansività, ci premia dandoci un bacio. Quando c’è una rappresentante del gentil sesso, compiuta un’ascensione si usa così: ed è un rito al quale teniamo in modo particolare.”.L’avvicinamento è la parte più divertente della salita, davvero! Dal sentiero delle Foppe ci infiliamo su per un canale dal sapore alpino rimontando i salti rocciosi. «Vedi, non volevi il quarto grado?» Mi sfotte Mattia. Mentre risaliamo chiacchierando come due vecchie betoniche attempate ci raggiungono Giovanni Giarletta e Luca Danieli: si fermano a scambiare due chiacchiere ma sono belli carichi, puntano alla via dei Ragni sulla Mongolfiera. La via che li aspetta è bella tosta e così lasciamo che non si smariscano in chiacchiere con due perdi tempo come noi.

«Roccia buona?» Obbietto guardando l’attacco. Non è tanto per l’erba, quella non mi da fastidio, ma nella mia mente c’è ancora il luminoso calcare bianco del Canale del Nostromo al Moregallo. «Se Sabato avessi trovato sto schifo di roccia con il cavolo che salivo!!» Forse poi non è così male, ma la nebbia ha reso buio ed umido ogni cosa e quegli speroncini, smussati e poco rassicuranti, suonano in modo poco convincente per i miei 85kg.

Al primo tiro l’imprevisto: la sacchetta per la magnesite di Mattia, trovata alla base della Molteni-Valsecchi al Buco del Piombo e riconvertita a porta oggetti da imbrago, si stacca e piomba giù nel vuoto, sbatte contro il prato alla base della parete e si lancia nuovamente in un canale. Mattia erutta in una giagulatoria di madonne che, tradotte, mi informano come nel sacchetto tenesse il cellulare. Colgo l’opportunità: «Qui viene a piovere, è un segno! Recuperiamo quello che resta del tuo telefono ed andiamo a bere al coperto!» Mattia borbotta ma non desiste. «Visto che ho distrutto il cellulare fammi almeno fare la via!» Così facciamo il primo tiro, il secondo ed anche il terzo fin nel camino della grande lama incastrata.

«Roccia solida e quarto grado avevo chiesto… spiegami perchè devo mettere mano alla staffa?». Il Quarto tiro è infatti un leggendario passaggio di artificiale anni 30: VII+ oppure V+ con A1. Io volevo arrampicare distendendo braccia e gambe in fluidi movimenti atletici e mi trovo, ancora una volta, a ravanare appeso… “fortunatamente”, si fa per dire, qualcuno ha pensato bene di calpestare la “storia” piantando dei fittoni resinati in modo che anche una mezza-tacca svogliata come me possa emulare le gesta dei giganti in un giorno di nebbia qualsiasi…

Fifi e staffe saliamo in “spazzacà”. Il tiro successivo, invece, è tutt’altro che paglia. Le scarpette urlano vendetta soffocando gli alluci ormai insensibili mentre la roccia offre grandi appigli ma mai scontati. “Fortunatmente”, si fa per dire, siamo completamente circondati dalla nebbia che impedisce di vedere l’abisso sotto di noi. Per quanto riesco a vedere potrei essere sul più fiero e slanciato torrione della Grignetta quanto su uno sperone di roccia sul lato delle capre al Corno Ratt. Alle nostre spalle, oltre il bianco, giungono però le voci di Giovanni e Luca che finalmente hanno raggiunto la cresta della Mongolfiera ed iniziano la difficile discesa.

Superato il quinto tiro le difficoltà si abbassano e si raggiunge la cima dove un tempo si innalzava un grande fascio littorio. Con una “boldrinata ante-litteram” quel simbolo dell’era fascista è stato abbattuto, ed ora ne restano sono i ruderi del basamento. I simboli, buoni o cattivi che siano, hanno sempre un grande valore storico: solo quei pecorai dei “talebani” fanno a pezzi ciò che non condividono…

Anche se in realtà i fasci littori sul Costanza sono stati due. Il primo, issato il 5 luglio 1931 da Cassin, Varale e soci, fu abbattuto da anonimi quasi subito. Nel Novembre dello stesso anno fu quindi issato un nuovo littorio, decisamente più grande, che rimase al suo posto fino alla fine della guerra nel ’45. Peccato… mi sarebbe piaciuto vedere una stramberia simile lassù in cima. Se come simbolo non era accettabile anziché abbatterlo avrebbero potuto convertirlo, trasformarlo in un monito o in una nuova celebrazione. Ma che volete farci, hanno fittonato con il trapano una Cassin – Boga – Varale su tentativo originale di Comici: l’oblio e l’ignoranza forse sono una precisa scelta culturale…

Due calate, una da trenta ed una da quasi sessanta, e siamo nuovamente a terra, alla ricerca del cellulare perduto. Ci infiliamo giù per un canale e troviamo il disperso: un Samsung Galaxy Mini del 2011, anche io ne avevo uno uguale. Nonostante il volo rimontiamo i pezzi e proviamo a farlo suonare: nella nebbia una musichetta imbarazzante risuona tra i canali della Grignetta come il canto fiero della fenice rinata. «Bene, il cellulare è salvo: ora andiamo a bere, che qui si prende l’acqua!!» Scendiamo nuovamente il canale ed il sentiero delle foppe.

Giunti alla macchina troviamo sul tergicristallo una strano volantino stampato a computer che, con fare minaccioso, ci intima di parcheggiare altrove: “a buon intenditor…” chiude allusorio il messaggio. Un lavoro certosino svolto diligentemente su tutte le macchine della zona e compiuto, immagino io, da un agguerrito vecchio indigeno che, alfabettizzato digitalmente, difende il suo territorio ai piedi della Grignetta armato di carta stampata con toner rosa: “Tranquillo, vecchio sdentato. Passerà del tempo prima che i figli dell’Isola tornino da queste parti: hanno cose da fare in patria. Nel caso, comunque, conserveremo il volantino e ci faremo carico di attaccarcelo da soli alla partenza. A buon intenditor…”

Mentre infiliamo gli zaini nel bagagliaio arrivano anche Luca e Giovanni. Volano le strette di mano ed i complimenti: la loro salita meriterrebbe una storia a parte! (E speriamo che Giovanni ce la scriva!) Tutti insieme andiamo “al Forno” finalmente a bere, chiacchierando di roccia e stramberie.

La sera, quando il temporale si abbatte sulle montagne io e Bruna siamo al Rapanui: vista lago e spritz alla mano sotto lo sguardo attento del Moregallo che riaccoglie i suoi Tassi dalla trasferta sulla sponda opposta del lago. ”Lo dicevo io che arrivava la pioggia…”

Davide “Birillo” Valsecchi

Il fatto che 29 Luglio, data di nascita di Benito Mussolini, abbiamo ripetuto la via del Littorio è solo una delle strane coincidenze Karmatiche che vibrano attraverso l’universo. Io davvero non lo sapevo, l’ho scoperto solo dagli articoli di giornale il giorno dopo nel solito bisticcio con i nostalgici di entrambi gli schieramenti. Farlo apposta non si sarebbe riusciti… strano mondo alle volte!

Pace in tempo di Guerra

Pace in tempo di Guerra

La sveglia suona alle sei e mezza ma ci metto un’ora intera prima di uscire di casa. Bruna dorme, io mi faccio un caffè, una doccia e mi aggiro per il salotto dando un’occhiata ad Internet mentre coccolo i gatti. Cerco il giusto stato mentale, diversamente conviene me ne torni nel letto. Poi, finalmente, esco e lascio che ogni passo aggiusti e riassetti il mio corpo.

Quando arrivo a Passo400 soffia un vento forte da nord, supero il crinale a sbalzo sul lago e mi ritrovo davanti il regno selvaggio del Moregallo Orientale mentre il sole del mattino ne illumina le forme. Per un istante tentenno, mi siedo e scatto qualche foto mentre studio ancora il canale che intendo salire. Se mi fermo troppo a lungo il coraggio verrà meno: respiro, mi alzo e riparto.

Alla base del canale sono sovrastato dalle pareti ritorte e la mia unica possibilità verso l’alto è quella ruga nella montagna, scavata dall’acqua e dall’ignoto. Mi aspettavo un canale detritico a blocchi ma il primo rialzo è di roccia compatta, quasi placca: bene e male. L’attacco sembra parlare chiaro: qui si arrampica o non si passa. Supero il primo salto ed affronto il successivo. Nello zaino ho trenta metri di corda, la mia sola possibilità di fuga. Ad ogni salto di roccia mi guardo in giro cercando dove giocarmela con una doppia. Poi i salti rocciosi diventano quattro, cinque, sei: sempre più sostenuti, sempre più impossibili da affrontare in discesa.

“Con doppie da 15 diventa un inferno scendere da qui”. Rimonto il salto successivo ed ormai mi è chiaro che indietro non si torna più: ho mollato gli ormeggi, non resta che navigare nell’ignoto e trovare un’uscita. “Io ho fatto la mia scelta, ora tocca alla montagna non essere troppo cattiva”. La solitudine avvolge i miei pensieri mentre le mie percezioni si dilatano: la mia vita è ora nelle mie scelte. Sembra spaventoso ma è qualcosa di piacevole.

Il canale si abbatte un poco e la vegetazione ne approfitta per invaderlo. Senza la gravità a lavorare in verticale il fondo si riempie di detriti e sassi instabili. Sembra meno difficile, ma devo fare più attenzione. Mentre avanzo trovo qualcosa di inaspettato: un vaso di plastica per fiori! Sorrido e gli scatto una foto: sopra di me, sulla sinistra orografica c’è il Sasso Preguda e la sua chiesetta: quel vaso è finito di sotto spinto dal vento.

Proseguo ma il canale sembra chiudersi morendo in pareti verticali, quindi mi sposto sulla destra cercando di guadagnare il crinale che separa il mio canale da quello affianco. Raggiungo la cresta ed inizio a salire aggirando i grossi sassi di calcare e le piante che segnano il confine tra i due “vuoti”. L’esposizione è ragguardevole ma le difficoltà sono accettabili: ora tornare indietro è davvero impossibile. Seguo linee invisibili accarezzando la roccia, ma la vegetazione mi nasconde il resto della mia storia: non posso far altro che credere e dubitare.

La cresta obliqua ancora verso sinistra, verso il mio canale. Rientro nel fossato di roccia e faccio una nuova sorpresa: un teschio di tasso dai ragguardevoli denti. L’incontro in parte mi inquieta: un tasso morto, disperso in un canale sconosciuto, non è un bel presagio per il Nostromo dei Tassi del Moregallo. Mi fermo a studiarlo, scatto qualche foto. Mi sfiora l’idea di infilarlo nello zaino ma subito desisto. Con quei denti era un’animale forte ed orgoglioso, ha trovato la morte cadendo dall’alto, vinto dalla montagna, forse al buio, forse nella pioggia. Meritava di più che finire nei miei trofei, così l’ho appoggiato su una bella roccia salutandolo: “Augurami sorte migliore, fratello tasso”.

Il canale diventava uno stretto diedrino erboso tra una placca compatta ed un muretto a salire. Mi alzo nel diedro ma davanti a me, oltre la vegetazione vedo solo la roccia ed i caratteristici prati verticali sotto Preguda. Mi alzo ancora ma devo cambiare strategia, in quella direzione non si può proseguire. Così rimonto sul muretto ed inizio un traverso su roccia verso destra cercando di guadagnare nuovamente il crinale. Ormai sono fuori, sono in parete, l’esposizione è ormai irrilevante: arrampico slegato su passaggi di IV. La cosa, curiosamente, non mi disturba: è l’unica opzione razionalmente possibile e la roccia è stupenda. Rimonto il crinale per poi abbassarmi nel canale di destra, dentro cui guadagno ancora quota.

Qui faccio un errore di valutazione che comprenderò solo più tardi. Un’esile traccia di muflone sembra alzarsi ancora verso destra attraverso una cengia di detriti. Le piante mi impediscono di vedere bene ma mi alzo seguendo quella linea che punta a rimontare sulla spalla destra del secondo canale. La roccia si fa però friabile e poco convincente: quel “sentiero da capre” potrebbe essere la soluzione più logica ma anche una pericolosa trappola. Non mi fido, rientro nel canale e lo riattraverso riguadagnando il crinale sfilando dentro una roccia spaccata.

Davanti a me ho uno strano mosaico di prati verticali e roccia bianca costellata da piccole ma apparentemente solide piante. Punto dritto per dritto arrampicando nel misto. Poi prendo, mi alzo sopra un diedro roccioso e mi ritrovo davanti una pancia di rocca. Per rimontarla devo alzarmi oltre lo strapiombo su prese piccole e riposizionarmi su fessure, oppure tirare un metro di dulfer orizzontale su lama buona e placca liscia prima di rimontare su una pianta. In entrambi i casi, se nel momento di massimo sforzo non mi bastano le braccia o mi partono i piedi, passo di sotto senza scampo. “Gli equilibristi muoiono credendo che l’esercizio sia finito”. Un pensiero che abbozza la frase di Philippe Petit, di cui ricordo il senso ma non le parole esatte.

Al primo movimento mi accorgo che è troppo, che mi sto giocando il jolly quando forse manca poco ad uscire. Mi fermo, mi guardo in giro e di lato, scendendo e compiendo un piccolo traverso, vedo una soluzione più abbordabile. Forse anche più esposta ma gestibile e frazionabile in più movimenti. Mi abbasso, mi incastro in una nicchia, mi sfilo e con una “mastrufolata imperiosa” raggiungo una pianta e finalmente il bosco di betulle.

Faccio due passi, mi allontano dal vuoto, ed inizio a respirare a pieni polmoni. Altri due passi ed i miei respiri si fanno ancora più intensi e rumorosi. “Fuori, sono fuori!”. Ormai sto iperventilando e mi siedo a terra sul prato. Dallo zaino prendo la bottiglia dell’acqua e bevo avido. Respiro e prendo il cellulare: “Sono fuori. Canale fatto, Birillo vivo” scrivo a Bruna. Poi mi alzo e guardo di nuovo di sotto: senza sporgermi troppo perchè mi fa un po’ paura…

Sull’altro lato del canale la cengia delle capre appare ora come una buona soluzione percorribile ma, in fondo, era stato figo anche chiudere con una bella serie di placche intense! Mi siedo di nuovo ed dallo zaino estraggo una busta di fette di mela essiccate. Le mani non tremano ma si muovono in modo strano, mi sento una scimmia goffa che tenta di infilarsi in bocca patatine sbriciolate. Il mio corpo ha staccato la spina e la mente ha mollato il colpo: improvvisamente mi sento un vecchio pieno di dolori. Ma il sentiero è venti metri alle mie spalle, mi godo il momento.

Davanti a me, sul lato opposto del lago, fa mostra di sè il Forcellino. E’ da questa mattina che ripenso a Dean Potter ed alle sue parole raccontate da Luca Calvi: «Una delle espressioni che maggiormente lo infastidiva era sentirsi accusare di essere un adrenaline-addicted, adrenalina-dipendente. “No, Luca, per favore, aiutami a spiegare che la mia non è ricerca dell’adrenalina, è esattamente il contrario. Fin da piccolo mia madre mi ha insegnato l’arte dello yoga, il sapermi concentrare e controllare. L’adrenalina è l’esatto contrario di quello che cerco io. Io spingo le difficoltà al massimo, salgo una via in free-solo oppure cammino sulla slack senza cordino di sicurezza perché così mi concentro al massimo, mi avvicino maggiormente a quello stato di benessere con me stesso e col mondo che è l’esatto contrario delle sensazioni di chi va a drogarsi di adrenalina. Per loro l’adrenalina arriva dal gioco quasi inconscio con il rischio semisconosciuto, una sorta di roulette russa. Per me no, non c’è nulla di non calcolato, è un percorso che mi porta a salire, ad elevarmi, a camminare con vuoto tra le gambe ed infine a poter volare… So che mi capisci, scrivilo tu…”». Curiosamente le parole di Dean mi ricordano quelle di Ivan e quelle apprese studiando “la via della mano vuota” (Karate-Do). L’ignoto è la mia difficoltà massima, la posta in gioco la stessa: con una punta di egocentrismo avevo quasi sperato fosse lui uno dei due corvi che avevano vegliato la mia salita nel canale. Sull’altro non ho dubbi, mi segue ormai da anni su queste montagne. 

Ieri, Bruna ed io, eravamo ad Esino Lario: Davide Castelnovo era il tracciatore della prima edizione del EsinoBlockRock, una gara di Street Boulder tra le vie del paese. Oltre a Davide e suo papà Pier abbiamo incontrato anche il Guerra e gli altri ragazzi di Valmadrera: tutti veterani dell’Isola Senza Nome. “Serve la testa per le vie dei Corni” chiacchieravamo insieme “Senza il giusto stato mentale al secondo tiro cerchi la fuga in doppia anche se hai già ripetuto la via più volte”.

Come spesso accade ero affascinato dalle straordinarie capacità dei boulderisti, dal modo in cui riuscivano a risolvere movimenti tanto complessi con apparente semplicità e leggerezza. Probabilmente non riuscirò mai ad arrampicare come loro, così come non sarò forse mai al livello di Mattia, di Josef, Ivan o Gianni. Ma in fondo è giusto così: nelle mie “cose”, nella mia “dimensione”, nel mondo che ho scelto di sentire mio, credo di essere diventato piuttosto bravo …e forse mi basta questo per apprezzare il giusto equilibrio. Quella di oggi è stata una bella salita, completa in tutti gli aspetti che mi appartengono.

Davide “Birillo” Valsecchi

Non credo che il canale sia mai stato salito o che possieda un nome. Ho pensato a tanti nomi ma nessuno mi sembrava appropriato, così mi piacerebbe chiamarlo “Canale del Nostromo”: ma è giusto un vezzo, non è fondamentale. La salita non scende mai sotto il secondo/terzo grado ed è da considerarsi prevalentemente di “misto-verde”. Serve intuito e capacità nel tracciare la rotta, bisogna saper mitigare le difficoltà ma anche essere consapevoli che molte situazioni vanno risolte di petto con passaggi, anche lunghi, di IV tendente al IV+ (La roccia è buona quindi è possibile che il grado sia più alto e che semplicemente non l’abbia sentito). Di questi passaggi, ahimè, non ci sono foto perchè ero troppo impegnato a cercare di sopravvivere anzichè fotografare 😉 Il punto d’uscita l’ho segnato con un adesivo vinilico su una betulla. Due ore e quaranta nel canale. E’ una ravanata intensa di quasi quattrocento metri di dislivello senza via di fuga: mi raccomando, non mettetevi in testa idee stupide se non è il pane vostro.

La “Direttissima” del Moregallo

La “Direttissima” del Moregallo

Domenica mattina di luglio: un caldo terribile. Il paradosso è vivere ad un chilometro in linea d’aria dal Lago e tecnicamente non riuscire a sfruttarlo. La costa che risale da Parè, frazione di Valmadrera, fino ad Onno, frazione di Oliveto Lario, è infatti “logisticamente” un problema su cui continuo ad “incartarmi”. Il tratto di strada, la provinciale SP583, che collega le due frazioni è lungo 11 chilometri ed attraversa due nuove e lunghe gallerie. La prima di 1,7 chilometri, la seconda di 2.3 chilometri. La vecchia strada statale, che correva lungo la riva del lago, è oggi chiusa e quasi completamente impraticabile, nel senso che il primo tratto di strada è diventato privato ed è solidamente recintato. Neppure “ravanando” è possibile aggirare questo blocco lungo la riva: forse solo a nuoto, tenendosi ben lontani dal cantiere navale, si riesce a passare!

Curiosamente la parte “insensatamente” privatizzata appartiene al comune di Valmadrera mentre il resto della vecchia strada, oggi in abbandono ma praticabile a piedi, appartiene al comune di Mandello del Lario che, sebbene sulla riva opposta del lago, vanta storici diritti sui territori del Moregallo.

Le due nuove gallerie impongono quindi di accedere alla sponda orientale solo a Parè, prima della prima galleria; in località Moregallo, tra le due gallerie; alla spiaggia delle Moregge, dopo la seconda galleria. Purtroppo a queste limitazioni se ne devono aggiungere altre due: la prima è un cronico affollamento estivo di tutta la zona, la seconda è la scarsa possibilità di parcheggio, oggi anche a pagamento. Anche volendo affrontare due chilometri di provinciale chiusi dentro una trafficata galleria, una camera a gas, sarebbe comunque impossibile: la galleria, per problemi all’impianto di illuminazione, è interdetta tanto ai pedoni quanto alle biciclette. Quindi la macchina ed il parcheggio a pagamento sono l’unica soluzione diretta.

Tutto il versante Est del Moregallo è caratterizzato da grandi pareti verticali e, come se questo non bastasse, ci sono ben quattro cave che “aranano” i già difficili fianchi della montagna. Per questo motivo non vi è un sentiero che corre a mezza costa da sud a nord. Al momento l’unica soluzione possibile e ufficiale è il sentiero 50° Osa che dalla bocchetta di Sambrosera, a 1192m di quota sulla cresta del Moregallo, compie una lunga discesa superando la Parete Nord e raggiungendo il lago tra il Rapanui e l’Avalon. Quindi, solo andata, sono oltre 1000 metri di dislivello ed oltre 6 km di sviluppo per ovviare ad un impraticabile strada di 2 chilometri pianeggiante a bordo lago!

Inevitabilmente tutta quella zona, osservabile solo dall’altra sponda del lago e quindi lontana da occhi indiscreti, è territorio di “saccheggio”: quando in cava, il 6 marzo 2015 si sono lasciati prendere la mano con le mine, per il boato che ne è derivato se la sono fatta sotto anche a Lecco. Così, giusto per dire… (LeccoNotizie: Boato sul lago, tanta paura)

Le alternative al 50° sono poche, selvatiche e spesso non offrono alcun vantaggio se non quello di “pericolare” negli angoli più fieri del Moregallo. C’è infatti il “Sentiero della Teleferica” (un’avventura!), quello “del casotto dal lago” (un’altra avventura!) e più a nord tracciati dei mufloni e dimenticati sentieri sulla sinistra orografica della valle delle Moregge. In ogni caso è necessario raggiungere la cresta del Moregallo oltre i 900 metri per poi poter scendere.

Nello scorso inverno, agli inizi di Dicembre, mi sono avventurato ad esplorare una possibile soluzione che, più o meno a quota 400, riuscisse a vincere gli ostacoli attraversando orizzontalmente tutto il versante. La prima parte della mia esplorazione è stata vertiginosa ma di successo: molti “sentieri” tracciati dagli animali attraversano orizzontalmente fino a raggiungere la cresta a quota 400: il sasso Preguda è a quota 630, quindi questa linea è decisamente “bassa” ma sufficientemente alta per accedere all’anfiteatro roccioso che “ospita” la cava al di sopra della sua linea di scavi.

Quella zona è bellissima e probabilmente, al di sopra della cava, è assolutamente “vergine” del tocco umano. Ci sono un paio di linee che, attraverso la roccia a strati ed i prati strapiombanti, può essere inseguita per raggiungere la cresta opposta, dove corre il sentiero del casotto. Il prossimo autunno, quando l’erba sarà seccata ed i serpenti avranno smesso di pascolare per prati, ho intenzione di continuare la mia esplorazione. Ovviamente serviranno corde e chiodi per riuscire a raggiungere l’altro lato ma, se mai ci riusciremo, avremo superato i primi due grossi ostacoli: la prima cava e la prima galleria. Da quel punto, attraverso il sentiero del Casotto e quello della Teleferica si potrebbe proseguire orizzontalmente fino al grande (e temibile) canalone che scende a valle a sinistra della parete del Tempo Perduto. Se anche questo secondo “problema” fosse risolto il nostro viaggio potrebbe continuare in orizzontale fino alla base della Parte Nord.

Mentre rifletto sulle possibilità e sulle difficoltà non posso che pensare ad Eugenio Fasana, il grande alpinista che stato il capostipite degli arrampicatori dell’Isola Senza Nome. Sua è infatti la prima storica via d’arrampicata sull’omonima parete del Corno Centrale realizzata il 30 Giugno del 1910. Pensavo a Fasana perchè fu sempre lui, nell’Ottobre del 1911 , a tracciare l’avventurosa linea su cui oggi corre la celebre Direttissima che in Grignetta collega i Resinelli con il rifugio Rosalba. Quella linea avveniristica, tra canali repulsivi ed allora inesplorati, oggi è uno dei sentieri più noti e frequentati della Grignetta. Certo, oggi ci sono cavi in metallo, pioli, scale e probabilmente ben pochi si rendono conto di cosa possa significare affrontare quel percorso senza tutte quelle “correzioni” umane che furono introdotte dal Cai Milano nel 1923.

La direttissima di Fasana e la mia esplorazione attraverso il Moregallo per certi versi si assomigliano molto: un’avventura ed un’esplorazione “diversamente” alpinistica. Ma quale potrebbe essere il suo futuro? Per quanto io sia contrario ai cavi metallici, alle catene ed al trapano non è possibile negare il ruolo dell’attuale direttissima nello scenario della Grignetta. Il Moregallo però è aggredito da quattro cave, qualcosa che ha decisamente un impatto esponenzialmente più violento delle mie consuete remore etiche. Un sentiero attrezzato, fosse anche con passaggi da vera e propria ferrata, segnerebbe un limite invalicabile alla salita della cave ed una maggiore frequentazione permetterebbe una maggiore vigilanza. Spalancare le porte di un mondo segreto o lasciare che sia consumato in silenzio? Forse il compromesso è accettabile, di certo avrebbe un senso ed uno scopo forse più nobile di molte altre ferrate “ludiche” del territorio lariano. (A partire da Gamma1 fino alle nostrane Belasa, Venticiquennale Canzo e Trentesimo Osa…)

Così, mentre attendo il ritorno dell’autunno, fantastico su cosa potrebbe essere fatto. Cosa accadrebbe se le avventate esplorazioni dei Tassi del Moregallo riuscissero a raccogliere il sostegno delle storiche realtà dell’Isola: la OSA, la SEV, il Cai di Valmadrera così come quello di Canzo ed Asso. Forse persino i Corvi di Mandello, a cui appartiene ufficialmente quella zona, potremmo esserne interessati. Chissà, forse unendo tutte le forze e tutti i talenti, si potrebbe creare la nostra direttissima, chiudere il cerchio attorno al Moregallo e presidiare una parte del nostro territorio spesso abbandonato.

Davide “Birillo” Valsecchi

Torrione Fiorelli: Tessari e Bramani

Torrione Fiorelli: Tessari e Bramani

Mattia mi chiama al telefono, è un po’ che non ci sentiamo e chiacchieriamo un po’ della vita “civile”, della quotidianità, del lavoro. Poi la domanda classica “Sabato Torrione Fiorelli?”. Pondero e ribatto “Tessari?”. “Sì, ma rapidi e veloci che ho i bimbi a casa” “Okay, solito orario al parcheggio?” “Sì, le corde le ho io” “Bene, andata. A domani!”. Ci si dilunga spesso sulle futilità solo per essere spicci nelle cose serie.

Il Torrione Fiorelli era qualcosa a cui avevamo pensato già da un po’. Un Imponente torrione sul versante Sud Est della Grignetta, oltre il Canale Porta, isolato dal consueto affollamento di cordate che contraddistingue il web-end a monte dei Resinelli. I fratelli Franco e Giorgio Tessari sono, nel senso latino di “primi tra i pari”, due “princeps” dell’Isola Senza Nome: ripetere la loro via del 2007 era un omaggio alla tradizione. L’idea originale era sfruttare l’esposizione a sud in qualche giornata d’autunno, ma in fondo ci sentivamo abbastanza “rapidi e veloci” da sfuggire alla morsa del caldo.

I grandi prati alla base del pendio su cui innalza il Fiorelli sono un’angolo della Grignetta davvero molto bello e poco frequentato. Il torrione, estetico e slanciato, è la struttura più appariscente di un gruppo decisamente interessante e misterioso. Ivan me ne aveva parlato spesso in passato, oltre ad aver “liberato” la Boga alla fine degli anni 80 aveva esplorato tutta quella zona: in uno scenario simile, con la gioventù dalla sua, c’è da “tremare” pensando quale magia può aver combinato da quelle parti il nostro agguerrito “vecchiaccio”!

Noi imbocchiamo il canale salendo verso la grotta alla base del Torrione. I ricordi scivolano verso la Val di Mello quanto, puntando all’attacco di Luna Nascente, ci eravamo infilati dritto per dritto lungo una cascata. La prima di una lunga serie di stramberie che, per arrembante ingenuità, ci portano a chiudere la via in “conserva” perchè, per distrazione, “mancammo” una sosta di uno degli ultimi tiri. “Errori” e “soluzioni” che a distanza di anni, fortunatamente, ci fanno ancora sghignazzare complici.

L’attacco della via è un diedrino erboso che rimonta di traverso verso sinistra su roccette. Io pregusto la “mastrufolata” ma Mattia, abbagliato da uno spit e da delle traccie di magniesite, decide di rimontare dritto per dritto sulla roccia. A metà dello spigolo la magnesite sembra ripiegare verso il canale erboso, probabilmente spaventata dalla roccia compatta e dalle zolle d’erba che si scrostano. Mattia pianta un “chiodino” e continua su per il dritto: ”Già che siam qui….” Il primo tiro diventa qualcosa di decisamente più complicato di un III° ed invece di tirare piacevolmente ciuffi mi tocca lavorare sulle tacchette.

Il secondo tiro invece torna regolare, ma di magnesite non ci sono altre tracce. Roccia tutto sommato buona, con molte belle clessidre ed un vecchio chiodo artigianale realizzato saldando un pezzo di ferro a T ed un anello metallico realizzato con i tondino d’armatura. Un contrasto che è uno schiaffo in faccia a mano piena contro tutte le manfrine high-tech dei rinvii con moschettoni ultra-light su cui si basa oggi il marketing per acchiappare i “climber warrior” moderni.

Il terzo tiro le cose si fanno decisamente più complicate. Ci si alza verso sinistra, poi si traversa verso destra per raggiungere la base della fessura strapiombante che è “nominalmente” il passaggio chiave della via. Mattia si alza, allungo l’ultimo chiodo con una fettuccia, lo rimonta e poi parte per il lungo traverso. Io da sotto smadonno silenziosamente calcolando quanto quel traverso, con quell’ultima protezione allungata, possa trasformarsi in un pendolo d’antologia horror per il secondo.

Mattia alla base della fessura prova ad alzarsi guardandosi intorno: “Strapiomba un sacco: tentarla in libera è una rogna, se cado batto diretto sul terrazzino”. Così iniziamo a manovrare di concerto. Si alza e la scelta si rivela quella giusta. Forse manca un chiodo nella parte centrale o forse il passaggio obbligato è più lungo di quanto ci si aspetterebbe. Mattia piazza a un nut: proviamo a caricarlo e sembra tenere. Lavoriamo con le corde mentre si allunga leggero verso l’alto ed in equilibrio riesce ad agganciare il chiodo successivo. “Fiuuu… era un po’ che non provavo questa sensazione. Sembra di essere tornati ai Corni!”. Mattia, nella sua versione da “risolutore spleo”, chiude il passaggio, rimonta lo spigolo e scompare alla mia vista. “Davide: Sosta!” “Mattia: Libera!” “Davide: quando vuoi!” “Mattia: Vengo!”. La nostra voce fa il giro della valle e riusciamo a parlarci solo attraverso l’eco. Lui non mi vede ed io non vedo lui.

Il traverso è una gran rogna e l’ultimo chiodo è una trappola. Devo riuscire a rimontarlo senza sganciarlo. Devo, con la corda che mi tira dal basso, trovare il giusto equilibrio e le giuste prese per sganciarlo in mezzo alle gambe prima di affrontare il traverso. Se faccio diversamente, se lo gancio prima di rimontarlo, rischio di tirarmi un pendolo verso fanculandia di sei metri con la corda che canta un requiem su una tastiera di spuntoni rocciosi. “Putt*** Eva! E poi dicono che da secondo è tutto facile! Fanculo”. Parto, disimpegno la rogna del chiodo ed attraverso leggero. La seguente fessura strapiombante, da secondo con la corda verticale dall’alto, diventa per me la parte  meno impegnativa del tiro.

Ci ritroviamo sulla cengia erbosa attaccando il quarto tiro. “La roccia non ha una bella faccia qui…”. Lame spuntano verticali tra l’erba puntando ad un incassato diedro obliquo verso sinistra. “Mattia, e se ce ne andassimo a bere la birra passando dai prati?” “Ma va, due tiri e siam fuori, il duro è fatto”. Dieci minuti più tardi Mattia è nel diedro e smadonna: “Si muove tutto: non so se seguire il diedro o rimontare”. Alla fine segue il diedro e trova un chiodo sulla parte finale. “Pare proprio sia qui, ma sto muretto è duro da risalire”. Si alza un po’, si allunga e pianta un universale, poi si alza. “C’è un fittone lassopra, forse è la sosta”. Si allunga ancora e pianta un knifeblade, poi rimonta. Due movimenti ed è in sosta: un fittone con una curiosa catenella ed un chiodo da collegare oltre lo spigolo.

Quando arrivo al diedro mi ritrovo nuovamente in un pendolo-dromo: “Putt*** Eva!”. La corda mi è nemica e mi lavora contro: cerco di alzarmi al di sopra del dietro, per appigli solidi, cercando di accorciarla, poi mi riabbasso per afferrare con la sinistra l’unica presa buona nel diedro, abbasso la spalla destra incastrandola sotto lo spigolo allungando verso l’alto il braccio destro mentre i piedi spingono in appoggio cercando di tenermi quasi disteso nel centro del diedro. Mi allungo, afferro qualcosa che tiene con la destra, lascio che il barricentro “pendoli” il culo fuori dal diedro e con due movimenti controllati mi raddrizzo in linea con la corda: “Fanculo i traversi!” Sghignazzo. Supero il chiodo di via e raggiungo il primo chiodo piazzato da Mattia.

“Okkio che quel chiodo è quello Eghen!” mi dice Mattia dall’alto. Quel chiodo, dopo la notte di battaglia nel Camino dell’Eghen, era rimasto un anno intero nella roccia in cui lo avevamo piantato durante la nostra roccambolesca fuga dalla montagna. Mattia, contrariamente ad ogni mio suggerimento era tornato in solitaria e, equipaggiato speleo, si era calato dall’alto solo per recuperarlo. Mattia è fatto così, è un uomo dai solidi e bislacchi principi.

Il chiodo è un Kong Univesale, un Athos di media lunghezza. L’occhiello era incassato oltre una lama di roccia che si oppone mentre cerco di estrarlo. Solitamente uso un vecchio moschettone per tenere il chiodo mentre batto con il martello. Tuttavia, visto che non viene, tolgo il moschettone e faccio leva con la becca della mazzetta. BLAM! Senza alcun preavviso il chiodo schizza via e piomba verso il basso precipitando sulla cengia erbosa. Sì, avevo appena perso il “chiodo magico” di Mattia.

“Ma no!!! Ma osti!! Ho visto dove è caduto! Ti calo e lo vai a riprendelo!” Brontola sconsolato Mattia dall’alto. “Fanculo! Io mica lo rifaccio sto tiro! Senti un po’, ne ho a casa cento uguali: te ne do uno e siamo pari”. Mattia brontola, ma poi si rassegna “Vabbè, se me ne dai uno uguale io farò finta sia quello dell’Eghen”. Quando ho deciso di diventare un mercante di chiodi non avrei immaginato di dover trattare anche appeso in parete!

Lo raggiungo in sosta e mi preparo. “Devi scavalcarmi?” “No, la via va a sinistra?” “Sinistra?! In quel merdaio di rocce rotte? Non gira su questa placca a destra uscendo a sinistra da quel tetto?” “Ma sei fuori, su quella placca non ci si può proteggere!” “Hanno piantato fix e fittoni, vuoi che non abbiano messo qualcosa per risolvere su roccia buona?” Così, indecisi sul da farsi estraiamo la fotocopia della relazione della “Scuola Guido della Torre” (purtroppo non ho la relazione originale pubblicata su Vertice 2007): “salire l’evidente fessura a sinistra della sosta, non impegnativa ma a tratti friabile (chiodi), segue una breve muretto verticale (fittone), poi un breve tratto su roccette e detriti porta alla base di breve diedrino liscio da affrontare con decisione. Sosta su chiodone cementato con cavo d’acciaio, da rinforzare con friend piccolo nella fessura poco più sotto. Attenzione alla qualità della roccia, da verificare sull’intera lunghezza. Prestare molta attenzione ad un masso instabile posizionato alla base del muretto verticale.” Ecco: mancano solo i cecchini ed una pioggia di rane…

Allungo il naso e guardo il primo passo a sinistra: roccia brutta sopra un vertiginoso abisso. Il caldo comincia a farsi sentire e quel tipo di roccia consuma tempo con la stessa costosa intensità con cui il mio vecchio Subaru brucia benzina. Infilarsi in una rogna a rebattone di sole davvero non mi allettava. “Ma noi non ne abbiamo mai abbastanza? Non ne abbiamo già mangiata abbastanza di roccia marcia nel corso degli anni?” Brontolo mentre Mattia sembra indeciso, poi gioco il Jolly: “E se ci caliamo ed andassimo a bere la birra passando per il prato? Evitiamo sta rogna e recuperiamo anche il chiodo!” Senza il chiodo le mie possibilità di convincere Mattia a mollare una via all’ultimo tiro sarebbero state nulle, ma quello in fondo era il “chiodo magico dell’Eghen”.Placidamente sull’erba attendo Mattia pregustandomi la birra. I Corni, all’orizzonte alle nostre spalle, sembrano prenderci in giro dalla distanza: “Bigoli! Siete proprio bravi voi due… Tutta quella strada per infilarvi nella roccia marcia? Qui a casa ne avreste trovata quanta ne volevate! heheh …Bigoli!!”. Come dare torto ad una montagna? Poi attraversiamo la cengia erbosa e ci troviamo alla grande grotta ad arco in cui attacca la via di Bramani del ’26. Un camino percorso in discesa da Giacomo Fiorelli nel 1904 e da cui prende il nome tutto il torrione. Ci fermiamo un istante all’attaco. “Però… essere qui davanti ad una via di Zio Vitale e non farla…” Zaini a terra infiliamo nuovamente le scarpette. Vitale Bramani è lo straordinario compagno di Eugenio Fasana, capostipite, “primo tra i primi”, degli arrampicatori dell’Isola Senza Nome: concatenare una Tessari ed una Bramani significava chiudere un cerchio nella tradizione, non potevamo sottrarci!

Il camino è gioia pura. La roccia assomiglia a quella del pilastrello e si sale senza prese, tutto in spaccata ad incastro. Movimenti classici, atletici ma eleganti. Superiamo il sasso e ripartiamo oltre lo spigolo addentrandoci nella bellezza della placca successiva. La mente non può che rimanere affascinata nel vedere cosa erano in grado di fare negli anni trenta i grandi pionieri dell’arte verticale. La serenità di essere su un capolavoro travolge ogni difficoltà: “Se sono passati loro per ogni problema esiste una sua soluzione, bella ed elegante, da comprendere”. Arrampicavano con gli scarponi o con le pedule, con corde che erano canaponi, moschettoni che erano anelli in ferro e ferracci come chiodi. Eppure la natura sembra aver premiato il loro eroismo regalano loro l’inaspettato di cui avevano bisogno: passaggi tutt’altro che banali, spesso vertiginosamente esposti, che si risolvono con una solida presa quasi invisibile, ma sempre presente. Rimonto oltre un masso in opposizione con un movimento che sembra quello riflesso dell’arco di kundalini, poi chiudo le spalle e a cavatappi infilo un braccio verso l’alto alla cieca, trovo una presa e mi avvito passando oltre. Oltre uno spigolo una serie di piccoli appoggi sembra formare un’esile ballatoio, una piccola presa di dita a sinistra, ci si sfila sullo spigolo lungo il ballatoio e poi fessura a tornare. Roccia solida, compatta, movimenti sempre logici, eleganti, arditi ma sicuri. Gioia, gioia pura! Le vie degli anni trenta, quando non diventano aceto, sono pregiato vino d’annata!

Dalla croce in vetta al Torrione, ci si cala con tre doppie un po’ oblique lungo la linea della normale. Questa via, del 1906, corre tutta nella falsa protezione di un camino e mostra come, con mezzi dell’epoca, gli arrampicatori di quel tempo avessero un “pelo” ed un coraggio oggi forse impensabile. Invece la vecchissima via originale, oggi quasi completamente dimenticata, corre probabilmente nel camino visibile dal basso sul lato Est alla cui base si accede proseguendo verso destra lungo la cengia erbosa da cui siamo usciti noi. Conoscendo la “cricca” e la mentalità dell’epoca quel camino avrà probabilmente caratteristiche simili a quelle del camino sulla Parete Fasana qui ai Corni (quarto grado che agghiaccia ed intriga!!).

Quindi birra ai Resinelli e poi giù, doccia e grigliata in giardino con il resto dei Tassi del Moregallo. 

Note: la Guida LarioRock Pareti, la guida “per i milanesi che rientrano in elisoccorso chiedendosi cosa sia andato storto”, liquida brevemente la Tessari come una via di 6a+, 5a obbligato, aggiungendo: “via recente che sale l’estetico spigolo sud su roccia da buona a ottima. Chiodatura sicura mista chiodi e spit. Arrampicata fisica mai troppo impegnativa. Consigliata.” Mavaffanculo ai fenomeni della carta stampata… A casa mia un 5a è Visitor2 a Scarenna: salvo l’unto tutti, con un po’ di pratica, possono riuscire a superarlo in sicurezza. La Tessari è invece una via in ambiente con un severo passaggio di VI+, tutto lo sviluppo richiede esperienza sufficiente per individuarne i pericoli e le difficoltà. Una via alpinistica su roccia da comprendere. Ma, in ultima analisi, è proprio questa la sua bellezza: la possibilità di confrontarsi ed imparare dalle scelte dei fortissimi fratelli Tessari. Non c’è nulla di “sportivo” in quella via, quindi dimenticate la becera scala francese e tenete bene a mente quella U.I.A.A. (la Welzenbach aperta). Portatevi il martello e fate riferimento alla relazione originale di Vertice 2009 (vedrò di recuperarla) oppure a quella della Scuola Guido Della Torre (sempre molto precisa e ponderata). Per la Bramani o la Normale potete fare riferimento ai Sass Baloss, sempre corretti ed onesti nelle loro relazioni. Concatenare la Tessari e la Bramani si è dimostrata una soluzione molto appagante che, in Grignetta, può darvi un ampio assaggio dell’arrampicata sull’Isola Senza Nome.

Davide “Birillo” Valsecchi

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