Year: 2019

CIMA-ASSO.it > 2019
Due Camosci ai Pizzetti

Due Camosci ai Pizzetti

Era da parecchio che non tornavo da quelle parti e sono rimasto molto colpito dalle quantità di piante abbattute dal vento, probabilmente nella funesta tempestata che colpì il nord Italia lo scorso anno. Tra le possibilità per alzarsi da Lecco sulle pendici del Coltignone, il Sentiero dei Pizzetti è quella che preferisco e per questo ero molto dispiaciuto nel vedere come la natura, alle volte, sappia essere anche crudele con se stessa. Il tracciato è dedicato a Piero Pensa e confesso che sulle prime questo nome mi aveva spaesato: la mia fantasia era intrigata dall’idea che, in quella parte del Coltignone, vi fosse una via dell’Ingegner Pietro Pensa, a me noto per l’ardita via “battaglione Morbegno” al Pizzo d’Eghen. In realtà la dedica è per Piero Pensa, nativo di Parlasco, classe 1946, volontario della parrocchia di San Francesco e fondatore del Gruppo Sportivo Sci-Montagna Aurora, di cui per anni è stato presidente. La vicinanza della Chiesa di San Francesco ai Pizzetti spiega l’attaccamento della comunità a questo tracciato ed ai due grandi torioni. Sul primo torione è possibile salire sulla sommità per un comodo sentiero, sul secondo invece, sebbene vi sia una madonnina sulla cima, è necessario arrampicare. Il secondo torione mi ha sempre incuriosito perchè, anche solo dalla selletta, è sconsigliabile tentare la salita se una corda ed un compagno. Francamente non conosco (nè ho trovato informazioni) sull’etimologia dei pizzetti o sulla presenza di vie d’arrampicata (ma di certo qualcosa c’è su entrambi i torrioni).

Domenica mattina il tempo non era affatto buono ed il mio proposito di puntare con Nicola ai Resinelli passando dai Pizzetti e dal GER sembrava minacciato dall’acqua. Anzi, una fitta pioviggine sembrava incalzare mentre dalla Grignetta nubi scure si abbassavano sul Forcellino. Ormai però eravamo “in giro” ed abbiamo deciso di risalire almeno fino al Rifugio Piazza. Io sono il figlio di un cacciatore e sono stato educato ad andare in montagna rispettando la magia del silenzio. Questo, molto spesso, mi permette di fare “incontri ravvicinati” piuttosto interessanti. Per via della pioggia il bosco era deserto, ma è stata con una certa sorpresa che ci siamo trovati davanti, a pochi metri del tracciato, due camosci intenti a risalire una “ravanata” di terzo/quarto grado su roccia e fango. I due animali erano sorpresi quanto noi, tanto da bloccarsi nella loro scalata indecisi sul da farsi. Tuttavia quello che realmente mi stupiva era quanto fossero a bassa quota e vicini al centro abitato di Lecco (erano sotto il primo belvedere!). Ho condiviso con Niky qualche trucco su come muoversi quando, in due, si incontra il selvatico. Trucchi che a mia volta mi erano stati insegnati da mio padre: “Loro individuano e si focalizzano sul primo che vedono, se questo resta immobile anche loro faranno altrettanto fissandolo, in attesa, pronti a reagire alla sua mossa. Se non ti muovi per un po’ non lo fanno neanche loro. Il secondo, sfruttando la copertura del primo, può quindi spostarsi lentamente e prendere posizione senza che loro scappino”. Click, Click! Ci siamo osservati per un po’, almeno fino a quando uno dei due si è piegato sulle gambe “caricando” un salto da fermo con cui ha rimontato di slancio un passaggio aggettante probabilmente di quarto grado. Impressionante l’eleganza e l’equilibrio con cui affrontavano quella parete coperta di muschio e terra.

Lasciate le due “rupicapre” alle spalle abbiamo continuato a salire. Niky se la cava bene e, nonostante il sentiero sia a tratti decisamente esposto verso il basso, non mi preoccupo molto dei suoi movimenti sulla roccia. Più avanti incontriamo la “panchina”. Lungo il sentiero, in un punto molto panoramico sul bacino di Parè, c’è una panchina in legno con una targa in metallo. Incuriosito chiedo a Niky di fare una foto per ricordarmi poi il nome a cui è dedicata. Niky mi guarda dubbioso “Ma con questo tempo e questa angolazione non verrà una bella foto!”. “Bhe, forse non sarà bella, ma probabilmente farà comunque piacere a quelli che hanno messo la targa…”. Così, grazie alla foto, tornato a casa ho potuto investigare meglio su tutta la faccenda. La “panchina” è infatti dedicata a Lorenzo Mazzoleni, lecchese classe 1966. Spulciando tra gli archivi on-line, sopratutto quotidini e ritagli di giornale, è emersa la sua storia: a 18 anni diventa un membro dei Ragni della Grignetta di Lecco, a 22 il primo ottomila, il Cho Oyu, a 26 è sull’Everest, a 27 sull’Aconcagua, a 28 sul McKinley. A 29, in occasione del 50° dei Ragni di Lecco, è in cima al K2 ma perde la vita nella discesa e da allora le sue spoglie riposano sulle pendici della montagna. La storia di questo ragazzo, così giovane e così talentuoso mi colpisce. Per questo, un po’ a malavoglia, vado sul sito dei Ragni in cerca di maggiori informazioni. “OlioDiPalma™” deve essere stato troppo occupato a trapanare marchette ai Corni anzichè completare le schede dei membri dello storico sodalizio: l’archivio è terribilmente incompleto, per Mazzoleni c’è solo una pagina vuota con l’anno di nascita e di morte (1966 – 1996). Nonostante il disappunto mi accorgo che nell’elenco c’è anche una bella foto di Paolo ”Cipo” Crippa, anche lui Ragno di Lecco (anche lui con una scarna scheda vuota 1965 – 1990). Tanto basta però per rendersi conto che Paolo e Lorenzo erano praticamente coscritti e che indubbiamente – entrambi giovanissimi Ragni – si conoscevano (e chissà quali storie e quali ricordi stanno andando perduti!). Io nel 1990 avevo 14 anni e per la prima volta in vita mia ero andato in una discoteca (La pizzeria Eden alla stazione di Asso) per vedere con i compagni di scuola una partita di Italia90. Nel 1996 ne avevo 19 e cercavo di sopravvivere a Milano armato di un TuttoCittà e biglietti ATM. Questi due invece, Paolo e Lorenzo, avevano già compiuto l’incredibile: forti di un’esperienza anagraficamente limitata ma probabilmente di un enorme talento. Ve lo immaginate un ventenne di oggi mentre attraversa il Nepal – come era 20 anni fa!! – per tentare un 8000!? Sorprendente ed affascinante: non guarderò più quella panchina con la stessa superficialità.

Davide “Birillo” Valsecchi

L’Isola dei Bambini Due

L’Isola dei Bambini Due

Chuck Yeager è stato il primo uomo a raggiungere la velocità del suono, nell’ottobre del 1947. La sua storia è parte del film “The Right Stuff” del 1983. In quella pellicola Yeager, che non era entrato a far parte dei sette piloti del Progetto Mercury (le prime missioni spaziali americane con equipaggio), quasi per rappresaglia sale a bordo di un Lockheed NF-104A, un aereo supersonico, decolla e punta dritto verso il cielo, tentando di superare ogni record di altitudine. Il suo aeroplano è una scheggia argentea impennata verso l’alto, il suo motore, un missile con le ali, ruggisce mentre in verticale punta verso i 36.000 metri di altitudine. In una scena di una bellezza incredibile, Yeager riesce ad intravvedere le stelle oltre il cielo, riesce per un istante a sfiorare lo spazio. Prima di lui solo Yuri Gagarin, ma a bordo del gigantesco vettore spaziale Vostok1, si era spinto oltre. Per un commovente istante vede lo spazio, quasi lo sfiora, poi il suo aereo perde completamente la spinta, stalla, precipita verso il basso avvitandosi ormai senza controllo. Era così vicino al suo sogno, ora precipita verso il basso dai confini del cielo. Riesce finalmente a lanciarsi ed il suo corpo attraversa le nuvole in una caduta che sembra interminabile mentre la sua tuta ha preso fuoco. Nella pellicola una ballerina, in controluce con due ali di piume, balla sinuosamente, quasi ad introdurre la drammatica conclusione del film. Ma l’immagine stacca all’improvviso, mostrando Yeager in piedi, nel deserto, che nonostante le ustioni raccoglie il proprio paracadute a poca distanza dai rottami del suo aereo in fiamme.

Vidi questo film molti anni fa, per caso, un pomeriggio da adolescente, e ne rimasi enormemente colpito. Tutta la storia è incredibile, ma la scena dello spazio e dello stallo è per me indimenticabile e terribilmente simbolica. Bellissima.

Lo scorso anno, lo scorso settembre, tutta la mia famiglia era seriamente preoccupata per me. Una situazione tanto grave che fu mio padre, caso eccezionale, ad affrontarmi e dirmi: ”E’ ora che vai a farti vedere da un dottore”. Io avevo il fiato corto anche solo a salire una rampa di scala e mi sentivo debole come mai lo ero stato prima. Se non si fosse impegnata Bruna, obbligandomi ed accompagnandomi, non avrei avuto la capacità di reagire e sottopormi a tutte le analisi. Anche i dottori, sulle prime, erano tutt’altro che sereni e tutti i test, fatti d’urgenza, miravano a scoprire se il problema fosse un “male brutto”. Mia madre, dieci anni prima, era morta di cancro al Pancreas ed ora sembrava fosse il mio fegato a non voler più funzionare. Ero piuttosto depresso: avevano spittato i Corni e stavo per morire di malattia. Che brutto finale. Bruna, quando negli anni precedenti facevo qualcosa di pericoloso, mi rimbrottava sempre: “Vedi di non morire prima di avermi messo incinta! Poi fai pure quello che vuoi!”. Lo diceva per scaramanzia, ma di fatto avevamo una bambina sei mesi ed io ero a terra.

In realtà dalle analisi emerse che non avevo nulla, o perlomeno nulla di rotto. Il mio corpo aveva avuto una specie di black-out, i motori erano andati in stallo, tutti i sistemi avevano semplicemente smesso di funzionare correttamente. Non si sapeva il motivo. I miei valori erano tutti sballati, di due o tre volte la norma, ma nulla che non potesse essere aggiustato. Tuttavia, ve lo garantisco, il viaggio è stato tutt’altro che semplice. La prima vera difficoltà è ammettere un problema, accettare nuovi limiti. Serve pazienza, costanza ed indulgenza verso se stessi.

Mattia mi aveva portato ad arrampicare sulla Bramani-Fasana ai Piani di Bobbio. Terzo/Quarto grado da secondo. Tremavo, avevo le vertigini e la nausea, arrancavo pieno di paura. Fummo costretti a deviare sulla Ferrata per uscire dalla salita e ricordo me stesso, aggrappato alle catene, che mi trascino disperato verso l’alto. Ma la vera angoscia erano le scale del parcheggio che, ogni mattina, affrontavo per andare in ufficio. I dolori alle gambe, alle caviglie, erano uno sconforto senza fine ed orizzonte. Zoppicavo, zoppicavo sempre. Era desolante, non avevo nulla di rotto, ma non ero più in grado di fare nulla, nulla di ciò che mi rendeva ciò che ero stato fino ad allora. Corpo, forza, coraggio, volontà, non c’era più nulla …ero sconfitto. Sconfitto e spaventato. In un circolo vizioso mi trascinavo sempre più in basso.

La bergamasca si è però messa di impegno: mi ha tolto zucchero, birra e caffè, dandomi il tormento, con verdura, strani semini e quintali di pesce cucinato al forno. Si è presa cura di me, quel tanto che bastava per ridarmi la forza di fare altrettanto. Così la mattina, prima di andare in ufficio, ero nuovamente in grado di fare qualche imbarazzante esercizio per sciogliere i muscoli. “La mente è il motore, tutto il resto è un optional”. Ma è facile dirlo quando sei al volante di una “Birillo Full Optional del ’76” pienamente efficiente, molto meno quando sei in un biroccio scassato che non vuole saperne di funzionare. Un tempo, dopo il lavoro, andavo in cima al Moregallo prima di cena. Ora, con due bastoncini, stringevo i denti cercando di arrivare almeno a Sambrosera. Ma è proprio in quei momenti che ti rendi conto che realmente la mente è il vero motore, che tutto il resto puoi aggiustarlo a martellate.

Ed oggi, ad un anno di distanza, mi sento come Chuck Yeager che, un po’ ustionato, raccoglie il proprio paracadute stando in piedi nel deserto. Ciò che possedevo prima mi era stato in dato in dono, ciò che posseggo ora me lo sono conquistato e mi appartiene. I miei occhi sono di nuovo aperti, ora vedono lo spazio anche attraverso le nuvole.

Così guardo la nana mentre gioca sui prati della Forcellina, sdraiata su una colorata stoffa comprata in un viaggio in Africa anni fa. C’è un bel sole di settembre, i Corni brillano, potremmo salire più alto, anche se continua a crescere non la sento più cosi pesante, ma la piccola si stancherebbe stando troppo a lungo dentro il suo zainetto. Quindi ci siamo fermati qui. Tanto nel pomeriggio si va ad arrampicare con i neofiti del gruppo e domani si va a macinare passi da qualche parte con Niky, che mi fa da allenatore. L’inverno è alle porte ed è necessario allenarsi per tornare finalmente al Moregallo, al proprio posto con gli altri Tassi.

E Bruna? Bruna verrebbe volentieri a spasso con me e la nana, ma al momento ha decisamente un buon motivo per stare tranquilla ad aspettarci a casa.

Davide “Birillo” Valsecchi




La Legge degli Spit

La Legge degli Spit

«Tutta la storia dell’alpinismo è stata una ricerca (una nostalgia?) della sfida romantica pura». Spesso sfogliando le riviste della Biblioteca Canova ciò che maggiormente mi affascina e colpisce non sono gli articoli, quanto gli scritti più brevi, gli editoriali o le lettere dei lettori. Gli articoli hanno quasi sempre lo scopo di comunicare una salita o descrivere una montagna o un impresa,  la loro struttura è sempre più o meno simile, a tratti persino scontata. Questi “pezzi minori” hanno invece la straordinaria capacità di cogliere e trasmettere il “sentire” dei propri tempi. Questo pezzo, un editoriale di Enrico Camanni, su ALP numero 78, mostra come la discussione sullo spit, e più ampiamente sul trapano, fosse ancora viva negli anni 90, ma sopratutto mostra un’inaspettato equilibrio nell’affrontare tale discussione. 

LA LEGGE DEGLI SPIT
Enrico Camanni (ALP n° 78 / Ottobre 1991)

Affermato in falesia come un insostituibile supporto dell’arrampicata sportiva, lo Spit rischia di colonizzare i territori dell’alpinismo e di livellare le montagne a variopinti baracconi.

Tutta la storia dell’alpinismo è stata una ricerca (una nostalgia?) della sfida romantica pura. Ogni progresso si è espresso in uno scontro dialettico tra i difensori di questa concezione – talvolta ottusamente ancorati al passato – ed i fautori di nuove tendenze, come il chiodo di assicurazione, il chiodo di progressione, lo stile himalayano e così via. Chi ha avuto ragione? I “conservatori” (come ad esempio Paul Preuss) hanno avuto il merito inestimabile di porre in primo piano l’essenza originaria dell’alpinismo, dove l’uomo sostanzialmente tende a migliorare se stesso in rapporto alla montagna e dove uomo e montagna restano i due soggetti insostituibili. I “progressisti”, dal canto loro, hanno invece dimostrato come una tecnica o un materiale più raffinato possano spostare i confini della sfida e aprire nuovi orizzonti, senza necessariamente tradire lo spirito originario. Entrambi hanno avuto ragione e un solo sconfitto esce miseramente dalla storia: il fautore del tecnicismo a senso unico. Tutte le volte che l’uomo ha cercato di addomesticare la montagna abbassandola al suo livello, tutte le volte che un materiale ha assunto il ruolo di prim’attore, l’alpinismo è stato umiliato e degradato al ruolo di attività secondaria. Credo che nella strisciante “guerra degli spit” abbiamo raggiunto il punto critico. I conservatori sono stati battuti su tutta la linea delle falesie, dove l’arrampicata sportiva rivendica legittimamente un’attrezzatura a prova di bomba. I progressisti “storici”, come Michel Piola, hanno dimostrato che si può ancora evolvere in linea con la tradizione, purché l’armonia della montagna non sia sopraffatta dai tasselli luccicanti piazzati dall’alto. Ma intanto l’onda delle falesie sale inarrestabile sulle grandi pareti e non trova altro contenimento che quello dei valori ereditati dal passato.

Sulla mitica parete sud dell’ Aiguille du Fou Pascal Colas e Philippe Grenier avevano trovato una nuova linea di grande fascino: “Les ailes du désir”. Ora l’itinerario è stato addomesticato con gli spit e Grenier scrive malinconicamente su “Vertical”: «Il mondo della falesia prende possesso del Fou. Io non dubito che questa attrezzatura apra le porte di una via magnifica, e che la collochi alla portata di numerosi arrampicatori che vi si esprimeranno con intensità, ma resta una questione importante che tocca l’essenza della montagna, e di conseguenza la verità che noi vi cerchiamo. Pensiamo veramente che l’uomo sia più forte della montagna, che Samivel abbia visto giusto nei suoi disegni e che questa montagna, considerata inaccessibile soltanto un quarto di secolo fa, sia diventata un alpinodromo da consegnare a coloro che vogliono viverlo senza il sale dell’avventura e senza la sua ricchezza?».

E’ tempo che i “conservatori” come Grenier facciano sentire la loro voce. Se l’intermediazione culturale di chi ha compreso il senso della storia non si sovrapporrà alla sportivizzazione a tutti i costi, le montagne non potranno che trasformarsi in una grande arena dove i defunti valori dell’alpinismo aleggeranno come retaggi preistorici. Non si tratta di vagheggiare o meno il bel tempo che fu: si tratta semplicemente di scegliere tra un’attività e l’altra, tra una storia e il suo contrario. Ognuno è libero di pensarla come vuole, ma nessuno ha il diritto di mischiare le carte a tal punto da confondere una fila di spit con una linea di fessure.

Enrico Camanni

Note del Birillo.

Cercando immagini della Aigulle du Fou mi sono imbattuto in una foto che è leggendaria. La foto che ho inserito mostra gli apritori della Via americana, da sinistra: John Harlin, Tom Frost, Gary Hemming e Stewart Fulton al Rifugio de l’Envers des Aiguilles nel 1963. Qui sotto invece trovate le principali vie sulla Aigulle e più sotto un vecchio articolo pubblicato su “Cima”. 

Aiguille du Fou Parete sud

  • Cresta sud-ovest – agosto 1933 – Prima salita di Pierre Allain e Robert Latour, 135 m/TD-.
  • Voie des Genevois – 18 luglio 1937 – Prima salita di René Aubert, René Dittert, Marcel Grütter e Francis Marullaz, 500 m II/D.
  • Classica americana – 17 e 25-26 luglio 1963 – Prima salita di Tom Frost, Stewart Fulton, John Harlin e Gary Hemming, 300 m/ABO, 7c max, 6a obbl.
    27 luglio 1983 – Prima salita in libera di Eric Escoffier e P. Mailly.
  • Les ailes dù desir – 1988 – Prima salita di P. Grenier e P. Colas, 300 m/ABO, 7c max, 6b+ obbl.
    1991 – Prima salita in libera di Eric Escoffier e Alain Ghersen

L’Aiguille du Fou

L’Isola dei Bambini

L’Isola dei Bambini

Bruna aveva bisogno di riposare, in qualche modo la luna piena aveva reso inquieto il sonno di tutti. Così, per lasciarla un po’ quieta, ho preso la nanerottola, l’ho infilata nello zainetto e sono uscito a far due passi. Quattro anni fa, appena arrivati a Valmadrera, un amico di Bruna venne a farci visita, con la moglie ed un bimbetto neonato. Aveva appena comprato uno zainetto porta-bebè e voleva provarlo con una piccola escursione. Non sapendo dove andare tutti insieme – disertando la supergettonata SanTomaso – avevo proposto di andare fino a Preguda per osservare Lecco ed il lago dall’alto. Il ragazzo è un coscritto di Bruna e quindi aveva circa dieci anni in meno di quanti ne abbia io oggi. Nonostante questo ricordo che arrivò alla chiesetta di San Isidoro completamente demolito e stravolto dalla fatica. “Vecchio, non obsoleto!”. Bene, io credo che i vecchi abbiano un istintivo bisogno di dimostrare ai giovani di non essere obsoleti. Questo istintivo bisogno li spinge a fare le cose più insensate e spesso dannose – tra queste vi è sicuramente arrampicare con il trapano sentendosi ganivelli di talento. Tuttavia, per quanto esecrabile, questo istinto colpisce più o meno tutti, me compreso. Infatti, da quel giorno, quando ho un paio d’ore per andare a spasso con la nana in spalla, la mia prima meta è sempre Preguda, ovviamente cerco di arrivarci sempre prima, sempre più in fretta, sempre più fresco ed ovviamente non faccio la “normale”, ma la diretta dal lago, quella “bella ripida”. Ormai anche la nanetta l’ha capito e si gode il tratto in piano osservando le pecore, le piante, i fiori. Quando iniziano i ripidi tornanti, quando la “giostra-umana” comincia a rimbalare sempre più lentamente tra sbuffi e sospiri, semplicemente si appoggia in avanti, con la testa sulla mia nuca, e si addormenta. Si sveglia solo sul prato di Preguda quando, appoggiato lo zaino, la sdradio sull’erba preparandole qualcosa da mangiare. Francamente non c’è un sentiero “sensato” da fare per raggiugnere Preguda con un carico “pesante” e “fragile” sulla schiena: il sentiero è troppo sconnesso, in alcuni punti sassi e rocce affioranti richiedono passo saldo e, nel caso del sentiero del lago, cadere e perdere l’equilibrio significa “rotolare abbasso”. Quindi non prendete il mio come un consiglio. Tuttavia la cappelletta di San Isidoro è stata costruita a ridosso di un grosso masso erratico che, in epoca antica, era sede di un culto pagano, un idolo alla fecondità. Il prato è sempre ben tenuto e siamo sulle pendici orientali del Moregallo. Quindi, per quanto mi riguarda, è un decisamente un buon posto. La nana apre da sola la tasca dello zaino e  si sbaffa una confezione intera di tarallucci accompagnandola con un succo di frutta. Di fatto è stata semplicemente seduta sulle mie spalle ma, a quanto pare, la faccenda le ha fatto venire un appetito da lupi. Così, finita la merenda, ci siamo fiondati verso casa fischiettando il motivetto di “Yellow Submarine” come una trionfale ed inarrestabile marcetta! We all live in a yellow submarine, yellow submarine, yellow submarine.

“…the Beatles were hard men too. Brian Epstein cleaned them up for mass consumption, but they were anything but sissies. They were from Liverpool, which is like Hamburg or Norfolk, Virginia – a hard, sea-farin’ town, all these dockers and sailors around all the time who would beat the piss out of you if you so much as winked at them. Ringo’s from the Dingle, which is like the f***ing Bronx. The Rolling Stones were the mummy’s boys – they were all college students from the outskirts of London. They went to starve in London, but it was by choice, to give themselves some sort of aura of disrespectability. I did like the Stones, but they were never anywhere near the Beatles – not for humour, not for originality, not for songs, not for presentation. All they had was Mick Jagger dancing about. Fair enough, the Stones made great records, but they were always s**t on stage, whereas the Beatles were the gear.” ― Lemmy Kilmister (Motörhead), White Line Fever: The Autobiography

Davide Birillo Valsecchi

Lo spit più alto d’Europa

Lo spit più alto d’Europa

Il giorno in cui Marco Anghileri cadde sul Bianco lo ricordo molto bene. Quel giorno di metà Marzo del 2014, Mattia ed Io avevamo ripetuto la nostra prima via sul Corno Orientale, il Diedro dell’Oro, una via del ‘39. All’epoca avevamo ripetuto alcune vie sul Corno Occidentale e sul Centrale, ma l’Orientale, con la sua grande onda, ancora ci incuteva timore. Superare il diedro ed il freddo di quel giorno plumbeo era stata una piccola conquista e non vedevo l’ora di raccontarla a Marco. Su internet erano arrivati i primi social ed i primi gruppi: lui era sempre disponibile ed attivo nel rispondere ai messaggi, specie se si trattava di arrampicata o di salite sulle Grigne. Soprattutto in quel mese di Marzo tanto carico di neve. Come dimostrano oggi gli AsenPark o i più giovani tra i Gamma, aveva sempre una parola d’incoraggiamento ed approvazione se ti cimentavi nella riscorperta delle classiche o delle vie meno note. Tuttavia quel giorno sapevo che non avrei potuto scrivergli, almeno non subito. Era sul Bianco e tutti davamo ormai per scontato il suo trionfale ritorno. C’era stato quel famoso messaggio SMS: “Sono nel posto più bello del mondo”. Su Facebook poi era un susseguirsi di esultanza da parte di chi lo seguiva con binocolo dal rifugio. Avrei dovuto aspettare la fine dei festeggiamenti per sottoporgli la mia modesta salita. Purtroppo le cose andarono però diversamente. Quando i giornali pubblicarono le foto che aveva scattato tutti erano sgomenti: quell’impressionante roccia rossa, il famosissimo autoscatto sorridente nella tenda. Ce ne era poi una che mi inquietava particolarmente perchè nella mia ignoranza non ero in grado di capirla appieno: “Lo spit più alto d’Europa”. Marco Anghileri era uno che in 24 ore ripeteva in fila 6 Cassin oppure 5 Bonatti oppure 3 vie del Det, senza tirare in ballo Marmolada, Civetta, Agner, ecc… Per molti di noi, soprattutto brocchi, era un “moderno eroe classico”, l’esempio da seguire mentre dolorosamente si prendevano legnate sulle vie con più di 50 anni. Quello spit mi inquietò perchè, sempre nella mia ignoranza, mi parve di cattivo auspicio, fuori luogo. Tuttavia, in quei giorni tristi, non poteva apparirmi diversamente: il grande Bianco, forse per gelosia, aveva rubato alla più piccola Guerriera un’altro dei suoi campioni.

Non avevo pensato a quello spit fino all’altra sera, quando sotto mano mi è capitata una rivista della Biblioteca Canova datata 1993: carta stampata vecchia ormai più di un quarto di secolo. Era il numero 103 di ALP e la maggior parte degli articoli erano dedicati al Pilone Centrale de Freney. Vi erano le foto in bianco e nero ed i racconti, ormai celebri, di Giampiero Motti che narravano le vicende del pilone dagli anni 60 fino alla fine degli anni 70. Sulla rivista vi è poi un articolo di Marco Ferrari che riprende il racconto della “Commedia del Pilone Centrale” dal momento in cui l’aveva lasciato Motti fino alla propria contemporaneità: “Spit, Concatenamenti, solitarie, record: quattordici anni di vicende nello scenario colorato e sfolgorante degli anni ottanta”. Da ultimo alcune interviste ai protagonisti di quegli anni, tra cui anche Michel Piola, apritore della Jori Bardill.

Consapevole di come parlare dei caduti sia sempre doloroso, spero di fare cosa gradita trascrivendo questi articoli e “tramandandoli” alle nuove generazioni, soprattutto a quelle che da Marco Anghileri hanno tratto insegnamento ed ispirazione.

  • IL PILONE CENTRALE
    Attraverso il decennio dei cambiamenti
  • Intervista Michel Piola
    Lo spit più alto d’Europa
  • Intervista Jean-Christophe Lafaille
    Alpinismo come solitudine

IL PILONE CENTRALE
Attraverso il decennio dei cambiamenti
di Marco Ferrari (ALP – 1993)

Alla fine, dopo l’interminabile attesa, dopo la salita, quando tutto è diventato ormai ricordo, si capisce che la montagna non avrebbe valore se non ci fosse l’uomo a darle vita. «Le montagne hanno il valore dell’uomo che vi si misura: altrimenti esse rimangono soltanto dei mucchi di pietre». Questa frase, espressa con un indubbio alito di retorica, è stata scritta da Walter Bonatti prima di interrompere bruscamente una carriera alpinistica piena di colpi di scena, di tragedie, di successi, (medaglie d’oro consegnate dal presidente della Repubblica) ma anche, come sappiamo, da pesanti polemiche. Walter diede un taglio netto e improvviso alla sua attività, come se le montagne avessero ricevuto a sufficienza il segno del suo passaggio. Le sue salite, come lui stesso diceva, hanno dato un alone di personalità a quelle pareti del Monte Bianco. Il Pilone Centrale non sarebbe certo lo stesso se non fosse accaduta la sua vicenda: ancor oggi da quel tragico luglio 1961, il grande pilastro sud del Monte Bianco è avvolto da una strana ombra, una sorta di cupa tensione. E poi i ricordi che escono dalle righe dei libri di storia dell’alpinismo: il bivacco della morte, la ritirata dai Rochers Gruber, le immagini in bianco e nero che ritraggono Walter con gli occhi pieni di morte e il volto smunto dall’improvviso dimagrimento mentre si butta tra le braccia della sua donna e dice «ci siamo salvati soltanto noi: Gallieni, Mazeaud ed io, i soli che avevano un amore e una donna che li attendeva a casa». E rimase appunto quella frase straziante (che non tutti sanno), sentenziata in quel solenne momento l’epilogo di tutta la vicenda, prima delle ormai note polemiche che seguirono. Da quel primo atto della “commedia del Pilone Centrale” sono passati trentadue anni e il ricordo della tragedia è ancora vivo anche se in qualche modo è inevitabilmente un po’ invecchiato. Altri uomini hanno dato vita a questo strano pilastro di protogino arancione, altri successi e altre salite sono entrati negli annali di alpinismo, e purtroppo anche altre tragedie si sono ripetute, ricordiamo anche quella del milanese Quario, e quella del solitario torinese Roberto Calosso nell’88. In questo secondo articolo sul Pilone Centrale del Fréney completeremo la ricostruzione storica, iniziata nelle pagine precedenti da Gian Piero Motti con il testo ricavato dalla sua monografia dei “Piloni” apparsa su “Scandere 1979”. Dal settantanove a oggi è rimasto un buco di quattordici anni. Un tempo complesso che ha visto il passaggio di più generazioni di alpinisti le quali hanno anche maturato vicende di grande valore storico. Ma è giusto ricordarci che fare la storia non significa riempire il tempo soltanto con le vicende di “valore” e con le relative date; la storia, come sappiamo, non è fatta dagli avvenimenti ma dalle trasformazioni e dai contrasti che talvolta gli avvenimenti comportano. L’occhio della storia cade sui contrasti e sulle contrapposizioni e in fondo sorvola sulle imprese che ricalcano orme già esistenti. Come insisteva Motti, bisogna dare senso storico alla nostra critica. Fortunatamente per chi scrive, la “commedia del Pilone Centrale” è passata attraverso gli anni ottanta, un decennio (in alpinismo e non) pieno di grandi cambiamenti e contrasti. A proposito di “senso storico” lo stesso Motti scriveva nella parte conclusiva del suo saggio sui Piloni del Frèney: «Alle spalle di queste ultime realizzazioni vi sono una preparazione metodica costante, aggiunta ad una disinibizione psicologica che va al di là di ogni ostacolo. E’ impossibile dire se essi sono più forti di quelli di ieri. Costoro ereditano tutto il lavoro di quelli che li hanno preceduti, vivono in un momento storico estremamente favorevole alle chiarificazioni, alle disinibizioni e alle liberazioni dei tabù interiori; ricevono un’energia che gli altri non hanno nemmeno immaginato di possedere e certo impiegano bene i loro talenti. Chi si trova a percorrere l’ultimo scalino pensi a come abbia potuto giungervi e pensi a chi lo ha innalzato fino a tale altezza. Ma gli uomini sono ciechi, un po’ stupidi per definizione e, da sempre, vengono ingannati da ciò che appare: non riescono a penetrare oltre. Così oggi (1979 ndr) alcuni imbecilli ridicolizzano le imprese fantastiche di ieri, incantati e sedotti dagli sfolgoranti successi di oggi. È triste e anche un po’ amaro che l’uomo manchi sempre di senso storico nella sua critica». Eccoci dunque a parlare del Pilone nello scenario degli anni ottanta, nel grande decennio delle trasformazioni. Sulle fessure del granito a quattromila metri le scarpette di gomma liscia prendevano il posto dei pesanti scarponi di cuoio Galibier o Scarpa, sul fondoschiena dei nuovi alpinisti apparivano grossi sacchetti ripieni di magnesite bianca leggera come la neve. In città gli yuppie allungavano le code agli ingressi dei cinema davanti ai cartelloni di Wall Street. Sulle spiagge si faceva il tifo alle prime gare di off-shore. Era il decennio dell’apparire, del tutto in vendita, dello spettacolo enfatizzato, della settimana-corso di sopravvivenza, del craxismo e del suo illusorio benessere, di una parentesi di pace internazionale. In montagna tutto questo fervore esplose in uno dei periodi più fecondi della storia dell’alpinismo. A Bardonecchia nel 1985 le prime gare di arrampicata fanno nascere un nuovo sport, l’arrampicata sportiva; sul Bianco nel 1981 Boivin e Berhault inaugurano ufficialmente le corse e i concatenamenti salendo in successione la parete sud del Fou e subito dopo, trasferitisi con un deltaplano, la Ovest del Dru. Sempre in quegli anni i soliti francesi, con Boivin in testa, perfezionarono, fino a renderlo commercializzabile, un nuovo tipo di paracadute che permette di buttarsi giù dalle cime appena salite: era nato anche il parapendio. Ma fu l’avvento dello spit sulle grandi pareti alpine che interessò da subito il Pilone: in quell’anno 1982 si iniziò la chiodatura sistematica di decine e decine di itinerari attrezzati con gli spit e con l’intento di facilitare le ripetizioni (ciò che fin da allora si cercava di evitare per fissare il “valore” dell’impresa anche nel futuro). Era quindi entrata una nuova concezione: aprire vie con l’intento di facilitare le ripetizioni. Proprio nel 1982 Michel Piola non si fece sfuggire l’occasione di tracciare un suo itinerario su quella magica via di salita verso la cima bianca d’Europa. Ventidue anni dopo la salita di Bonington e Whillans, uno svizzero, che diventerà il maggiore interprete di questa attività, piantò lo spit che è rimasto tutt’oggi il più alto del continente. Una via di concezione moderna che arriva alla soglia del 6c corre dunque, dal 12 agosto 1982, sulla sinistra della classica del ‘61; una settimana dopo quella soglia (di 6c) fu superata dalla stessa cordata Piola-Steiner sul Grand Capucin, a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla Chandelle, con la via Le voyage selon Gulliver divenuta in seguito una super-classica tra le vie moderne. Sul Pilone, l’itinerario chiamato da prima solo Direttissima poi Jòri Bardill rimase in ogni caso la nuova grande via di quel 1982. Ma come abbiamo detto gli anni stavano maturando sempre più per accogliere un alpinismo che oggi potremmo definire “sportivo”: nel 1985 nasce la rivista Vertical con la redazione a Chamonix, in contatto diretto con gli avvenimenti più importanti. Contemporaneamente nasce ALP, la rivista partner italiana. Carta patinata, foto a colori a tutta pagina vengono fatte passare come una sorta di vetrina dell’alpinismo fuori dal bar Choucas a Chamonix o sulla funivia del rifugio Torino che porta gli arrampicatori sotto i satelliti per ripetere, in giornata, la via Bonatti, o la più moderna O sole mio al Gran Cap. Il 1986 è il bicentenario della salita del Monte Bianco, l’88 il cinquantenario della Walker alle Grandes Jorasses, i nuovi nomi dell’alpinismo così detto di “punta” sono Christophe Profit, Eric Escoffier, Patrick Gabarrou, Thierry Renault, come abbiamo detto Boivin e nelle aperture di vie a spit Piola, Steiner, Vogler. Gli elicotteri accompagnano i “campioni” alla base delle pareti come le guide alla base del nostro Pilone; vedi il corso di formazione valdostano per una rapida ripetizione estiva della via di Bonington. A tutt’oggi le ripetizioni di guide con clienti sulla via classica sono rimaste ben poche, al massimo circa cinque a stagione; per la cronaca sono tutte francesi: nella celebre Società delle Guide di Courmayeur se ne contano ancora poche disponibili a portare clienti sul Pilone. Alcuni recuperi per mezzo dell’elicottero con il cliente “scoppiato”, ricordano quanto sia difficile per una guida lavorare sul Pilone. Sono gli anni dei concatenamenti in giornata: Walker e Croz sulla Nord delle Jorasses, poi il Dru per il Pilier Bonatti e per l’Americana, una sequenza di diverse combinazioni fantasiose all’insegna della velocità. E in questo contesto è inevitabile arrivare al logico ma straordinario concatenamento dei piloni del Fréney. Profit sale nell’estate ‘84: Nord del Pilier d’ Angle + Pilone Centrale via Bardill + via classica + cresta dell’Innominata con Thierry Renault in 22 ore. Ma più avanti in stagione sempre Profit, con Dominique Radigue, farà il più incredibile concatenamento di quella stagione: tutti i quattro Piloni del Fréney senza fermarsi. Pilier Nord o Gervasutti + Pilier Dérobé + Pilone Centrale via Bardill + Pilier Sud in 32 ore. La suggestione collettiva per quell’angolo “himalaiano” del Bianco e l’immagine mito del Pilone vengono così inevitabilmente incrinate. Anche se una certa parte della collettività degli alpinisti stenta a credere alla veridicità di queste imprese o per lo meno tende a ignorarle, sembra che gli enchaînement e le prestazioni a tempo record snaturino l’idea stessa di alpinismo. Lo stesso Bonatti commenterà con toni di disprezzo questo tipo di alpinismo “sportivo”. Intanto le ripetizioni della via di Bonington aumentano di anno in anno. Alpinisti da tutto il mondo si sparpagliano sulle Alpi in cerca delle più prestigiose ripetizioni; in quegli anni gli obiettivi più ambiti sono la Walker, l’ Americana ai Dru, la Nord dell’Eiger, la Nord del Civetta e non da ultima la classica del Pilone Centrale (di tutti questi grandi itinerari si perderà inevitabilmente presto il conto delle ripetizioni estive).

In inverno (stagione ‘89-’90) invece si registra anche la ripetizione della Bardill da parte di Alain Ghersen e Remy Escoffier, è una salita senza storia: rimane un avvenimento circoscritto a quella stagione invernale ma non aggiunge nessun elemento veramente innovativo alla “commedia del Pilone”. E il sipario si chiude così su un decennio di grandi cambiamenti; chi osserva attentamente lo scenario alpinistico capisce che dopo i concatenamenti solitari invernali di Profit sulle tre Nord (Eiger, Jorasses, Cervino) non c’è più niente di nuovo da dire, sembra (usando l’espressione alla Motti) che «non esistano più gradini da aggiungere alla scala» e che l’avanguardia in alpinismo sia ormai esclusivamente nei numeri, nei record, nella velocità e nei tempi delle ascensioni, già per altro ridotti al minimo. Ma nei primi anni novanta avviene una sorta di reazione: il cronometro e le tabelle dei tempi di velocità sembrano rimanere (tranne alcuni casi sporadici, vedi Berhault ‘92 in giornata sul Trittico del Bianco: Noire, Gugliermina, Pilone), un fenomeno circoscritto alle ripetizioni e al decennio passato. Quando il 15 agosto 1991 Jean-Christophe Lafaille attacca il Grand Pilier d’ Angle e poi il Pilone del Frèéney aprendo, da solo, due vie in successione in ben cinque giorni di scalata, sembra voler rievocare uno stile più “classico”, alla Nicolas Jager per intenderci che nel 1975 in due giorni e mezzo ripeté la Bonatti-Gobbi al Pilier d’ Angle e la classica al Pilone: o ad esempio le lunghe permanenze solitarie di Renato Casarotto che nel febbraio ‘92 ripeté in due settimane di solitudine completa la Trilogia del Bianco. Renato attaccava la classica al Pilone in severe condizioni invernali dopo undici giorni di arrampicata. Nel ‘91, la piccola guida di Gap porta a termine un’impresa eccezionale interessando, nell’ultima parte del suo viaggio solitario, il Pilone con l’apertura di L’écume des jours, un itinerario valutato 6c, A2, il terzo e l’ultimo a essere aperto sulla nostra montagna.

I grandi exploit si sono sovvrapposti uno all’altro al punto da farci inevitabilmente perdere il loro reale valore storico. Ma ritornando a un alpinismo più comune, quante sono ogni estate le ripetizioni “normali” della via classica? Dopo alcune ricerche ci risulta circa un’ottantina nel 1991, ma è difficile fare una stima precisa anche perché non esiste un solo punto d’approccio alla parete; il bivacco Eccles, il bivacco Ghiglione e quello della Fourche sono tre diversi punti di appoggio indipendenti tra loro che inevitabilmente fanno disperdere le tracce e impediscono un reale censimento. La scorsa estate, invece è certo, le ripetizioni sono state pochissime, anche perché le condizioni della parete sono diventate accettabili solo a fine stagione. Dunque, niente punti di osservazione privilegiati sul pilastro del Fréney: solamente nelle belle giornate di alta pressione, dal rifugio Monzino si può osservare quanti riescono a uscire sulla cresta di Brouillard. Tenere il conto però oramai non interessa più a nessuno, forse nemmeno ai redattori delle riviste specializzate.

Bonatti diceva che sono gli uomini a fare le montagne: oggi come abbiamo visto, su questo pilastro di granito, non è rimasta impressa solo l’ombra sinistra dell’avventura di quei sette alpinisti nel tempestoso luglio del 1961: innumerevoli ripetizioni, innumerevoli successi e prestazioni di alto livello hanno in qualche modo sbiadito quel ricordo di morte che avvolgeva il Pilone Centrale. In questi ultimi anni, grazie a una dimensione più disinibita nei confronti della montagna, siamo entrati in un’era nuova, in cui è veramente facile credere nelle proprie potenzialità di alpinisti: le riviste con gli elenchi strabilianti di successi dei “campioni”, gli allenamenti scientifici alla portata di tutti, la trave sopra la porta del bagno che promette la salita del 7b e delle grandi pareti senza il minimo sforzo. Tutto questo sfatare il “mistero” delle montagne facilita l’approccio alle pareti sgravando in un certo modo il carico psicologico e rendendo le grandi salite classiche alla portata di molti. Ma siamo sicuri che tutte queste forti certezze non si rivelino poi solamente illusione? Non può accadere che la realtà sia, al momento di partire, ben diversa da come la si pensava? Quando, in quelle notti di pace apparente, prima della salita, chiusi nei bivacchi dell’Eccles (o Ghiglione) si attaccano addosso i fantasmi dell’incertezza, allora tutto prende una luce diversa, allora si capisce che le proprie sicurezze non erano poi così inscalfibili. Nella notte di attesa si ritorna a sperare in quella sottile possibilità dell’improvviso arrivo del brutto tempo, come unica buona scusa per tenerci lontano da quel pilastro (in fondo a guardarlo bene così cupo). Invece al mattino aprendo la porta di legno foderata di lamiera del bivacco, un’altra alba chiara metterà fine alle incertezze; non ci sarà più tempo per pensare a nulla. Improvvisamente un precipitare di cose: tutto di fretta come se la salita fosse l’unica fuga per scappare dalle proprie paure. Via di corsa, la colazione, prepararsi, mettersi i ramponi, l’avvicinamento; l’unico scopo è arrivare presto in cima e magari dimostrare al compagno un po’ di sicurezza. Di sera, quando tutto il mondo sarà sotto i piedi, finalmente in cima alla Chandelle con le prime luci che cadono ad accendere Courmayeur, 3500 metri più in basso, allora si capirà che la “commedia del Pilone” era tutta solo un incantesimo, che il “grande mito” della scalata più alta d’ Europa era solo un’invenzione, ma un po’ è stato anche bello credergli lo stesso perché è proprio quell’illusione che è parte fondamentale di questo tipo di alpinismo.

Gian Piero Motti aveva perso la sua gara con il “mito del Pilone”, in quella sua notte di attesa avevano vinto le paure: il mattino preferì ritirarsi sulla cresta di Peuterey. Motti, come tanti altri, faceva dell’alpinismo anche per arricchire la sua conoscenza e affinare la sua ricettività verso se stesso; rinunciare al Pilone non significa che non abbia potuto afferrare il cuore di questa montagna di granito. Abbiamo pensato di passare attraverso i suoi scritti anche perché affacciarsi alla storia da una prospettiva diversa dal presente ci sembrava un metodo più imparziale, che in qualche modo rispettasse un certo senso storico. La sua penna e la sua sensibilità ci hanno trasmesso oggi quel segmento di storia lungo diciotto anni e tutto ciò che quell’ammasso di rocce «reso vivo dagli uomini» gli ha trasmesso.

Michel Piola
LO SPIT PIU’ ALTO D’EUROPA
di Marco Ferrari (ALP – 1993)

Entriamo nella casa dei suoceri di Michel Piola. Lo schiamazzo di una folta squadra di bambini che corre su e giù per le scale ci fa credere di aver sbagliato indirizzo e di essere entrati in un kinderheim estivo. Siamo a Leisyn nel Vallese svizzero, il nostro ospite è Piola, il precursore delle “spit-climbing” in montagna, mentre tutti quei bambini sono i suoi e dei suoi parenti. Al frastuono dei ragazzi ci deve essere abituato visto che come lavoro fa l’istruttore di ginnastica a tempo pieno. Le sue vie aperte in ottica moderna (dal basso, con il trapano e con forte uso di chiodi a espansione) sono innumerevoli. Solo l’anno scorso ha aperto 105 itinerari e ha piantato 1500 spit, per un totale di 350 lunghezze di corda. Nell’estate ‘93 sulla parete sud delle Petites Jorasses, in occasione dell’apertura della via Pantagruel ha scavato due appigli per evitare un passo in artificiale. Eppure anche Piola ha una sua etica ben definita: rispetto delle vie storiche e apertura rigorosamente dal basso. In quella famosa estate del 1982 -come abbiamo detto- diede il via alla “rivoluzione” e a quel nuovo stile di apertura (che comprende la nuova via Jòri Bardill sul Pilone). Il primo spit lo piantò nel 1980 sull’ Aiguille des Pélerins ma lui assicura che il primo chiodo a espansione della storia del Monte Bianco fu piantato non da lui ma da Gaston Rebuffat nel 1956 sulla sud dell’ Aiguille du Midi. «Dopo un primo tentativo, sbarrato da una placca non fessurata, Gaston andò dagli alpinisti ginevrini (che avevano una certa esperienza in fatto di chiodi a espansione che usavano già allora sul calcare di casa) a informarsi su come piantare il chiodo che gli permettesse di risolvere il suo problema». Ora su quella placca a 3700 metri di quota è rimasto solo un piccolo forellino (senza chiodo) che solleva a Piola la responsabilità di aver forato per primo (non per progressione artificiale, ma solo come punto di sicurezza) la roccia del Bianco.

Ora Michel ha trentacinque anni, molti capelli bianchi in testa (per la verità un po’ precoci), più di un decennio di attività come apritore che lo ha portato su tutte le montagne granitiche più importanti del pianeta, ha compilato circa cinque guide del Bianco sulle quali ha descritto il Pilone come una montagna “mitica” e di grande impegno; in realtà a voce userà aggettivi più pacati.«Bene Michel, raccontaci la tua salita al Pilone». «La Direttissima al Pilone rientra nel contesto di quelle salite “esplorative” dei primi anni, oggi apro di più su pareti minori (anche perché sono le uniche che gli sono rimaste a disposizione). Nel 1982 avevo arrampicato parecchio con Steiner, con lui avevo un affiatamento particolare. Pierre-Alain era molto forte su terreno misto e su ghiaccio, io di più su roccia. Avevo conosciuto Steiner al corso guida, io ero una giovane guida e lui era stato il mio istruttore. Aveva un’esperienza eccezionale (Nord delle Jorasses invernale), mi ha insegnato molte cose. Con noi due, in quell’occasione si era unito Jòri Bardill al quale abbiamo voluto dedicare la via: due anni dopo è morto anch’egli in montagna. Quei primi giorni di agosto il pilone non appariva nelle condizioni migliori. Una grande quantità di neve riempiva le terrazze ma noi eravamo decisi lo stesso a portare a buon fine il nostro obiettivo. A dire il vero il Pilone da sotto non ha un aspetto così feroce, anzi la soluzione del problema non ci sembrava tra le più ardue. Avevamo deciso di scambiarci il comando della cordata giorno dopo giorno. Il primo è toccato a Steiner poi a me e in fine la parte della Chandelle l’ha portata a termine Bardill. Il tempo per fortuna è stato dalla nostra e siamo arrivati in cima al tramonto del terzo giorno, avevamo piantato lo spit più alto d’Europa ed eravamo riusciti ad aprire una via sul mitico Pilone Centrale. Dopotutto non ci sembrava di aver fatto nulla di eccezionale». «Sei mai tornato sul Pilone?» «Sono tornato almeno altre tre volte per aprire qualcosa ma il tempo me lo ha sempre impedito». «Pensi ci sia ancora spazio per una via nuova sulla Chandelle?» «Sì, a sinistra senz’altro ma con qualche lunghezza in artificiale. A destra c’è una splendida fessura che Lafaille (nel 1991) forse non ha voluto aprire perché aveva fretta di uscire sulla cima». Lo stesso Lafaille ci darà una spiegazione diversa riguardo alla sua scelta di non toccare quella fessura. Per quanto riguarda Piola staremo ad aspettare le sue ultime realizzazioni sui Piloni, ma forse quelle salite ormai non faranno più storia.

Jean-Christhope LaFaille
ALPINISMO COME SOLITUDINE
di Marco Ferrari (ALP – 1993)

La piccola guida di Gap non riesce a distogliere lo sguardo dalla sua montagna in questa giornata di sole a Chamonix, la prima dopo un lungo periodo di bassa pressione. I suoi occhi fanno impressione, rimangono come incantati a guardare lassù-dove fra qualche ora porterà i suoi allievi guida dell’Ensa per un ultimo esame prima di rilasciargli il patentino. Il suo sguardo, i suoi occhi un po’ timidi, sono inebriati e ubriachi da chissà quali orizzonti. Ma come è possibile parlare di alpinismo romantico in questo decennio di confusione e di conformismo!? Con lui non abbiamo avuto il coraggio, anche se forse sarebbe stata la persona più adatta per parlare di cose che vanno oltre il grado e i tempi record di salita. Ed è significativo che la prima cosa che gli viene in mente di quella via nuova sul Pilone, è la notte trascorsa sotto la Chandelle. «La volta del cielo era tutta tempestate dalle stelle. A un certo momento mi è parso di vedere le mie montagne, il massiccio dell’Oisans, in quel momento, in quella solitudine immensa mi sono sentito ancora a casa tra le mie montagne e quelle del mondo». Il suo alpinismo è soprattutto solitudine, così sulla Nord delle Jorasses in inverno lungo una via nuova, così sull’8a+ di Réve de Gosse slegato in una palestra vicino a casa. Tre vie in invernale solitaria al Grand Capucin (Bonatti, Svizzeri, Diretta dei capucines con nuova variante di uscita), poi ancora l’ Americana alla Sud del Fou e ancora diverse altre sui Satelliti del Tacul sempre da solo e in inverno. Per la piccola guida di Gap le montagne sono ancora più alte, per la sua statura modestissima i sacchi da portare non sono più leggeri di quelli dei suoi colleghi, anzi sono alti come lui. Per questo ventottesimo anno della sua vita, Jean-Christophe ha fissato ancora un altro viaggio solitario su una via nuova lungo una parete del Cho Oyu, 8201 m. Ritornerà dunque in questa stagione post monsonica dopo la terribile avventura subita l’anno scorso sulla Sud dell’ Annapurna, nella quale perse la vita Pierre Beghin e a lui toccò una ritirata solitaria di tre giorni con un braccio fratturato. «Sono partito (11 agosto 1991) in completa solitudine senza elicottero e senza radio. Ho attaccato la parete est del Grand Pilier d’ Angle che già conoscevo». Era già stato su quella parete in occasione della solitaria della via Divine Providence, il primo giorno si è portato sotto lo “Scudo”. «Durante il secondo giorno c’è stata una brutta sbandata: su un tiro di artificiale mi cede un chiodo. Sono precipitato e ne ho strappati altri due. Per fortuna niente di grave, ho proseguito poi per altri tiri di A4. Il 14 agosto attacco il Pilone. La prima parte è già abbastanza impegnativa: 6c, A2. Il giorno dopo ancora una lunghezza di 6c mi conduce alla cima. Sono le cinque del pomeriggio e mi ricordo che avevo una specie di appuntamento con l’elicottero dei fotografi. Senza la radio nessuno mi ha potuto avvertire che per quella sera non sarebbe potuto arrivare, così mi sono messo a prendere il sole fino al tramonto, poi ho affrontato l’ultimo bivacco». «Come mai non hai voluto salire quella splendida fessura che si trova poco più a destra sulla Chandelle?» «Sì, ho visto quella bellissima fessura che dici, ma in realtà si tratta di una fessura cieca, non proteggibile solo con i friend. Ho quindi pensato di rinunciare piuttosto di piantare uno spit su una montagna così carica di storia». «Tu che hai portato a questo punto i livelli dell’alpinismo proprio in quella zona del Bianco, che tu definisci himalaiana, e così carica di storia, che atteggiamento hai nei confronti del passato?» «Mi sento come gli alpinisti del passato, non c’è differenza perché ho lo spirito di costoro».«Tu sei l’unica persona ad aver percorso tutte e tre le vie del Pilone tranne pochi tiri della Bardill. Quale ti sembra la più bella?» «Senzaltro la classica. La Jòri Bardill non mi è piaciuta, è troppo forzata e poi non sono interessato a percorrere vie con gli spit». Questa affermazione suona un po’ strana se si pensa che proviene da una guida francese, alle quali siamo abituati attribuire una certa leggerezza nelle questioni etiche. Eppure lui è un loro degno rappresentante visto che tiene i corsi di formazione professionale all’ Ensa. Durante questa estate di tempo inclemente rimangono pochi giorni per le salite, mentre parliamo il suo sguardo è ancora rivolto alla montagna. Presto ritornerà sulle pareti, dopo questa parentesi con il corso guida, Jean-Christophe si troverà ancora da solo, in piena autonomia senza radio, senza chiodi a espansione per un progetto proprio nella zona dei Piloni. Intanto a Chamonix circola la voce che c’è qualcuno che sta mettendo della resina sika sulla Ovest dei Dru e Lafaille ci ricorda che sulla classica Americana al Fou si scende in doppia sulle soste attrezzate a spit. Mentre sul Pilone brilla quello più alto d’Europa.

Addendum da Wikipedia: Nel dicembre 2006 Lafaill, che aveva salito 11 dei 14 ottomila, intraprese una solitaria invernale sul Makalu (8462 m). Il mattino del 26 si era accampato su una piccola cengia, circa 1000 metri sotto la vetta e con il telefono satellitare disse alla moglie che avrebbe provato a raggiungere la vetta quel giorno. Da quel momento non ci furono più sue notizie. Da solo e in inverno, senza nessun alpinista sufficientemente acclimatato per raggiungere il suo ultimo campo, non c’erano possibilità di soccorso. Il team del campo base perse le speranze di un suo ritorno dopo una settimana, e in seguito un elicottero cercò invano suoi segni sulla montagna. Il suo corpo non è stato ritrovato e i dettagli dell’incidente rimangono sconosciuti. Ha lasciato la moglie Katia e due figli.

«Trovo affascinante che sul nostro pianeta ci siano ancora luoghi dove nessuna tecnologia può salvarti, dove le persone sono ridotte alla parte più essenziale di sé. Questo spazio naturale crea situazioni impegnative che possono portare alla sofferenza e alla morte, ma anche generare ricchezza interiore. In definitiva, non c’è modo di conciliare queste contraddizioni. Tutto quello che posso fare è viverne ai margini, nel confine sottile tra la gioia e l’orrore. Tutto sulla terra è un atto di equilibrio.» Jean-Christophe Lafaille

L’alpinismo non è in casa

L’alpinismo non è in casa

Bruna stava mettendo a dormire la piccola Andrea: quello che fino a poco tempo fa era il mio studio, dove custodivo tutto il mio equipaggiamento, è ora la sua cameretta. Zaini, corde e cianfrusaglie varie sono ammassate in rigidi contenitori di plastica in un’altra stanza più piccola. Così, oltre a non trovare mai quello che mi serve, i gatti si rifanno le unghie su tutto ciò che riescono ad artigliare e riempiono di pelo tutto il resto. “L’attrezzo fa l’artista” e probabilmente l’attuale trascuratezza del mio equipaggiamento determina la mie già scarse potenzialità alpinistiche. Tuttavia la grande libreria è rimasta nella stanza originale ed in essa una vastità di libri e di riviste alpinistiche raccolte con Ivan Guerini per la “Biblioteca Canova”. Il guaio è che quando la nana dorme tutta quella mole di volumi diviene per me praticamente inaccessibile. Così, allestendo una specie di sotto-libreria temporanea, sposto a rotazione una ventina di volumi su una scaffalatura più piccola in bagno dove, contrariamente alla celebre canzone di Guccini, riesco ancora ad avere un mio momento. Il mio obiettivo è cercare un vecchio articolo di Messner sulle montagne africane (che Ivan mi chiede di trovare ormai da anni) o qualche interessante articolo da convertire in digitale.

Così, nella mia ricerca, mi sono imbattuto in un racconto decisamente interessante: uno spaccatto storico e culturale sull’arrampicata che spazia dagli anni ‘70 agli anni ‘90. Il racconto era pubblicato nell’Agosto del 1993 sul numero 100 dei ALP, una rivista specializzata attiva dal 1985 e per tutti gli anni 90. Il titolo era già tutto un programma ed il suo autore – ho scoperto poi – è un noto scrittore alpinista dell’epoca (di poco più giovane di mio padre e professore universitario).

L’alpinismo non è morto, è uscito un attimo
di Rudi Vittori (1993)

Il giorno che tolsi le Super Gratton dallo zaino e me le infilai ai piedi, i presenti non capivano precisamente quello che stavo facendo. ll sole scaldava con i suoi tiepidi raggi autunnali le rocce che dall’alto guardano le acque limacciose del lago di Doberdò e, più in la le acque azzurre del mare adriatico del golfo di Trieste. Me le aveva vendute Roberto Zannini, un compagno di naja, e diceva che erano appartenute a un suo amico, Heinz Mariacher che e aveva comperate in Francia. Eravamo nel 1979 e Mariacher allora NON era nessuno, e anche se avessi detto ai presenti che le scarpe erano state sue, cosa che mai ho potuto verificare, non avrei certo migliorato il loro giudizio sull’acquisto che avevo fatto. Facendo finta di nulla infilai quella specie di morse ai piedi e iniziai a salire una di quelle paretine che meglio conoscevo e la cui scalata mi era più congeniale.

Certo a vedermi salire come una papera, incerto sugli appoggi e in equilibrio assolutamente precario, non devo aver fatto fare una gran bella impressione alla scarpetta che, di lì a poco, sarebbe divenuta la capostipite di una generazione di calzature, attrezzo indispensabile e irrinunciabile di arrampicatori e alpinisti degli anni a venire. La gomma non era un gran che, la scarpetta era piuttosto rigida, ma era soprattutto il mio modo di salire, abituato a sfruttare gli appoggi in punta e alle mie Colorado color rosso fuoco, già allora mezzo numero più strette, che non mi permetteva di sfruttare le potenzialità di quell’attrezzo. I ricordi sfumano, ma credo che le scarpette siano tornate nel sacco per quella domenica pomeriggio, e non siano riapparse che alcuni mesi dopo, quando nelle domeniche invernali ebbi modo di provarle e riprovarle, nella tranquillità assoluta senza gente attorno. Le mie seconde scarpette furono un prototipo personale ricavato da una scarpa alta da pallacanestro con incollata sotto una suola di Airlite. La gomma magica mi era stata suggerita non so da chi, ma sembrava che fosse stata scoperta in Val di Mello, un posto abitato da strani tipi, forse drogati, sicuramente drogati, che salivano su placche di granito impensabili grazie proprio alla magica mescola.

Io e il mio amico Mario bigiammo un giorno intero le lezioni universitarie per cercare quella magica Airlite da tutti i fornitori dei calzolai di Trieste, prima di scoprire che si trattava di una comunissima gomma usata per le suole degli zoccoli da spiaggia. La gomma cocida venne dopo, tanto tempo dopo.I ricordi di quegli anni passano sfumando sulla parete della cantina, dove talvolta mi rintano a rivedere le diapositive, scattate a migliaia, nel corso del lungo viaggio che per vent’anni mi ha portato in lungo e in largo a scoprire le rughe più nascoste delle montagne alpine.

Un viaggio iniziato per gioco, tra i banchi di un liceo occupato, dove tra discorsi di libertà e di rinnovamento, tra l’invenzione di uno slogan e l’altro da cantare durante i cortei, spuntavano le copie degli schizzi delle vie, copiate al giovedì dalle guide consunte della biblioteca del Cai, e si decideva dove andare ad arrampicare la domenica successiva.

Un viaggio continuato durante tutti gli anni di Università quando, invece che seguire le lezioni di chimica o di fisiologia, percorrevamo i sentieri sassosi che portano all’attacco delle vie dolomitiche e rientravamo in città al momento giusto per riuscire a cenare alla mensa, dove conquistavamo le ragazzine con il fascino degli… occhi che hanno guardato l’infinito.

Una di quelle ragazzine me la sono portata anche ad arrampicare, e tra le quinte discrete della palestra di Rocca Pendice è sbocciato quel fiore che molti poeti han chiamato amore, e che a otto anni di distanza, ha generato due marmocchi che arrampicano come dei draghi sulle scale di casa nostra.

Ero ancora sui libri delle medie quando i primi brividi rivoluzionari del sessantotto percorrevano la schiena degli studenti di mezza Europa, ed ero matricola universitaria quando Lorusso cadeva in piazza a Bologna e il movimento sfociava nella lotta armata. Gian Piero Motti in quegli anni aveva pubblicato sulla Rivista del Cai ”1 Falliti”, e a tutti noi piaceva riconoscersi un po’ nel modello di alpinista rivoluzionario che sale le montagne per se stesso e per dare un senso ad un’esistenza altrimenti inutile.

Eravamo affascinati e nello stesso tempo sconvolti dalle affermazioni di Reinhold Messner e dalla puntuale messa in pratica delle sue teorie. Colti da raptus di emulazione mangiavamo spinaci anche a colazione, digiunavamo al venerdì e non cuccavamo mai a causa dell’alito che puzzava costantemente di aglio. Appena cinque anni dopo Reinhold ebbe la felice idea di farsi sponsorizzare dalla Also Enervit e allora, cambiata la dieta, riuscii anch’io a conquistare il cuore e tutto il resto, di qualche ragazzina che si chiedeva se per caso avessi cambiato dentifricio.

Verso la fine degli anni settanta, i venti oceanici portavano nelle nostre palestre le idee di quella popolazione un po’ pellerossa e un po’ hippy che si grattava le nocche sul ruvido granito della Yosemite Valley, e noi eravamo in bilico tra un recente passato culturalmente tradizionalista e le nuove idee che affascinavano non poco il nostro spirito rivoluzionario. Erano anni di grandi discussioni, sull’uso dei chiodi, sul clean climbing e, poi, ma solo più tardi, sul free climbing. Era il 1980 quando iniziai ad usare i nut, ma tenevo sempre i chiodi pronti nello zaino, avevo il sacchetto della magnesite, ma ci tenevo dentro i succhi di frutta e la cioccolata. Arrampicavo quasi sempre con Enrico Ursella.

Lo avevo conosciuto nel’76 quando aveva partecipato a un corso di roccia sezionale, ma a metà del primo giorno di lezione saliva già meglio di tutti. Io e Mario Tavagnutti, due veterani del corso del ‘74, ce lo facemmo subito amico. Non credo di aver mai litigato tanto con qualcuno come con Enrico. Se andava da primo non lo assicuravo abbastanza o gli tiravo troppo la corda, se da primo andavo io correvo troppo o andavo troppo piano a seconda di come lui svolgeva la corda. Assieme salimmo un sacco di vie, ma soprattutto prendemmo un sacco di pioggia, perché noi amavamo ancora la “lotta coll’Alpe, nobile come… eccetera eccetera” e partivamo con ogni tempo. Ma perché sto parlando di Enrico?

Un po’ perché non c’è più e a volte le litigate con lui mi mancano, ma soprattutto perché lui è stato per me il simbolo dell’arrampicata moderna. Non c’è stata tappa evolutiva in questo periodo che va dalla fine degli anni settanta al 1988 quando se n’è andato, che lui non l’abbia perseguita e non me l’abbia fatta notare.

A parte l’episodio isolato delle scarpette, che per primo importai nello zoo arrampicatorio goriziano, io sono sempre stato l’ultimo a venire a conoscenza e a utilizzare i ritrovati dell’industria che a mano a mano si creava attorno al grande circo verticale degli anni ottanta. Il primo friend l’ho usato nel 1982 sulla Ovest della Noire di Peutrey, e se Mountain Wilderness vedesse come ho ridotto la fessura per recuperarlo penso che mi brucerebbe la macchina. Al corso per Istruttore Nazionale mi è stato chiesto se con le mie piccozze ci zappavo l’orto, e penso sia stata la mia risposta un po’ affrettata a farmi ripetere la parte ghiaccio l’anno successivo. Ma d’altra parte ho sempre sostenuto e sempre sosterrò che il ghiaccio va bene solo nel whisky, e neanche troppo. Enrico invece era sempre primo in tutto. Per primo con la fascetta in testa, per primo con i pantaloni lunghi in tela, modello marinaio, per primo con l’imbrago basso. Quando finalmente anch’io optai per i pantaloni lunghi e larghi in cotone bianco, e la maglietta Pensa in Rosa, lui iniziò a mettersi i fuseaux.

Quando avevamo iniziato ad arrampicare tiravamo tutti i chiodi che incontravamo sul percorso, un po’ per provarli, ma anche perché non ci ponevamo assolutamente problemi etici. Poi ci fu la crisi mistica. Capimmo l’importanza dell’arrampicata pulita, naturale.

Ma mentre io comunque non mi facevo tanti scrupoli, e non ci pensavo due volte a tirarmi sui chiodi se ne sentivo il bisogno, lui era una specie di integralista islamico, non accettava deroghe. E giù a litigare sul terrazzino, sul perché avevo usato quel chiodo, che se passavo più a sinistra, come mi aveva detto lui, uscivo pulito. Per lui il passaggio alla falesia fu un passo molto breve.

Enrico, come molti altri sentì il richiamo dell’arrampicata libera. Iniziammo a visitare le falesie di mezza Italia, ma mentre io facevo volentieri dei resting sulle placche di 6c (sembrava tanto allora) a Finale Ligure, lui scopriva il Verdon e diventava sempre più estremista.

Iniziò a scoprire falesie nuove dalle nostre parti e cominciò a piantare i primi spit. Su questo non mi trovò mai d’accordo, ancora oggi sono triste quando vedo tante placchette luccicare su qualche bella parete, per me lo spit è sempre stato un ritorno all’artificiale, un mezzo senza il quale è impossibile progredire. Enrico invece era sempre più affascinato dalle salite in arrampicata libera, e nel suo entusiasmo coinvolgeva sempre più giovani che in quegli anni ‘84-’85 iniziarono a frequentare le palestre di Sistiana e della Costiera triestina.

Comunque si andava sempre in montagna, e si continuava a litigare. E venne il giorno che salendo verso l’attacco di una via sulla parete est del Monte Cavallo, una montagna che nei miei ricordi occupa un posto di particolare importanza, Enrico iniziò a parlarmi di una gara, di una gara che si sarebbe svolta l’anno successivo, una gara a cui forse avrebbe partecipato.

Avevamo iniziato molti anni prima ad arrampicare in scarponi, con gli zaini pesanti, ora eravamo in fuseaux, scarpette appese all’imbrago che salivamo quasi di corsa verso una parete dalla quale ero stato respinto soltanto una settimana prima da un passaggio di quinto grado.

Era stata la prima volta che sperimentavo sulla mia pelle la svalutazione del grado, così in voga tanto allora quanto di più adesso. Ero volato per dieci metri su un passaggio che era stato valutato di quinto, forse non ero molto in forma quella domenica, ma ancora oggi ho un ricordo allucinante di quel passaggio e non ho la più pallida idea di che difficoltà fosse realmente. Mi ricordo soltanto che giunsi in men che non si dica nuovamente alla sosta, proprio di faccia al Mario che con i due capi del mezzo barcaiolo in mano mi apostrofò con un simpatico “Sei già qui?”.

La domenica successiva non solo ripetemmo la via senza voli, ma aprimmo anche una variante che è ancoroggi valutata di settimo grado. La falesia era servita, Enrico in quel momento era su di un altro pianeta. L’anno seguente, nel 1985, partecipò alle prime gare a Bardonecchia. Voleva che ci andassi anch’io. A guardare naturalmente.

Era entusiasta, entusiasta dell’ambiente, del folklore, della gara. Io non riuscivo a capire, per me era assurdo, piazzarsi su di un muro liscio e vedere chi riesce a salirlo, in mezzo a una folla scalmanata che fa il tifo. No ragazzi non fa per me, avevo capito in quel momento che io e Enrico non avremmo più arrampicato assieme.

In quell’anno capii che l’arrampicata, che qualcuno ciecamente continuava a i chiamare libera, era diventata sportiva. E con l’alpinismo non c‘erano più legami.

Trovai compagni di cordata fuori dal mio ambiente, e in particolare nel 1986 feci una caterva di vie in Dolomiti con Riccardo Crepaldi, un vigile urbano di Adria che era sempre disponibile.

Ormai in falesia non ci andavo più, le poche volte che mi capitava di salire a Rocca Pendice per allenarmi, cercavo di evitare gli arrampicatori sportivi, per me era inconcepibile rimanere ore e ore a ripetere lo stesso passaggio, volare e ritentare, tornare a volare e tornare a ritentare.

In particolare fui colpito da un ragazzino, che adesso sembra sia diventato famo so, che vidi un giorno salire una via a Lumignano. Nelle tre o quattro ore che io rimasi lì lui era salito e sceso sempre sullo stesso passaggio a non più di un metro da terra. Tre mesi dope ritornai in quella palestra e lui era sempre su quella via, due metri più in su. Andammo assieme a bere una birra, lui prese del succo d’arancia per “… non accumulare Tossine”.

Oggi non arrampico quasi più, a parte qualche salto nella “mia” palestra di Doberdò, ma vado ancora molto in montagna, mi dedico alle vie normali assieme a mia figlia, ogni tanto faccio arrampicare anche lei. Ho chiuso salendo la Messner al Pilastro di Mezzo al Sass Dla Crusc, una via mitica negli anni in cui ho iniziato ad arrampicare. Il passaggio chiave non è mai stato ripetuto, e la via è completamente in libera e anche parecchio schiodata. È una via rischiosa, soprattutto nello zoccolo della parte inferiore.

Enrico non c’è più, Mario lavora e lo vedo poco, Riccardo continua a fare il vigile urbano a Adria, si è sposato pure lui e sono andato a nozze, due mesi fa si è rotto un piede perché gli è caduta sopra una statua di legno che stava scolpendo. Cesen nel frattempo ha salito la Sud del Lhotse e qualcuno ha detto che l’alpinismo è morto. L’alpinismo non è morto, è uscito un attimo, ma torna presto.

Rudi Vittori

Passo di Campagneda

Passo di Campagneda

Il piano originale era raggiungere la Sella del Forno, a 2769 metri di quota, per poi decidere se scendere in Svizzera verso l’omonimo ghiacciaio fino alla Capanna del Forno (2574m) oppure risalire verso la cima del Monte Forno (3213m). L’obiettivo era esplorare quella zona e meglio comprendere la tragica ed eroica fuga di Ettore Castiglioni. Tuttavia entrambe le opzioni prevedevano dalle 6 alle 8 ore di “esposizione” mentre le previsione meteo minacciavano precipitazioni e gelo tardo estivo. Giusto la settimana prima avevamo preso una ribattuta di grandine all’ex rifugio Scerscen e farsi sorprendere dalla neve di settembre sullo stesso passo che è costato la vita a Castiglioni sarebbe stato quantomeno irrispettoso, oltre ad essere una probabile batosta. Così, visto che aveva già iniziato a nevicare in quota – il Disgrazia era già avvolto nella bufera – abbiamo ridefinito i nostri obiettivi in modo molto più prudente. Anziché puntare ad occidente, verso Chiareggio, abbiamo deviato verso oriente e Campo Moro. Lasciata l’auto al primo parcheggio, ai piedi dello Zoia, ci siamo incamminati verso la seconda via. Ero ancora mezzo addormentato quando al parcheggio, in quel mentre preciso, è sopraggiunta una colonna di auto: con mia ingenua sorpresa era l’alpinismo giovanile del Cai Asso! Mi sono ritrovato davanti mia sorella, i miei nipotini, Simone e tutta la compagnia – una trentina tra adulti e bambini – decisi a raggiungere il rifugio Bignami (2387m) per trascorrervi la notte. Nemmeno dandoci appuntamento avremmo centrato il momento con tanta precisione!! L’idea di accompagnarli mi allettava ma il nostro piano puntava sul lato opposto del Lago di Gera: la Val Poschiavina. Sebbene il nostro percorso non fosse particolarmente impegnativo avevamo un finestra di bel tempo molto stretta per raggiungere il passo di Campagneda (2626m). La valle Poschiavina è molto più bella di quanto mi aspettassi ed il clima, opaco e costellato dalla prima neve, rendeva lo scenario incredibilmente “nordico” ed affascinante. Ma la fantasia correva come le nuvole ed il nevischio si faceva incalzante mentre risalivamo verso il Passo sulla piana di Campagneda. Giunti al cospetto della vedretta dello Scalino il tempo si è acquietato diventato quasi surreale: la tentazione di risalire verso il Monte Spondascia era incalzante ma dal Disgrazia avanzavano neri nuvoloni cariche di incognite e problemi. Così, dopo qualche foto, siamo serenamente scesi tra le vacche e le marmotte della piana sottostante, rientrando allo Zoia dal Cà Runcash. La pioggia, battente, ha cominciato a scendere solo quando ormai eravamo in macchina tra le gallerie di Franscia: tempismo perfetto!

Davide “Birillo” Valsecchi

Ex-Rifugio Scerscen

Ex-Rifugio Scerscen

Un tempo, quando la mattina facevo colazione con i Proto-Badgers, mentre ci si preparava per andare in montagna nello stereo risuonava sempre qualcosa di epico. Qualcosa tipo “Estasi dell’Oro”, la colonna sonora del duello finale de “Il Buono, il Brutto ed il Cattivo”, nella versione dei Metallica con l’accompagnamento della San Francisco Symphony (Link). Quando infilavi gli scarponi eri “carico” come uno spacca-montagne quattro-stagioni. Ora, da quando sono genitore, la prima a svegliarsi è la nanerottala e, prima di uscire in montagna, ingollo caffè e biscotti con l’accompagnamento di “Happy Morning Music – Hukulele” (Link). Forse è per questo che Niky, appena sono salito in auto, ha acceso a palla i Sabaton con una lezione di storia in formato Heavy-Metal Discovery Channel (Link).

Nonostante lo stridore di baionette e chitarre elettriche la nostra destinazione non era particolarmente “Cool o HardCore”. Certo, c’era i consueti 1500 metri di dislivello d’ordinanza (devo macinare passi per sistemare le caviglie), ma il percorso si snodava per lo più su una vecchia mulattiera in disuso che risale fino ai 2970 metri di quota dove, appollaiato su un ghiacciaio morente, si trova un rifugio abbandonato: l’ex-rifugio Scerscen.

Tutta la faccenda dello Scerscen mi affascina, è romanticamente decadente e distopica. Fu ideato negli anni ‘70 per diventare un polo per lo sci estivo in Valmalenco. Fu realizzata in economia la strada che porta ai piedi della cresta della Sassa d’Entova e sul crinale, in posizione panoramica sulla Vedretta di Scerscen inferiore, si costruì l’edificio che funzionò dal 1980 al 1985, prima di soccombere ai problemi economici ed al ritiro del ghiacciaio. Per tre anni provarono a tenerlo aperto come semplice rifugio ma senza particolare successo. La grande struttura è quindi chiusa da più di 30 anni, una cattedrale a 3000 metri che vacilla nelle fondamenta man mano che il ghiacciaio si ritira e perde consistenza.

Ero quindi curioso di osservare l’agonizzante vedretta e valutarne le vie d’accesso attraverso il cadavere di quello “sfruttamento-mancato” qual’è il vecchio rifugio/albergo. In realtà lo scenario del ghiacciaio è anche più sconfortante di come potessi aspettarmi: ero arrivato lassù fantasticando di raggiungere il Bivacco Colombo A. Bijelich, nei pressi del Passo di Scerscen a 3122 m, risalendo dal basso tutta la vedretta e navigando lungo le penisole detritiche. Tuttavia la scarsità di ghiaccio superava di molto ogni mia aspettativa: trovare il ghiaccio sembra impresa più ardua che evitarlo…

Le previsioni meteo erano state chiare: “prima o poi piove”. Per questo la nostra piccola escursione aveva una natura prudentemente esplorativa. Eravamo lì solo per fare un giro. Quando però ha cominciato a grandinare la situazione si è fatta divertente! A Lecco, 200m di quota, c’erano 34 gradi. A Chiesa Valmalenco, 900 metri di quota, ce ne erano 19. Ma lassù, a 3000 metri, ai bordi del ghiacciaio morente, fradici di pioggia e “granita”, eravamo decisamente distanti dalla calura di fine Agosto. “Colpa mia!” – ho sghignazzato con Niky – “Ho comprato un paio di pantaloni nuovi: era inevitabile succedesse! Spazziamoci da qui prima che ci si gelino le chiappe!!”.

Aspettare che “la venga buona” non è mai la mia soluzione preferita: ci siamo “tuffati nella grandine” ed abbiamo continuato a camminare cercando di scoprire se finiva prima la strada o la pioggia. Mille metri più sotto non aveva nemmeno piovuto e così, sdraindoci fradici tra i sassi ancora caldi, abbiamo mangiato un panino al salame buono come non mai!!

Preoccupati per il Global Warning? Se vi spaventa l’arretramento dei Ghiacciai sappiate che circa 7000 anni fa il Sahara era una foresta come l’Amazonia, era la “culla dell’umanità” ed ospitava due tra i più grandi laghi di acqua dolce del pianeta. Si ritiene che abbia impiegato meno di 150 anni per trasformarsi nel più grande deserto della Terra. «Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento.» Spalancate le vostre percezioni, oppure estinguetevi…

Davide “Birillo” Valsecchi

Foto: Nicola Bargna

Theme: Overlay by Kaira