I ricordi che non sbiadiscono
[Gianni Mandelli] Ci sono persone, appassionate di montagna, che per raggiungere un qualsiasi terreno di gioco devono svegliarsi di buon mattino e spostarsi in auto per alcune ore. Ce ne sono altre invece che appena svoltato l’angolo di casa si trovano già in montagna, dove possono camminare, arrampicare, oppure semplicemente perdersi tra creste e canali dove non esistono sentieri o itinerari tracciati. Essendo nato a Valmadrera, appartengo a questa seconda categoria, e anche se le montagne di casa sono di modeste dimensioni, penso di essere un alpinista fortunato, perché vivo a stretto contatto con un ambiente che mi dà la possibilità, anche nei ritagli di tempo, di stare in montagna. Non ho avuto bisogno di corsi o di particolari istruzioni per salire su queste rocce, l’istinto adolescenziale mi ha portato prima a scoprire gli anfratti più selvaggi, poi come in una naturale evoluzione a scalarne anche le pareti più repulsive. Ho avuto anche la fortuna, anche così si possono chiamare le molte primavere passate, di vivere epoche diverse, quando per esempio, nelle fessure larghe si piantavano cunei di legno e non si incastravano friends, oppure quando per fare un’assicurazione dinamica si metteva la corda in spalla. Tutto questo mi è stato utile in molte occasioni, perché il tempo non passa invano, ma lascia in tutti noi una scia di ricordi, che potrei chiamare esperienza. Proprio su queste “mie montagne” ho imparato a muovermi su terreni pericolosi, che oggi si chiamerebbero di avventura, dove le difficoltà maggiori non erano il grado, ma la continua esposizione a un rischio, non sempre calcolato. In queste scorribande giovanili osservavo attentamente le pareti e nella mia fantasia mi immaginavo già appiccicato a quelle rocce, poi gli amici e la passione per le scalate hanno fatto il resto. Ora mi ritrovo a sessant’anni suonati a fare i conti con questa continua voglia di montagna che si esaurisce solo dopo un’intensa giornata passata su una parete o sui fianchi di una montagna. Potrei fare un bilancio degli anni passati su queste montagne, e forse sarebbe anche ora, ma penso che ci siano ancora delle emozioni che mi aspettano nascoste in qualche fessura. Di conseguenza mi limiterò a raccontare alcuni episodi, recenti e passati, che ho condiviso con gli amici di una vita, che poi sono, o sono stati, i miei compagni di cordata.
26 Febbraio 2017.
Domani compirò sessantatre anni, ma ora sono qui in questo canalone carbonizzato dal fuoco sul sentiero che mi porta all’attacco della via GFOSA, sull’anticima N.E. del Moregallo. Quante volte ho già percorso quella via non lo so, e fino a quando il dottor Alzheimer non comincerà a farmi visita, continuerò ad affidarmi ai ricordi che con il passare degli anni non sono ancora sbiaditi. La prima volta è stata quando Romano(*1) mi ha invitato a ripetere con lui quella splendida via, che con Mosè (*2) aveva tracciato un mese prima. Loro a quell’epoca avevano 17 e 18 anni, ma oltre all’incoscienza dell’età, andavano come treni e avevano l’abilità degli operai metalmeccanici nell’usare martello e chiodi. Da allora sono passati quarantuno anni, ma ritrovarsi ad arrampicare su questo calcare verticale, con gli stereotipi dell’arrampicata moderna bene impressi nella mente, fa crescere a dismisura l’ammirazione per quei due “enfant terrible”. Mi è stato detto, che non ci sono vie nel lecchese che conservano l’intensità e l’incertezza come quelle del Moregallo, e anche se personalmente l’ho sempre pensato, continuo a notare che se non ci ritorno io su queste pareti non ci va nessuno. Ci sono ritornato talmente tante volte che mi è difficile mettere in fila cronologicamente le giornate che ho passato su questo scoglio, però alcuni ricordi rimangono indelebili, come quando sempre con Romano decidemmo di piazzare almeno uno spit a sosta. Successe che stavo forando la roccia all’ultima sosta ed eravamo appesi entrambi ai due chiodi, che erano collegati, quando il chiodo al quale ero appeso cedette e mi ritrovai sotto il tetto. Con una calma olimpica Romano mi recuperò di nuovo in sosta e con una fretta indiavolata continuai a forare la roccia, rimanendo entrambi appesi a un solo chiodo, fino a quando riuscii a piantare lo spit. Un altro ricordo indelebile è legato a Paolino “Cipo” Crippa, forse il più grande fuoriclasse dell’alpinismo valmadrerese, con il quale ho avuto la fortuna di arrampicare nei primi anni del suo alpinismo. Sicuramente fra non molto arriverà qualche campione che riuscirà a percorrere completamente in libera la GFOSA, ma Paolo, nel 1983, riuscì a liberare tutta la via, tranne un solo passaggio e a darne una valutazione ancora oggi molto severa. Poi altri ricordi nitidi di altre ripetizioni con compagni di cordata giovani e meno giovani, che ancora oggi si ricordano di quella via e di quella parete. Ora mentre mi avvicino alla parete quei ricordi si allontanano e lasciano il posto al presente. Josef (*3), il mio attuale compagno di cordata, durante l’abbondante ora di cammino si è già fatto un’idea di che cosa lo aspetta e si avvicina a questa piccola parete con un po’ di timore reverenziale. Nel disfare lo zaino mi accorgo però di avere dimenticato l’imbrago, che strano penso al dottor Alzheimer che nel caso dell’imbrago non è la prima volta che mi fa visita. Comunque in quattro quattr’otto risolviamo tutto, Josef si sacrifica ad arrampicare con una fettuccia come cosciale e la corda in vita, ed io con il suo imbrago mi sono goduto per l’ennesima volta questa splendida via.
Ottobre 1976
Con Romano ho un progetto ambizioso, scalare la sezione di parete del Corno Orientale che c’è tra il diedro della via Dell’Oro e gli strapiombi della Via Don Arturo Pozzi. E’ la fine di ottobre e veniamo da un’intensa stagione di arrampicate e anche di nuove vie. Siamo entrambi molto giovani, lui ha 18 anni ed è fortissimo, io quattro più di lui. Stiamo attaccando la parte superiore della via che si snoda sopra la grande cengia della Dell’Oro, dopo avere salito la settimana precedente la parte inferiore. Questo tiro tocca a me. Arrampichiamo con materiale e abbigliamento in fotocopia, stesse scarpe (rigide), stesse corde, stessi vestiti, solo il casco ci differenzia. C’è un piccolo tetto da superare in partenza che mi impegna parecchio, pianto un chiodo, mi alzo sopra il tetto e all’improvviso spariscono tutti gli appigli. Dopo qualche minuto passato a “ravanare” a destra e a sinistra volo, Romano mi tiene (a spalla ovviamente), ma in mancanza del casco, che aveva appeso all’imbrago, batte la testa sotto il tetto. Vengo calato sulla cengia e una voce fuori campo dice: “Bravo bel volo”. Alzo lo sguardo e sul lato opposto della cengia spuntano tre persone che conosciamo benissimo, essendo nostri amici, e in quel caso anche competitori. La loro idea era quella di salire la nostra stessa linea, ma siamo arrivati prima noi, perciò continueremo, a dispetto del volo e della testata. Riprendiamo l’arrampicata e con molti sforzi conditi da intense emozioni arriviamo in cima nel tardo pomeriggio. Siamo strafelici, con l’andrenalina a mille per colpa di un paio di tiri al limite del volo, però abbiamo fatto una via con solo una ventina di chiodi su duecento metri, su una parete in gran parte strapiombante, il contrario di tutte le altre vie di quel livello di quel periodo. Raggiungiamo il rifugio, che per caso è ancora aperto, e a credito, perché siamo senza soldi mangiamo qualcosa e beviamo molto, anzi troppo, ed ormai è buio. Scendiamo sotto la parete per recuperare gli zaini, che abbiamo gettato dalla cengia sul ghiaione, e non li troviamo. Siamo sicuramente ubriachi e ci imbattiamo per caso, dopo più di un’ora, negli zaini prigionieri di un boschetto, li riempiamo con il materiale e rotoliamo a valle.
Settembre 2015.
Dopo tanti anni quelle emozioni le avevo ancora sulla pelle, e per riprovarle nel trentanovesimo anniversario della prima salita sono andato a ripetere quella via che negli anni aveva accumulato una cattiva fama, e in totale aveva solo sei ripetizioni. Nel frattempo, però, due giovani avevano pensato di renderla sicura mettendo qualche chiodo in più. L’arrampicata si è svolta senza particolari emozioni, e alternandomi con il mio giovane compagno di cordata ho apprezzato la bellezza dell’itinerario. Qualche chiodo in più e tanta tecnologia (friends) hanno tolto gran parte delle emozioni, ma ritornare su quella parete per me è stato come rompere un incantesimo che durava da tanti anni e che solo ora, dopo quella ripetizione, riesco a raccontare.
Giugno 2004.
Franco (*4) è andato in pensione da poco ed ha elevato a suo luogo ricreativo il versante Nord del Moregallo. Con i suoi ritmi frenetici è salito e ridisceso per i canali che separano creste e pareti ed ha esplorato boschi pensili che raramente vedono la presenza umana. Quando invece sta al timone di qualche barca che veleggia sul lago riesce anche a disegnare nuove linee di salita sulle pareti. E così ha cominciato a portarmi sotto la parete nord e a indicarmi una linea di salita logica, ma che si interrompeva in una zona strapiombante e compatta. In quel periodo, per mille motivi, che poi sono i soliti di chi va in montagna solo nei fine settimana (lavoro, famiglia, ecc ..), riuscivo ad arrampicare a malapena una volta a settimana, dopo un inverno senza nessun allenamento. Non volevo di conseguenza impegnarmi su una parete così difficile, magari sacrificando gran parte della primavera in tentativi. Non mi sono mai piaciute le vie aperte a rate e, trascinare nel tempo un sogno serve solo a snaturare il sogno stesso, perciò cercavo di rimandare sempre al mittente le richieste di Franco. Poi un giorno mi chiama e mi annuncia che ha già salito da solo i primi quaranta metri e la mia domanda è spontanea “Come sono?”. La risposta la sapevo già: “Belli”, ma come belli mi sono detto, se i primi metri sono più erba che roccia. Il suo tentativo di coinvolgermi era talmente evidente che mi sono lasciato scappare una promessa: “Non questo, ma il prossimo fine settimana ci andiamo insieme”. Ma lui bruciava dalla voglia di salire su quella parete e al sabato successivo era di nuovo lì con due giovani che aveva reclutato la sera precedente al CAI. Quel tentativo finì subito a causa di un suo volo, dovuto alla rottura di una vite artigianale di uno spit. “Ma quando torniamo sabato”, mi disse, “cambio la vite e ne metto una ad alta resistenza”. E il sabato successivo eravamo lì, sotto la parete, con noi c’era anche Carlo Caccia che voleva provare l’emozione di scalare su una parete vergine. In poco tempo risolvemmo i primi quattro tiri, che sono il piedistallo della parete vera e propria, quindi raggiunta la cengia scoprimmo che nella parte destra della parete era impegnata un’altra cordata, anch’essa con l’intenzione di aprire una nuova via. Quel giorno riuscimmo a salire un altro tiro sopra la cengia e poi calandoci incontrammo i due ragazzi di Valbrona che arrampicavano di fianco a noi. Per una strana e remota coincidenza due cordate si incontravano nello stesso giorno, dopo una ventina d’anni dall’ultima ripetizione della via OSA, l’unica esistente su quella parete dimenticata. Ci complimentammo con Giulio (*5) e il suo compagno, che poi riuscì, dopo qualche anno, nel suo intento di tracciare una nuova via in quella sezione di parete. Il nostro progetto però non poteva aspettare e il sabato successivo eravamo di nuovo in parete per affrontare la sezione più difficile, che ci impegnò per parecchie ore senza però risolverla definitivamente. Il superamento di una placca compatta mi respinse, soprattutto perché non riuscivo a intravedere la possibilità di proteggermi adeguatamente e probabilmente anche lo scarso allenamento limitavano le mie capacità. La domenica successiva ero febbricitante, ma due aspirine prese la sera precedente mi diedero l’energia necessaria per superare quella placca, per poi proseguire alternandomi sempre con Franco fino alla grande cengia. Le difficoltà a quel punto diminuiscono, ma non terminano, perché per uscire dalla parete bisognava superare anche un pericoloso tratto di rocce rotte con erba che portava al sentiero di discesa. Poi, raggiunta la strada, e seduti davanti ad una birra abbiamo realizzato quanto quel giorno avevamo fatto, una via di 11 tiri sulla parete nord del Moregallo, rispettando la conformazione e la struttura della parete stessa, cioè senza forzare con mezzi artificiali i tratti più impegnativi, nella scia delle nostre idee e della nostra tradizione.
Gianni Mandelli
Nomi completi:
- Romano Corti
- Mosè Butti
- Giuseppe Prina
- Franco Tessari
- Giulio Zappa