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La Grande Cengia Verde

La Grande Cengia Verde

“What have been seen cannot be unseen”. Quasi tutte le mattine, da quando vivo a Valmadrera, esco di casa e mi incammino verso la mia “Subaro Impreza 2001”, l’auto più vecchia e scassata di tutto il parcheggio. Alzo lo sguardo e butto l’occhio verso le pareti del Coltignone che, sull’altro lato del lago, troneggiano davanti ai miei occhi. Quasi tutte le mattine guardo quella muraglia di roccia e mi chiedo “Ma ‘sta cengia verde?”. Trasversalmente sulla parete vi è un’evidente linea verde che, seguendo un’ancestrale movimento geologico, disegna un cammino di piante attraverso la roccia. “Come si fa a non vedere una cosa simile?”. Chiedo spesso a qualche amico, ma la risposta è quasi sempre la stessa: “Birillo, che senso avrebbe passare di lì?”. Quale è il senso? Dannazione, non la vedi? Perchè è lì stampata, in bella mostra davanti agli occhi. Nella mia mente percorro quella cengia in un tripudio di corde e fettucce che, appese alle piante, tracciano un fotonico traverso degno della Prima Guerra Mondiali. Perchè? Perché è lì…Dannazione! Perchè è lì e non posso fare a meno di vederla! Forse ho la stessa sindrome degli orsi: dicono infatti che i plantigradi siano abituati a seguire pedissequamente invisibili sentieri nella foresta e che per questo, quando si confondono con le strade dell’uomo, finiscano per cacciarsi nei guai in città. Così non mi resta che rimuginare attendendo il giorno, che potrebbe tranquillamente non arrivare mai, in cui andrò lassù a vedere di persona.

Per certo conosco alcune persone che, nei tempi andati, hanno intersecato la cengia risalendo integralmente quelle pareti. Tuttavia non conosco nessuno che l’abbia mia percorsa tutta o almeno in parte. Magari esistesse! Sai quanti problemi mi eviterebbe! Ma niente, nessuna informazione. Una faccenda un po’ sorprendente, soprattutto perché la base della parete in questione pullula ormai di falesie sportive di ogni tipo, ma sembra che nessuno di quei numerosi frequentatori abbia mai alzato lo sguardo oltre la prima lunghezza di corda. Niente, nessuna informazione utile. Ovviamente, quando e se attraverserò la cengia, apparirà una fila di gente pronta ad abbaiare che della cengia c’è già persino la relazione, scritta in geroglifico antico, che la cencia è già percorsa con i Koflak, in solitaria bendata all’indietro senza più le mezze stagioni… Niente di nuovo sotto il sole del Lario.

Che io osservi la cengia dal Moregallo o dall’amaca sul mio terrazzo, sono sempre scarsi i dati che posso ottenere dal Basso, specie nella complessa prospettiva di quei luoghi. Anche dall’Alto è difficile acquisire informazioni, spingersi sul ciglio del bosco a strapiombo sulla parete non aiuta, in nessun senso. A dar man forte alla mancanza di coraggio e fantasia contemporanea può provvedere la tecnologia, a colpi di foto aree rielaborate come proiezioni tridimensionali: “GoogleEarth, da Giavacca alla Patagonia, il mondo in una scatola 3D”.

Ciò che ne emerge è incredibile. Innanzitutto la cengia esiste, ed è molto più marcata di quanto avrei pensato. Inoltre è possibile trovare riferimenti con il Sentiero dei Pizzetti, rilevando che la cengia è molto più “vicina” di quanto potrebbe sembrare. Il canale che scende dal Rifugio piomba direttamente sulla cengia ed è incredibile che nessun “supernacio” con il trapano si sia calato dal sentiero nell’anfiteatro che caratterizza la parte più alta della cengia. Droni e paracadutisti? Niente supereroi moderni per la misteriosa cengia? Dovrò mica andarci davvero io?

O forse mi sbaglio, e quella cengia misteriosa è in realtà nota e stranota ed indegna di interesse alpinistico in quanto “inutile ravanata priva di grado ed estetica”. Anche in questo caso non sarebbe niente di nuovo sotto il sole del Lario. Vediamo un po’ cosa abbocca…

Davide “Birillo” Valsecchi

E chiudiamo con un po’ di punk-rock perchè, fanculo, il punk-rock è lì che aspetta… come la cengia!

Dascio – Novate Mezzola

Dascio – Novate Mezzola

“L’Autorevole Birillo” mi definì tempo fa, con evidente intento denigratorio, un “vecchio con il trapano”, uno di quegli opachi altruisti che esplora, scopre, attrezza, pubblicizza e reclamizza all’uso ed al consumo delle masse le segrete meraviglie dell’arrampicata. Meraviglie che, in verità, erano già note da tempo e nella loro integrità risalite senza ammenicoli a batteria o patacche di sorta. Che poi, in vero, l’arrampicata si dimostrerebbe gran poca cosa se necessitasse di essere valorizzata – termine inquietante – da cotanta mediocrità. Io stesso, se così fosse, dovrei accettare di aver a lungo sprecato tempo e coraggio attribuendo erroneamente ad un inutile passatempo, oggi tanto in voga ed addomesticato, un senso più profondo che non gli apparterrebbe. Ma io, ahimè, sono più spesso autoritario che autorevole e quindi il mio pensiero, “Huginn”, è di poca utilità. Ciò che più conta è “Muninn”, la memoria. In questo senso io sono solo un viandante, uno sciocco che raccoglie testimonianze di ciò che fu e ciò che ancora può essere. Lo scritto che segue è di Giorgio Gobbi, storico compagno di arrampicata di Ivan Guerini sia sulle sponde del lago di Mezzola che nella valle degli specchi. Cercando nel mio archivio una foto di Giorgio è apparsa l’immagine qui sopra: un disegno di Guerini tratto dal suo ultimo, e ancora poco noto, libro sulla val di Mello. Il disegno mostra infatti una via che hanno tracciato insieme: “L’uomo deltoide del XXI° secolo” – I.Guerini, G.Gobbi – settembre 1981- 45 m – VIII°. La Valle qui centra poco, forse niente, forse è solo un’altra “svista climatica”, ma il disegno di Ivan, nella sua tipica semplicità, mi è subito piaciuto. Lo scritto, inviatomi per posta come molti altri prima di questo, parla invece delle pareti che scendono sul lago e che ora, i soliti noti, stanno “rivalorizzando” con la consueta ottusa ciecità di chi non capisce e non vuol capire.

Curiose contorsioni viste oggi, quelle che facemmo una mattina di ottobre per raggiungere in barca da palude la struttura a picco sull’acqua del lago di Novate Mezzola. Già remare si deve fare alla veneziana in avanti, il fondo piatto del sandolino non taglia l’acqua ma sembra voler spostare tutta quella che gli si para innanzi, insomma uno sforzo notevole unito ad una nostra tecnica remiera approssimativa porta ad un risultato accettabile solo perché ci permette di avvicinarci alla parete dopo oltre un’ora dalla partenza da Dascio. Ma che parete è? Una mezza volta di cattedrale gotica, con un doppio fondale percorso da una fessura segnata da massi incastrati su cui avevano in passato nidificato i gabbiani, come testimoniato dalle strisce biancastre che verticali rigano il granito. Il termine 40 metri più in alto, 8 a destra e 6 fuori dalla verticale della sosta su barca, al più grande dei blocchi incastrati: se la campata del mezzo arco acuto avesse una sua parte opposta discendente a completarla, sarebbe iniziata in quel preciso punto.

Ivan salì da primo, assicurandosi dove la natura minerale aveva lasciato rade discontinuità nella omogeneità cristallina, abbracciando con robuste fettucce le pietre incagliatesi nell’intaglio della gola rocciosa, ricorrendo a camme espandibili che in opposizione fra loro colmano lo spazio vuoto fra due rupi eroso nel fluire delle ere geologiche, su fino alla termine delle linee di volta: non rammento se poi seguii oppure Piera, ma la sosta instabile ed angusta e poi la discesa a corde doppie fino a risalire sulla barca, e di ritorno a Dascio questa volta con un po’ di brezza a increspare l’acqua del tardo pomeriggio.

Il primo incontro fra essere umano e natura, in un puntuale irripetibile istante della loro esistenza, avvenne grazie all’interpretazione dei segni della linguaggio della roccia che l’uomo aveva appreso fin lì nell’intenso volgere del suo tempo. Questo è un appiglio, potrà aiutarmi nel traslare verso un futuro il mio corpo, quest’altro è troppo liscio per affidargli il desiderio di movimento, ma carezzarlo potrà darmi comunque una gradevole sensazione tattile che seppur inanimato non risulterà sgradita neppure al ricevente, poco oltre la fessura opportunamente sfruttata darà sollievo al desiderio di sicurezza. Arrampicare è tutto ciò, stupore e curiosità del mondo, capacità di ascolto e di risposta, ammirazione e interpretazione dell’esistente. E forza morale interiore, l’unica nostra risorsa che possiamo paragonare alla meraviglia insondabile di un cielo stellato.

Il presente che passa genera nostalgia di se stesso, non solo per metafora ma come atto deliberato di reazione spaventata all’invecchiamento che ne è sottinteso, il debole altera lo stato originale del circostante convinto di plasmarlo al suo desiderio di eternità: se decide di salire su roccia fora, scalpella, talvolta aggiunge: modifica l’esistente per ancorarsi ad un presente già obsoleto, ansioso di obbedire a regole di convenienza e miope profitto. Qualunque sarà il futuro di queste strutture discontinue, magma o sabbia o lapide edile, cesseranno memoria e significato dell’oltraggio adattativo subito, e sul loro autore l’oblio pietosamente stenderà il proprio velo, opaco ed eterno.

Giorgio Gobbi

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Oriente ed Occidente

Giunsi tardi al rifugio; anche colà si ragionava delle Torri di Vajolet fra i bicchieri colmi attorno ad una buona cena; v’erano Ugo e Tita ed altre guide che facevano corte d’onore al maestro e l’ascoltavano deferenti e andavano a gara a rendergli tutti i piccoli servizi della tavola. Piaz volle conoscere il mio pensiero: cercai di spiegargli lo stupore che m’era rimasto da questa prima salita, più forte di ogni altro senso e del tutto nuovo ne’ miei ricordi di vita alpina: cinque, sei ore di ginnastica disperata, tre vette in un sol giorno, e se ne esce fresco, non sazio, con addosso la voluttà di un sano piacere fisico, un’allegria irragionevole come di chi abbia bevuto del vino inebriante; piccole salite che raccolgono la somma di sforzi e di accorgimenti richiesti da un’impresa dieci volte maggiore; sintesi breve di un’altissima scalata dalla quale siano eliminate, elementi superflui e dannosi, le insidie del tempo, le lunghe camminate d’approccio e le interminabili discese nelle valli profonde. Si giunge freschi ai piedi delle difficoltà, s’affrontano i pericoli a mente serena ed appena se n’è usciti si trova il riposo; così che da una salita nasce il desiderio di un’altra. Io non provavo quella sera il senso di scampo che m’aveva colto dopo talune giornate dell’Alpi altissime; lo dicevo al Piaz che non conosce le mie montagne. Egli mi ascoltava incredulo; per lui non esistono altri monti all’infuori di questi suoi, ai quali egli ha dato tutto il suo cuore di figlio e la forza superba del suo corpo di atleta e che a lui hanno dato la fama; e non sapeva perdonare che io avessi lasciato trascorrere l’età migliore senza conoscerli. Ma che avete fatto della vita fino ad oggi? — sembrava dicesse dagli occhi sdegnosi.

Ma Ugo ed io parlammo de’ nostri monti, ne vantammo l’altezza ed i rischi, ignoti alle vette dolomitiche, il tradimento dei crepacci e delle cornici di ghiaccio, il crollare dei seracchi, il grandinar dei sassi, i geli e le tormente, e, sopratutto, la distanza immensa che lassù separa l’uomo dalla salvezza, le ansie della lunga fuga nelle nubi, la gioia indicibile di ritrovare una piccola capanna sperduta o la rassegnazione tragica di un bivacco senza cibo nè tetto, le membra e lo spirito costretti in un languore quasi mortale, in attese che ritorni il sole.

E gli narrammo le nostre storie più belle, i nostri errori, quelli che solo si confidano nell’ora dei segreti agli amici sicuri.

Guido Rey – Alpinismo Acrobatico (1914)

Nota: La foto in bianco e nero è di Vittorio Sella, nipote di Quintino Sella. Il padre di Guido Rey era figlio della sorella di Quintino Sella. I due, oltre ad essere parenti sono anche contemporanei. Vittorio Sella è anche uno tra i più importanti fotografi di montagna di tutti i tempi. Cercando immagini di Guido Rey, anch’egli valente fotografo, mi sono imbattuto nella Fondazione Sella e nel suo strepitoso archivio fotografico.

Davide “Birillo” Valsecchi

Bonatti e lo Spit

Bonatti e lo Spit

I Tassi del Moregallo hanno da qualche anno un canale WhatsUp, il “Badger Segnale”, in cui ci si scambiano fotografie, informazioni o semplicemente si organizzano uscite, incontri o bevute.  Giorni fa giravano alcune immagini scattate sul Monte Bianco miste a fotografie di “CingniMannari” e gente varia sparaparanzata sulle spiagge del lago. In qualche modo quel “canale”, a cui se ne aggiungono altri due o tre specifici per le diverse attività del gruppo, ha sopperito all’esigenza di condivisione interna che in passato era soddisfatta dal qui presente Blog. Tuttavia alle volte, da queste nostre chiacchiere sconquassate e sconnesse, emerge qualcosa che è interessante estendere ad una condivisione esterna. Ieri, da un museo di Londra, sono apparse alcune pagine di un libro di Walter Bonatti, pagine che mi hanno particolarmente colpito non tanto per il contenuto quanto perchè fossero le nuove generazioni a riflettere su quelle parole. Eccovi quindi il passaggio in questione: 

Con gli Spit non c’è dubbio che avrei potuto salire dritto per lisce placche compatte, senza problemi nè rischi particolari. Ero invece condizionato, ed era giusto che lo fossi, dalle regole del mio gioco che in questo caso si presentava particolarmente chiuso e spietato. Dovevo dunque ripiegare fino alla base dei tratti insuperabilei che mi avevano bloccato, e lì cercare una soluzione alternativa. Come feci per l’estrema manovra improvvisata dei pendoli nel vuoto divenuti poi famosi, stando con le sole mani aggrappato a una corda precariamente incastrata fra alcune scaglie sporgenti sullo strapiombo, e senza sapere quel che avrei trovato poco sopra.

E a proposito di super mezzi di scalata che già ai miei tempi alcuni arrampicatori utilizzavano per affrontare pareti da loro definite impossibili, vorrei dire alcune cose che da sempre sono in me ben chiare e radicate. Mi riporto dunque a quegli anni Cinquanta quando apparve sulla scena della montagna il chiodo a espanzione o spit e si cominciò a farne uso sempre più frequente. E’ precisamente in quegli anni, a mio avviso, che iniziò il grande scadimento tecnico dell’alpinismo

Fare uso di quel tipo di chiodo, il cui impiego richiede la preliminare perforazione della roccia – il che è molto indicativo! – vuol dire avvalersi di uno strumento tecnico che, a differenza del chiodo normale, annulla l’impossibile. Quindi annulla l’avventura. Vuol dire passare con certezza ovunque, anche dove non si sarebbe capaci. Vuol dire barare al gioco che spontaneamente ci si è scelti. Così facendo non si vincerà più l’impossibile ma lo si eliminerà. Si distruggeranno le motivazioni ad affrontarlo e con esso a misurarsi. Non serviranno più l’introspezione, nè la capacità di giudizio.

L’uso dello Spit in effetti devasta l’impegno e l’emotività di un’impresa alpinistica (e sia chiaro, per non creare equivoci, che sto parlando di alpinismo tradizionale e non di altre attività oggi tanto in voga). Con il chiodo a espansione dunque l’ignoto svanisce, l’avventura svanisce, l’intelligente ricerca di una via logica viene scavalcata, si perde il senso critico delle difficoltà.

Infine non valide diventano i termini di paragone e di riferimento. Ne risulta una arrampicata degenerata e sterile, poco più che un gesto atletico. Come tale è magari notevole e senz’atro conveninente quale facile mezzo per arrivare al successo. Un successo però – sempre giudicato nell’ottica della tradizione – ottenuto mediante la mistificazione, quindi con l’inganno di se stessi e della buona fede di chi ci segue, ci valuta e non sa.

Penso che ognuno debba affrontare la montagna, in special modo quella estrema, obbedendo ad un naturale impulso, e giungrvi animato da precise e personali motivazioni. Per me le motivazioni sono state fin qui dall’inizio di natura prevalentemente conoscitiva, introspettiva, finalizzare dunque all’effermazione di me stesso e su me stesso. Ma perchè quest’affermazione potesse avveninire e valere al mio fine, dovetti assumere precisi riferimenti in cui riconoscermi e con cui misurarmi. Per questo non scelsi a modello l’invenzione tecnico-avveniristica dei super mezzi per poter vincere a tutti i costi l'”impossibile”. Ma optai per quella concezione classica dell’alpinismo, maturata negli anni Trenta, adottandone anche i tradizionali e assai limitati mezzi tecnici. Scelsi dunque qui limitati mezzi tecnici proprio perchè da me così voluti. E’ perciò all’anima, invariata nel tempo, dell’alpinismo classico degli anni Trenta con cui mi sono sempre ispirato.

Walter Bonatti – Montagne di una vita

Prendere atto che le vie degli anni Trenta (ma anche Quaranta, Cinquanta o Sessanta) da cui traeva ispirazione Bonatti, anche qui sulle montagne del Lario, siano state oggi “riconvertite” in chiave turistica e sportiva fa riflettere. Riflettere su ciò che, forse con una certa avventatezza, è stato cancellato e precluso tanto alle nuove generazioni quanto a tutti noi.  Io francamente mi sento un privilegiato, prima in Pakistan e poi ai Corni e sull’Isola Senza Nome, ho avuto le mie epopee alpinisitiche: grandi o piccole che siano state, nelle loro autencità, mi hanno insegnato molto ed ogni legnata presa, con il senno di poi, appare oggi come una piccola benedizione. Il mio ormai, forse, l’ho fatto, e non ho di che lamentarmi. Ma il futuro? Il convegno dei TTT, ma anche le semplici riflessioni che emergono tra i Badger, mi fanno ben sperare nel futuro, sperare nell’implicita capacità dell’individuo di spingersi oltre quell’impossibile preconfezionato e stereotipato che viene commercializzato e asservito al consumo della massa. 

Arrampicare era e resta un gesto ribelle, ma forse  è proprio questo il problema:  ogni atto rivoluzionario deve essere sedato, messo in sicurezza e commercializzato. Questa è la regola, la prima che deve essere infranta.

Davide “Birillo” Valsecchi 

Canale Nord

Canale Nord

In cima alla Torre Manzoni volevamo scendere sull’altro versante, quello nord, lungo l’evidente canale che, dalle sponde del lago, risale quasi “a cavatappo” il crinale nord della Torre. Tuttavia dell’alto era abbastanza difficile valutare se ci fosse la possibilità di attrezzare punti di calata o la possibilità di uscire verso il “sentiero della scala”. Così decidemmo di calarci sul lato sud, ripercorrendo la via di salita e sfruttando le grosse piante presenti. Non ultimo, per quanto mi riguarda, il lato sud era ormai noto ed illuminato dal sole, quello nord ingoiato dall’ombra e dalle incertezze. Tuttavia il “tarlo” di scoprire cosa ci fosse in quel canale non lasciava in pace la curiosità di Mattia, curiosità che è diventata incontenibile quando abbiamo scoperto che quel canale era stato risalito da Gianni Mandelli nel lontano 1981. Gianni infatti ci ha raccontato di come in quell’anno una scarica di sassi colpì ed uccise uno sfortunato automobilista che percorreva la vecchia strada costiera. Così il prefetto chiese all’allora sindaco di Valmadrera di mandare una squadra di rocciatori per disgagiare i sassi pericolanti: più o meno, in modo artigianale, quello che hanno fatto recentemente i rocciatori professionisti per i distacchi della superstrada SS36 sull’altro lato del lago. Dopo la frana ci fu il devastante incendio della raffineria e tutta la zona fa abbandonata per anni.

Oggi la vecchia strada, con le nuove gallerie, è abbandonata, invasa dalle piante e dalle macerie. I vecchi ponti sembrano in buono stato ma è un po’ inquietante pensare a come vengano ripetutamente colpiti dai massi caduti dall’alto. Lo stesso vale per le gallerie. Ad accentuare quella strana sensazione da “Zona Morta” si aggiungono i murales dipinti con lo spray sulle parte e l’incuria generale che avvolge ogni cosa di quella terra abbandonata. “extra mundo”: onestamente, sotto questo aspetto, è un posto magnifico.

In realtà, con uno sguardo un po’ più attento, la “Zona Morta” è molto più animata di quanto sembri. Oltre ad un ricovero per capre e “Smuggler”, sulle pareti a precipizio sul lago è pieno di “fix”. Quella zona abbandonata è infatti spesso utilizzata come campo d’addestramento per i gruppi speleo (sia locali che Milanesi) che qui insegnano ai neofiti le manovre base di calata e risalita. Anche la base del Canale Nord è stata attrezzata in questo modo. Tuttavia superati i 30 metri ogni segno del trapano scompare. Due anni fa, in una serata dopo lavoro, avevo provato ad alzarmi oltre. Tuttavia il canale si era difeso con grandi salti rocciosi verticali, impossibili da superare da solo e senza corda. Anche Mattia aveva fatto diversi sopralluoghi in solitaria, ma anche lui aveva dovuto desistere. Il “tarlo” però non aveva mai smesso di agitarsi.

Così qualche giorno fa Mattia e Ruggero si sono organizzati per una “Punta Esplorativa”, rubando un termine speleo, più massiccia. Insieme non solo hanno risalito il canale ma hanno anche ritrovato i chiodi lasciati, ormai quarant’anni fa, da Gianni Mandelli.

Il nostro piccolo gruppo, in modo irriverente ma assolutamente bonario, ha preso l’abitudine di intonare una buffa canzoncina ogni volta che abbiamo la fortuna, ma anche la capacità, di inseguire le gesta del “Mucchio Selvaggio”, il leggendario gruppo Valmadrerese di Gianni negli anni 70. La canzoncina è una specie di coretto da stadio in cui scandiamo in modo ritmato, quando possibile anche battendo le mani, il nome di Gianni: è una canzoncina assolutamente divertente nella sua infantile semplicità (sembra la sigla di un cartone animato anni ‘80). Credo poi ci piaccia perchè è una specie di tributo e perchè cantare in mezzo ai guai, con i compagni di cordata, è qualcosa di assolutamente speciale. Quando Mattia e Ruggero risalivano il Canale io ero al lavoro a Lecco e così, i due, mi telefonavano per aggiorarmi sui loro progressi e per farmi il coretto con la canzone di Gianni. Adorabili Bastardi!! Hehehe

“Già! Già! Già! Giannimandelli! Già! Già! Già! Giannimandelli!”

Quindi io non c’ero e posso solo riportarvi quanto mi ha scritto Mattia via “whats’Up” aggiungendo poi varie foto. “Si,mancavano 50 di misto erba per arrivare alla selletta dove siamo arrivati l’altra volta ma veniva tardi oltre a dover attrezzare la sosta, quindi siamo scesi in doppia. La prima su Carpino Bianco 50m. Poi chiodo Gianni 30m, poi sosta Gianni 50m e usciti dal canale su traccia animali per scendere alla vecchia strada. Dimenticavo ultima doppia da 30 su sasso dove c’è il chiodo di calata piegato. Un ambiente spettacolare dietro casa…”

Dall’origine del Mondo solo in due occasioni questo canale è stato risalito dagli esseri umani. Questo è tutto ciò che sappiamo su quell’angolo di mondo, abbandonato in una terra abbandonata. Tutto dietro casa, alla faccia degli “esperti” che vanno raccontando che l’esplorazione sia finita da un pezzo!

Davide “Birillo” Valsecchi

Restauri alla Torre Desio

Restauri alla Torre Desio

«Ancora una volta è sorprendente vedere cosa fossero in grado di compiere i “grandi” nei “tempi eroici”. In un libro ho trovato una rara foto di Eugenio Fasana a torso nudo mentre si allena: sembra Bruce Lee con i baffi e la barbetta tanto era in forma! Faceva paura! Ma non solo erano atleti prima ancora che l’arrampicata fosse una disciplina, non era solo una questione fisica: in quel camino ho scorto non solo il coraggio ma anche il talento che contraddistingue quegli uomini. Con scarpette di stoffa e corde ragguardevoli hanno fatto cose che ancora oggi, con tecnologia spaziale, fatichiamo a ripetere e comprendere. Non possiamo che rendere loro omaggio e ringraziali per la “via” che hanno tracciato per noi.»

Queste le parole con cui avevo chiuso il mio racconto della mia “prima volta” sulla Fasana alla Torre Desio. In quell’epoca, che ora mi sembra remota, io e Mattia arrampicavamo tutti i venerdì pomeriggio: lui faceva il turno del mattino in Croce Rossa ed io avevo la giornata libera dall’ufficio. I Corni erano deserti, non si sentiva una voce, eravamo completamente soli in un persistente e surreale silenzio quasi opprimente. Eravamo soli ed autodidatti nell’ignoto, non sapevamo davvero nulla di quelle pareti, nel modo più difficile e rischioso non facevamo altro che imparare dai nostri errori. Tutto quello che avevamo erano le vecchie guide e le critiche di chi ci additava come sciocchi incrodati su vecchie vie dimenticate e pericolose. Quanta fatica, e quanta paura, ma con il senno di poi credo che la nostra sia stata una straordinaria avventura, la fortuna di un’esperienza unica per la vita.

Sdraiato al sole, nell’anfiteatro della Torre Desio, mi godo il tepore del mattino. Con me ci sono Ruggero, Gabriele, Miky e Lorenzo: quasi tutti ventenni. Sono sparsi sulle vie, sullo spigolo Palferi e sulla Corvara. Io sono sdraiato sull’erba mentre loro hanno capi-cordata d’eccezione: da un lato Josef e dall’altro Gianni, colui che scrisse le guide su cui io e Mattia abbiamo studiato tutte le salite classiche. E’ un sabato di sole, si sentono le voci dei gitanti sul sentiero sottostante mentre gli escursionisti si accalcano sulla cima del Corno Occidentale. Ascolto le loro voci, così vicine e così distanti: incredibile essere tanto rilassato sotto queste pareti. Sono sdraiato al sole e mi godo il momento con un sorriso compiaciuto. Forse i “Tassi del Moregallo” sono nati per compensare quelle infinite ore di solitudine trascorse sospesi, e spesso appesi, tra queste pareti di calcare grigio. Forse sono nati perchè quelle schegge di conoscenza, così difficoltosamente conquistate, non andassero perdute e fossero tramandate. Forse sono nati perchè sono un asociale socievole o perchè, come raccontano facesse mio nonno materno Luigi Paredi, è di famiglia incitare nei giovani la voglia di scoprire queste piccole grandi montagne.

Non so, sono ormai molte le nuove vie aperte con i Tassi sui versanti del Moregallo, spesso anche molto impegnative ed estetiche. Tuttavia nessuno di loro aveva mai affrontato le “Grandi Classiche” dei Corni. Almeno fino ad oggi. Sdraiato al sole mi godo il tepore del mattino, sorrido sornione dietro gli occhiali, compiaciuto del lungo e complicato viaggio che ci ha portato fin qui.

Poi le due cordate si ritrovano insieme alla base del Camino Fasana alla Torre Desio. Il giovane Lorenzo raggiunge da primo la sosta del primo tiro: “Birillo vieni?”. Avevo indossato imbrago ed equipaggiamento ma non avevo intenzione di arrampicare. La caviglia mi fa ancora male, la schiena è rigida e sono praticamente un rottame, ma per un istante guardo verso l’alto e l’istante dopo ho un otto infilato all’imbrago: che bello inseguire nuovamente Eugenio Fasana!

Il diedro camino iniziale ha un passaggio atletico che richiede determinazione e coraggio. Impressionante pensare che Fasana, in apertura nell’ignoto, lo superò probabilmente senza protezioni, semplicemente con una straordinaria tecnica di progressione in camino. Anche il secondo tiro, dove il diedro si chiude in due strette pareti parallele, non si può che provare ammirazione per i pionieri che per primi, nel 1931, si avventurarono fin sulla vetta percorrendo tutta la torre: Eugenio Fasana ed Antonio Omio.

“Un’altra via di Fasana ed un altro capolavoro di tecnica, estetica e coraggio. Il camino della Torre Desio è una di quelle arrampicate che lascia impressionati i ripetitori, le difficoltà sono nettamente superiori a quelle che Fasana aveva espresso a suo tempo (IV+). Ultimamente, dopo aver piazzato un paio di fix del camino, si è arrivati a valutare i passaggi fino al VI+. Più realisticamente si possono valutare i passaggi più difficili un grado in più, certo non deve mancare la predisposizione all’arrampicata in camino e non dovrebbe mancare un briciolo di coraggio ai ripetitori.“ Questa era la descrizione della via nell’edizione del 2005 de “L’isola senza Nome”.

Su una Fasana ai Corni di Canzo c’erano due Fix piantati con il trapano: c’erano, perchè ora non ci sono più. Furono piazzati certamente con buona intenzione, dall’alto, per proteggere i ripetitori nei due passaggi più complicati ed esposti tra due chiodi tradizionali. L’attitudine sportiva di quelle piastrine era evidente perchè “proiettava” un eventuale caduta nel vuoto fuori dal camino. Tuttavia in questo modo quella protezione influiva negativamente sulla progressione classica da camino, certamente faticosa e delicata, che in quell’ancoraggio esterno trovava solo false e pericolose illusioni fuori linea. Inoltre, il secondo di cordata, rischiava di essere “strattonato fuori” dal camino in un pendolo più che aiutato dalla corda dall’alto. I due Fix, nell’ottica di rimuovere il superfluo e conservare lo spirito e la storia di una via classica, sono stati quindi rimossi con cura: al loro posto sono stati piantati due chiodi tradizionali che, oltre a sfruttare quanto offerto dalla roccia, hanno posizioni più adatte e logiche alla progressione in camino. Il fix, con anello di calata arancione, in supporto alla clessidra della prima sosta è stato lasciato, così come la sosta sommitale su cui effettuare le doppie lungo la torre. (La doppia originale di Fasana, per chi fosse interessato, era molto breve, realizzata su uno spuntone e scendeva sul ripido terrazzo erboso a sinistra della torre).

“Mio padre diceva di usare i chiodi con grande parsimonia perchè feriscono la roccia”. Queste è la frase che mi disse l’adorabile ed anziana figlia di Eugenio Fasana. Sostituire i Fix con chiodi tradizionali è stato il nostro modo per conservare un equilibrio, forse inevitabilmente imperfetto ma coerente, tra passato, presente e futuro. Un tributo doveroso ad un talento ed un insegnamento che, banalizzati ed oscurati dal trapano, rischierebbero di non essere compresi ed apprezzati.

Gian Maria Mandelli, membro del CAAI e storica figura di rilievo dell’arrampicata Valmadrerese, ha avallato, supervisionato e personalmente condotto l’iniziativa di “bonifica”. Ai Corni di Canzo sono molte le vie “restaurate” recentemente, una di queste ad esempio è la Palferi sul Pilastro Gianmaria. Un lavoro certosino e paziente che mira a conservare, in modo razionale e ponderato, lo stato delle “classiche”, minimizzando le alterazione ma permettendone la fruizione alpinistica. In alcuni casi i chiodi più malridotti sono stati attentamente sostituiti o integrati, la Fasana è probabilmente la prima in cui sono stati rimossi infissi permanenti. Una scelta importante, in controtendenza a ciò che avviene altrove, e che per questo ha richiesto l’intervento di uno tra i più autorevoli dell’Isola. Io credo che questi “restauri”, queste bonifiche, non solo conservino la storia umana quanto la natura delle pareti, ma possano soprattutto insegnare con l’esempio un uso più consapevole e corretto degli spazi verticali per le grandi classiche che ancora devono essere realizzate.

Rimuovere ciò che è superfluo per proteggere ed educare. “Tuttavia, se esiste un equilibrio, la sua ricerca sarà un compromesso non privo di rischi, tanto nell’etica quanto nel diritto. Speriamo non violento.” Se qualcuno ritiene di avere ragioni valide per contestare la rimozione dei due fix sulla Fasana alla Torre Desio allora si faccia avanti, si assuma il peso ed il rischio delle proprie parole, parli con coraggio e sarà ascoltato.

Davide “Birillo” Valsecchi

TTT CADARESE

TTT CADARESE

Esco dalla doccia e lampeggia il cellulare: “Birillo, avevi mai visto questo?”. Gaetano mi gira un video. Accendo il caffè e lancio una rapida occhiata al filmato mentre finisco di vestirmi. Inizio a sghignazzare e rispondo rapido a Gaetano: “Certo che l’ho visto, ma l’avevo dimenticato. Mi hai dato un idea …pericolosa!”. Salgo in macchina ed in coda verso l’ufficio inizio a riflettere. Che filmato era? Un vecchio filmato, pubblicato circa otto anni fa, in cui MDB, alias Matteo Della Bordella, attuale Presidente dei Ragni di Lecco, “schioda” un mono tiro su una fessura a Cadarese. Nel video, pubblicato più o meno ai tempi di “Kill Bill”, utilizza un attrezzo artigianale creato dal “Maestro Hattori Hanzo”, alias Bogani Paolo, con cui rimuove piastrine e bullone (con incredibile facilità!!). Il commento di MDB è a tratti fulminante: “…questo strumento mi ha consentito di riportare allo stato naturale questo pezzo di roccia. E’ tornato come la natura l’ha creato, senza che ci siano gli inutili spit: finalmente può essere scalato lasciando il tiro così com’è … come si fa in tutto il resto del mondo tranne che da noi”.

Onestamente non conosco MDB ma, per quanto può valere, ne ho sempre avuto una buona opinione. In particolare mi colpì il filmato della sua scalata con Matteo Bernasconi alla Torre Egger. In quel video, a tratti confuso e ripreso con una piccola telecamera, MDB all’improvviso cade e strappa un paio di chiodi. Anche Bernasconi viene sbalzato dalla sosta, che cede, ed entrambi si ritrovano appesi ad un unico friend che, fortunatamente, li ha trattenuti. In quell’attimo terribile gli scalatori urlano travolti dagli eventi. Ricordo di aver ascoltato quel video decine di volte, in modo quasi ossessivo, cercando di cogliere l’essenza di quelle quelle grida. Ripensandoci, ancora adesso, mi sale una certa tensione sulle braccia. Io credo che in quelle grida, catturare per pura casualità da una telecamera che altrettanto fortuitamente non è precipitata con i suoi possessori, vi sia parte di quel grande mistero che è l’arrampicata e l’alpinismo: la fragilità dell’uomo e l’assoluta forza della Montagna. Non importa chi sei o cosa stai scalando, l’essenza di quelle grida sono uguali per tutti, accomunano ogni essere umano nel suo cammino – quando onesto – lungo l’equilibrio del proprio limite. Io, proporzionalmente alle mie ben più modeste e limitate capacità, ho fatto un volo simile solo una volta, all’inizio della temibile “Notte sul Pizzo d’Eghen”. La mia voce che urla “Mattia!”, nel vuoto, tra la pioggia, senza futuro, è incisa nella mia mente ben più della botta con cui finalmente ho smesso di precipitare. Credo che dopo un’esperienza simile non si possa che avere una visione migliore e più profonda della realtà nel suo complesso: un giro nella scatola di Schrodinger e tutto cambia, per sempre. Per questo, anche senza conoscerli, ho sempre avuto grande stima dei due Matteo e sarei davvero sorpreso nel dovermi ricredere

Certo, la storia insegna che con i Ragni, dal Littorio fino a K90, è sempre consigliabile una salutare dose di diffidenza e prudenza: sono la “Serie A” dell’alpinismo italiano e mondiale, questo di certo non aiuta gli “improvvisati amatoriali” come me nel comprendere tutto quello che fanno. Tuttavia credo che MDB, a modo suo ed in quel suo gesto giovanile, sia stato un precursore di quelli che oggi sono gli obiettivi espressi dai giovani del Manifesto TTT: togliere il superfluo per conservare storia, natura, autenticità. Ovviamente non ho assolutamente idea di cosa ne pensi MDB del manifesto, nè se l’abbia mai neppure sentito nominare: non è mia intenzione implicarlo o coinvolgerlo in alcunchè (non mandatemi altre lettere che ho finito le cornici). Tuttavia questo vecchio filmato è sicuramente un interessante caso di studio per i membri del TTT, e non solo per loro. E’ un piccolo ma importante ed autorevole esempio. Per questo lo ripropongo qui:

Davide “Birillo” Valsecchi

Nota per i Fabbri dei Tassi: datevi da fare! Io credo che prima di togliere sia meglio non mettere, ma una “Hattori Hanzo” – anche senza sguainarla – serve anche a noi!

Oltre il tramonto

Oltre il tramonto

«Incurante delle critiche, o meglio, abbastanza forte da saperle affrontare, sceglie il Sasso d’Introbio per sperimentare qualcosa di nuovo. Si cala dall’alto, buca la roccia martellando con un perforatore manuale e piazza i primi spit da 8 mm. del territorio lecchese realizzando “Oltre il tramonto”» – Pietro Buzzoni.

Giorni fa, senza che lo sapessi, il mio articolo sul Congresso TTT è stato ripubblicato sul GognaBlog. Non è il primo dei miei articolo che viene diffuso attraverso la “quasi-rivista della montagna” digitale più nota in Italia. La prima volta che accadde ero emozionato ed onorato, ora per lo più mi aspetto fuoco di rappresaglia nella casella di posta. Ad informarmi sono stati i ragazzi di Vicenza, dispiaciuti che questo fosse accaduto senza chiedermi alcunchè. «Quando scrivi un messaggio in una bottiglia – li avevo rassicurati – non puoi scegliere dove andrà o chi lo leggerà. Non c’è nessun problema, va bene così. Anzi.» In realtà erano preoccupati perchè il primo commento, in quel dedalo di iperconnessioni che è il megafono “social”, era poco amichevole: «Prima di parlare scala pirillo». Storpiare nome e sminuire l’interlocutore è una pratica quasi infantile, così mi ero premurato di rassicurare nuovamente i miei giovani amici dalle Alpi Orientali: «Se questo è il massimo dell’acume che ci si contrappone direi che siamo apposto… non fateci troppo caso».

Tuttavia io sono Leone ascendente Leone nato nell’anno cinese del Drago e, nonostante avessi detto loro di non preoccuparmi, avevo già attivato i miei sistemi di “intelligence” per sapere di più sul mio misterioso “ammiratore”. Ciò che mi aveva colpito dei ragazzi del TTT era come molti di loro fossero stati colti di sorpresa dalle piccole intimidazioni e/o aggressioni nate come ruvida risposta ai loro scritti o alle loro iniziative. «Birillo, io voglio arrampicare, non essere circondato da gente che vuole farmi la spunta». Io invece sono abituato ad avere “tutti contro”, è la mia natura essere costantemente “accerchiato”. Per questo le loro incertezze, più che comprensibili ai miei occhi, rimarcano il grande coraggio con cui hanno preso posizione. Io, d’altro canto, per aiutarli posso solo fare quello che mi riesce meglio: “trovare una rotta attraverso il centro della tempesta”.

Cercando il mio “ammiratore” emerge lo spezzone di una pubblicazione di Pietro Buzzoni: L’era dei “Chiodatori”. Il titolo, decisamente emblematico, si conclude con una lista di nomi tra cui compare anche quello che sto cercando: “Ciusse”. Il mio ammiratore è quindi uno tra gli storici “senatori” dell’arrampicata con il trapano del lecchese. Anche il soprannome, in effetti, non è mi nuovo. Così faccio un piccolo “probe”, lancio un messaggio ed attendo una risposta: «…credo tu sia quello che chiamano “Ciusse”. Interessante. Mi è ben chiaro perchè non posso esserti simpatico». La replica, puntuale, è arrivata carica di informazioni nuove: «Ricordati la scalata va avanti tu come Guerini andate in dietro». E’ affascinante come il mio nome sia sempre associato a quello di Ivan, come non capiscano quanto, nonostante la reciproca amicizia, siamo diversi io ed lui. Peggio per loro in effetti. Per bloccare la discussione, evitando che degeneri in baruffa, droppo una frase sibillina lasciando che ognuno, secondo la propria attitudine, ne tragga il senso che più preferisce. Aggiungo “Ciusse” alla mia lista e quasi mi dimentico per un po’ della faccenda.

Il giorno dopo, camminando sul Moregallo con un paio di Tassi, uno di loro mi chiede: «Però ciò che non capisco è come non si possa essere completamente d’accordo con il tuo articolo? Non c’era nulla di negativo, anzi: perché contestarti comunque?» Le domande raccontano spesso molto più delle risposte sulla persona che le formula: mi piaceva l’approccio mentale che sottintendeva il quesito. In realtà, con una certa dose di esperienza e disillusione, è possibile trovare la risposta direttamente nella parafasi delle parole di Ciusse: “noi siamo il futuro, voi siete il passato”. Qualcosa che trae ragione direttamente dalla spinta rivoluzionaria con cui, in origine, l’arrampicata sportiva è emersa da “attività di nicchia” raggiungendo lo “status quo” di attività predominante, ufficiale e riconosciuta, olimpionica persino. La storia insegna, anche quella recente, che non esiste peggior tiranno di un contestatore che, giunto al potere, viene contestato. Specie quando il prestigio personale è ingabbiato e manipolato dagli interessi economici.

«Vedi – ho provato a rispondere – se uno potesse salire senza bucare la roccia lo farebbe di certo, anche solo per fare lo sbruffone. Certo, ci sono anche molte altre ragioni, ma per ora semplifichiamo così: è un compromesso. Io non sono certo contrario ai compromessi, ma è necessario che sia ben chiaro cosa si vuole ottenere e cosa, invece, andrà perduto e sacrificato. Bisogna anche essere consapevoli che l’equilibrio di un compromesso può cambiare nel tempo e che la natura stessa di un compromesso è tutt’altro che assoluta. Inoltre ogni compresso sbilancia equilibri e compromessi più grandi. Piantare il primo spit, come raccontava l’articolo che ho trovato, può essere un compromesso accettabile in quel preciso momento storico. Ma l’effetto che quello spit può aver generato, nello scorrere dei successivi venti o trent’anni, può avere dato vita ad un compromesso più ampio assolutamente inaccettabile. Se queste persone fossero in grado di comprendere la realtà del proprio compromesso,  fossero in grado di accettarne la responsabilità e discuterne il futuro allora ill TTT non esisterebbe nemmeno, non ce ne sarebbe il bisogno. Purtroppo si sono spinti troppo oltre nel compromesso, si sono identificati in quel compromesso a tal punto che cambiare l’equilibrio del compromesso significherebbe cambiare se stessi, il ruolo acquisito e conquistato. Per poter parlare con loro, per esempio, devi “fare il loro grado”, ma il loro grado dipende dall’artificio su cui hanno basato il loro compromesso: forare la roccia. Mettere in dubbio l’artificio significa riportare gli dei sulla terra, tra gli uomini. Per alcuni di loro, anche solo inconsapevolmente, sarebbe inaccettabile: bruci il mondo ma non metteranno mai in dubbio ciò che li ha elevati al di sopra della massa. “Noi siamo il futuro, voi il passato”. Accadde lo stesso con i chiodi ad espansione e le scalette: è umano, prima o poi succede. Questa è sempre l’essenza del problema, l’ostacolo al cambiamento o alla nascita di un nuovo e più moderno compromesso. Fortunatamente non sono però tutti così, e questo mi dà ancora speranza in un’equilibrio morbido».

Ciusse, di cui ignoravo completamente l’esistenza, si è sentito in dovere di azzittirmi. Bravo, ottima idea. Comunque credo abbia fatto bene se questo è il suo punto di vista. Anzi, dovrei essergli grato visto lo spunto che ha saputo darmi.

«Il trapano a batteria sostituirà il perforatore a mano e a Marco Ballerini si affiancheranno molti altri “chiodatori” tra cui non possiamo dimenticare Alessandro Ronchi, Paolo Vitali, Pietro Buzzoni, Stefano Alippi, Lele Dinoia, “Ciusse” Bonfanti, Norberto Riva, Valerio Casari e, soprattutto, Delfino Formenti. Quella dell’arrampicata sportiva è una storia così ricca e complessa di risvolti sportivi, economici e di possibilità di sviluppo sostenibile del territorio, che, per essere raccontata, ha bisogno di un libro tutto suo».

Ora, sempre grazie al prezioso contributo di Ciusse, mi aspetto che siano i “Senatori dell’epoca dei chiodatori” a raccontarci, dopo vent’anni, quale credono sia il frutto del compromesso fatto allora, cosa ritengono sia emerso di positivo e cosa invece è stato sacrificato o frainteso: l’eredità della loro epoca. A voi la parola: vi arroccherete sulle risposte come chi vi ha preceduto o darete voce anche alle vostre domande? 

Grazie ancora Ciusse, come ti ho già scritto: “…sarà il tempo a deciderlo. Il mio augurio è che il tempo abbia un buon ricordo di te.”

Davide “Birillo” Valsecchi
(o pirillo se preferite…)

Riferimenti: 
http://larioclimb.paolo-sonja.net/falesie_lecco/introbio/introbio.pdf
http://wiki.valsassina.it/lera-dei-chiodatori/

Alpinismi…

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