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dscf7152 La Biblioteca Canova accoglie un’ampia collezione di riviste alpinistiche, tanto italiane quanto francesi e svizzere, donate da Lilia Canova ed appartenute al marito ed alpinista Armando Canova.

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Oggioni e le tre Cassin

Oggioni e le tre Cassin

[Le mani sulla roccia – Diario alpinistico Andrea Oggioni] L’anno 1950 lo inizio allenandomi in Grignetta; sento di essere molto migliorato nella tecnica e nello stile. Infatti sulle stesse vie salite in allenamento l’anno scorso, mi trovo molto più a mio agio, mi stanco meno e mi sembrano perfino facili. Però l’anno è cominciato sotto cattivi auspici. Emilio Villa, mio compagno di tante scalate, cade dalla via Comici ai Corni del Nibbio. La sua tragica fine mi lasciò abbattuto e smarrito. Per superare lo «choc», la domenica seguente vado proprio alla via Comici per ricostruire l’accaduto a modo mio, e per vincere un certo timore che sta per impadronirsi di me.

Continuo senza interruzione i miei allenamenti, resi però saltuari dal persistente cattivo tempo e quando arriva giugno non si può proprio dire che io sia allenatissimo. Tuttavia, con Luigi Galbiati, mi porto nelle Dolomiti, e precisamente alle tre Cime di Lavaredo, ove compio una salita dello spigolo Mazzorana sulla Cima Grande. Qualche giorno dopo, sempre con Galbiati, salgo sulla Cima Piccola ; per lo Spigolo Giallo. Anche qui, una persistente pioggerella ci accompagna durante la discesa.

Matura il desiderio. di portare a termine la ripetizione di un altro grande problema risolto da Cassin: la parete nord della Cima Ovest di Lavaredo. Se ce la farò, sarò il primo alpinista che abbia ripetuto i tre grandi itinerari di Cassin: la nord-est del Pizzo Badile, la Walker alle Grandes Jorasses e la nord della Cima Ovest di Lavaredo. Vorrei completare la triade in fretta, prima di entrare nel mio ventesimo anno di età.

Così, vado alla forcella Lavaredo per esaminare da vicino la famosa parete. Ritorno dall’esplorazione alquanto impressionato, quella visione di continui strapiombi e tetti gialli non è certo fatta per tranquillizzare il mio spirito; malgrado tutto mi dispongo a tentare.

Rientrato a Monza, non mi ci vuol molto a convincere l’amico Aiazzi, e con lui riparto quindi per Misurina. Il giorno dopo, carichi delle nostre attrezzature, giriamo la forcella Lavaredo, costeggiamo quindi gli appicchi nord della Piccolissima, della Frida, della Piccola, della Grande e infine quello più severo della Cima Ovest.

Legatici, iniziamo l’arrampicata lungo lo spigolo ovest. È giallastro, un poco friabile; proseguiamo per circa 200 metri fino al punto in cui ha inizio la famosa traversata. L’affronto tenendomi il più aderente possibile alla parete: coi piedi su una minuscola cengia avanzo centimetro per centimetro; con la testa faccio pressione contro il soffitto che mi sovrasta. Dopo una decina di metri, avanzando senza l’aiuto di chiodi, la cengia finisce, e sotto di me, con enormi tetti, la parete strapiomba con un salto nel vuoto di 250 metri. In questo punto per una buona mezz’ora lavoro accanitamente per arrivare a un chiodo ma quando l’ho raggiunto mi resta fra le mani: sono costretto a calarmi nel vuoto per 5 o 6 metri fino a una seconda piccola cengia molto friabile. Proseguo verso il centro della parete aggrappandomi con le mani al bordo della cengia e puntando la punta delle pedule contro la roccia: più tardi, con un sospiro di sollievo, raggiungo un friabilissimo posto di sosta. Qui per maggiore precauzione pianto due chiodi di sicurezza.

Ora tocca al mio compagno: Josve parte sicuro ed arrivato al famoso chiodo è costretto a un pendolo volontario per raggiungere la cengia più bassa. Il pendolo funziona a dovere, ma la corda di 12 millimetri si impiglia in uno spuntone: per liberarsi, l’unica soluzione in quel frangente è di slegarsi dalla corda impigliata. Così Josve avanza lungo la cengia tenuto soltanto dalla corda di 10 millimetri. Improvvisamente le mani del mio compagno di cordata staccano un appiglio: lo vedo prima sbilanciarsi e poi cadere nel vuoto… Il colpo della corda sui chiodi è secco, ma riesco ugualmente a tenerli: Josve rimane a pendolare nel vuoto, fin quando riesco a buttargli la corda di 12 millimetri.

Aggrappato ad una delle funi, mentre io ritiro l’altra Josve mi raggiunge. Giunto al mio fianco, prima ancora di tirare il fiato mi investe: — Cos’hai da fare quella faccia da funerale? Però anche lui cambia subito colore quando senza parlare, gli mostro la corda che l’ha trattenuto e che l’ha aiutato ad arrivare sul terzo terrazzo: è tranciata a metà; e sbianca in volto ancor più quando si accorge che i chiodi che hanno tenuto il suo strappo uscivano alla semplice trazione della mano. L’unica reazione in casi simili, è l’azione. Se ci si pensa su, non si va più avanti. 

Riprendiamo dunque ad arrampicare, ma con maggior prudenza: più in alto giungiamo ad un breve passaggio obliquo, estremamente difficile: mi impegna per una buona ora obbligandomi ad accaniti sforzi per raggiungere un vecchio chiodo. Su questo breve tiro di corda provo anch’io la spiacevole sensazione di un piccolo volo, per fortuna senza conseguenze.

Alle 18 siamo finalmente su una larga cengia al termine della famosa e temuta traversata. Ci mettiamo al riparo sotto un enorme tetto. Prima di raggiungere questo posto, abbiamo dovuto attraversare un colatoio scrosciante acqua. Ci assale subito il freddo, i muscoli sono intorpiditi, le corde inzuppate: decidiamo di bivaccare. Il bivacco non è dei migliori; continui dolori ai muscoli ci tormentano entrambi, dovuti forse all’allenamento piuttosto sommario.

Un amico, prima di partire, mi aveva regalato un bel paio di pedule con la suola di cotone. Le pedule sono bellissime, ma in fatto di resistenza un po’ meno: le suole si sono staccate completamente fin dai primi tiri di corda sulla traversata: partita la suola, il cartone sottostante si è scucito dalla tomaia e improvvisamente mi trovai con le, sole calze: riuscii a farci tutta la traversata. Sul terrazzo sono arrivato a piedi nudi, e me li sto guardando pensando all’indomani.

— Ce la farò ad arrivare in cima? — La roccia è dura e tagliente, le dita dei miei piedi no.

Alle nove del giorno dopo riprendiamo la scalata e lungo il colatoio, arrampicando a piedi nudi, raggiungiamo la vetta. Ci accoglie un violentissimo temporale. Nello spazio di poche ore cengie e terrazzi sono colmi di grandine, il tutto con un contorno impressionante di fulmini. In quel momento provai tanta paura, come mai non mi era successo. La via di discesa non è più visibile, la grandine ha coperto ogni traccia. Aiazzi, con filosofia, si mette alla ricerca di un posto di bivacco. Io, che sono senza sacco da bivacco, scalzo, non me la sento di affrontare una seconda notte in parete; ed essendo solo le due pomeridiane, sotto l’infuriar del temporale decido di tentare la discesa. L’acqua cade furiosa, sono torturato dal freddo ai piedi; non mi rimane che rimanere in ‘piedi a turno’, con un piede prima e con l’altro dopo. Qualche ora più tardi ci caliamo giù per una via qualunque, fra canaloni pieni di neve e grandine, e lungo cengie diventate infide. Dopo parecchie peripezie raggiungiamo il ghiaione, ultimo ma non i meno formidabile ostacolo per i miei piedi già martoriati.

Anche l’avventura sulla via di Cassin sulla Cima Ovest di Lavaredo è finita. Una grande avventura, degna delle salite fatte in precedenza; infatti mi tornano alla mente le vie che portano lo stesso prestigioso nome di Riccardo Cassin: la parete nord-est del Pizzo Badile e lo sperone della Walker sulla parete nord delle Grandes Jorasses. Della splendida collana me ne mancava fino ad ieri una; la parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, oggi non più.

Ora mi sento fiero di essere il primo alpinista che ha saputo ripetere tutte e tre le grandi vie, ma quello che mi rende più felice è il come le ho salite. La totale mancanza di mezzi finanziari, la scarsa esperienza, l’equipaggiamento sommario: e la mia età? Non ho ancora vent’anni, ma questo non vuol dire niente; mi sono servito soprattutto della mia resistenza fisica e della mia volontà, e più ancora della fortuna, che anche nei momenti più paurosi mi ha sempre assistito.

Andrea Oggioni


Andrea Oggioni morì nella notte dal 15 al 16 luglio 1961, al Colle dell’Innominata, sul Monte Bianco. Con lui restarono per sempre sulla montagna, i francesi Guiltlaume, Kholmann e Vieille. Aveva trent’anni. Viveva, con la mamma, il papà, un fratello e una sorella, in una piccola casa-cascina a Villasanta alla periferia di Monza, ai margini nord-orientali della «grande Milano». Aveva alle spalle la Pianura Padana, di fronte la Brianza e, al di tà di essa, le Prealpi, il Resegone, la Grigna. L’ambiente crea gli uomini, si dice, e in questo caso fu vero: Andrea, figlio di contadini, respirava aria di fabbriche e si fece operaio; nato nella « bassa », sen- tiva profumo di montagne e divenne alpinista. Come il più anziano Josve Aiazzi e il coetaneo Walter Bonatti, che tanta parte hanno avuto nella storia breve e intensa di Andrea Oggioni. Erano i tre alfieri della « Pell e Oss » di Monza, questa città di pianura che ha scritto alcune delle più belle pagine nel libro dell’alpinismo del dopoguerra. Questa città che Andrea aveva onorato con la sua vita e che lo ha ricordato, dopo la scomparsa, dedicandogli un bivacco-rifugio nella Presanella e allestendo in suo nome la spedizione 1962-63 alle Torri del Paine, all’estremo sud del continente americano. [..]

Il ritratto più vero è quello che ne fece Dino Buzzati: «Un uomo strano, piccolo, robusto, ma ben proporzionato con una caratteristica faccia popolaresca, larga e schiacciata, un po’ da mongolo. Non ho mai visto nessuno che, pur in così piccole dimensioni, esprimesse un così intenso concentramento di energia fisica. Per definirlo adeguatamente, non esiste che un nostro appellativo dialettale: “stagno”, che vuol dire, insieme, forte, duro, sodo, tosto, compatto, infrangibile ».

Poi, le sue imprese: a diciannove anni aveva già ripetuto tutte e tre le famose vie nord di Cassin, al Badile, alle Jorasses e alla Cima Ovest di Lavaredo. Legato a Josve e a Walter, in occasioni diverse, aveva compiuto una quindicina di prime assolute di livello mondiale. Tra le altre, da capocordata, con Aiazzi, quella via del Gran Diedro alla Brenta Alta che un referendum colloca fra le dieci scalate, su roccia pura, più difficili e più significative in tutta la storia dell’alpinismo. In questo libro d’oro dell’« impossibile », sono compagni di Oggioni, in ordine cronologico, nove capi-cordata come Carlesso. (Torre di Valgrande), Soldà (Sud-ovest Marmolada), Vinatzer (Sud-est Marmolada); Cassin (Nord della Ovest di Lavaredo), Ratti (Ovest Aiguille Noire), Costantini (Pilastro Tofana di Rozes), Livanos (Cima Su Alto), Bonatti (Est Gran Capucin) e Lacedelli (Cima Scotoni).

Carlo Graffina

Le Mani sulla Roccia – Il diario Alpinistico di Andrea Oggioni.
(10 Marzo 1964 – Casa editrice Arti Grafiche Tamari).
Scritti originali di Oggioni consegnati a Graffina prima della spedizione nelle Ande, integrati poi con scritti di Bonatti, Ferrario, Gallieni e Mazeaud.  
(La copertina del mio volume è andata perduta, c’è solo una bella macchia di caffè su della carta ingiallita dal tempo)

La Carne dell’Orso

La Carne dell’Orso

Da uno scritto di PRIMO LEVI. In mezzo a noi, Sandro era un isolato. Era un ragazzo di statura media, magro ma muscoloso, che neanche nei giorni più freddi portava mai il cappotto. Veniva a lezione con logori calzoni di velluto alla zuava, calzettoni di lana greggia, e talvolta una mantellina nera che mi faceva pensare a Renato Fucini. Aveva grandi mani callose, un profilo ossuto e scabro, il viso cotto dal sole, la fronte bassa sotto la linea dei capelli, che portava cortissimi e tagliati a spazzola: camminava col passo lungo e lento del contadino.

Da pochi mesi erano state proclamate le leggi razziali, e stavo diventando un isolato anch’io. I compagni cristiani erano gente civile, nessuno fra loro né fra i professori mi aveva indirizzato una parola o un gesto nemico, ma li sentivo allontanarsi, e, seguendo un comportamento antico, anch’io me ne allontanavo: ogni sguardo scambiato fra me e loro era accompagnato da un lampo minuscolo, ma percettibile, di diffidenza e di sospetto.

Che pensi tu di me? Che cosa sono io per te? Lo stesso di sei mesi addietro, un tuo pari che non va a messa, o il giudeo che «di voi tra voi non rida»? Avevo osservato, con stupore e gioia, che tra Sandro e me qualcosa stava nascendo. Non era affatto l’amicizia fra due affini: al contrario, la diversità delle origini ci rendeva ricchi di “merci” da scambiare, come due mercanti che si incontrino provenendo da contrade remote e mutuamente sconosciute. Non era neppure la normale, portentosa confidenza dei vent’anni: a questa, con Sandro, non giunsi mai. Mi accorsi presto che era generoso, sottile, tenace e coraggioso, perfino con una punta di spavalderia, ma possedeva una qualità elusiva e selvatica per cui, benché fossimo nell’età in cui si ha il bisogno, l’istinto e l’impudicizia di infliggersi a vicenda tutto quanto brulica nella testa ed altrove (ed è un’età che può durare anche a lungo, ma termina col primo compromesso), niente era trapelato fuori del suo involucro di ritegno, niente del suo mondo interiore, che pure si sentiva folto e fertile, se non qualche rara allusione drammaticamente tronca. Era fatto come i gatti, con cui si convive per decenni senza che mai vi consentano di penetrare la loro sacra pelle.

Avevamo molto da cederci a vicenda. Gli dissi che eravamo come un catione e un anione, ma Sandro non mostrò di recepire la similitudine. Era nato sulla Serra d’Ivrea, terra bella ed avara: era figlio di un muratore, e passava le estati a fare il pastore. Non il pastore d’anime: il pastore di pecore, e non per retorica arcadica né per stramberia, ma con felicità, per amore della terra e dell’erba, e per abbondanza di cuore. Aveva un curioso talento mimico, e quan do parlava di mucche, di galline, di pecore e di cani, si trasfigurava, ne imitava lo sguardo, le movenze e le voci, diventava allegro e sembrava imbestiarsi come uno stregone. Mi insegnava di piante e di bestie, ma della sua famiglia parlava poco. Il padre era morto quando lui era bambino, erano gente semplice e povera, e poiché il ragazzo era sveglio, avevano deciso di farlo studiare perché portasse soldi a casa: lui aveva accettato con serietà piemontese, ma senza entusiasmo. Aveva percorso il lungo itinerario del ginnasio-liceo tirando al massimo risultato col minimo sforzo: non gli importava di Catullo e di Cartesio, gli importava la promozione, e la domenica sugli sci o su roccia.

Aveva scelto Chimica perché gli era sembrata meglio che un altro studio: era un mestiere di cose che si vedono e si toccano, un guadagnapane meno faticoso che fare il falegname o il contadino. Incominciammo a studiare fisica insieme, e Sandro fu stupito quando cercai di spiegargli alcune delle idee che a quel tempo confusamente coltivavo. Che la nobiltà dell’Uomo, acquisita in cento secoli di prove e di errori, era consistita nel farsi signore della materia, e che io mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele. Che vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere l’universo e noi stessi: e che quindi il Sistema Periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo: a pensarci bene, aveva perfino le rime! Che, se cercava il ponte, l’anello mancate, fra il mondo delle carte e il mondo delle cose, non lo doveva cercare lontano: era lì, nell’Autenrieth, in quei nostri laboratori fumosi, e nel nostro futuro mestiere.

E infine, e fondamentalmente: lui, ragazzo onesto ed aperto, non sentiva il puzzo delle verità fasciste che ammorbava il cielo, non percepiva come un’ignominia che ad un uomo pensante venisse richiesto di credere senza pensare? Non provava ribrezzo per tutti i dogmi, per tutte le affermazioni non dimostrate, per tutti gli imperativi? Lo provava: ed allora, come poteva non sentire nel nostro studio una dignità e una maestà nuove, come poteva ignorare che la chimica e la fisica di cui ci nutrivamo, oltre che alimenti di per sé vitali, erano l’antidoto al fascismo che lui ed io cercavamo, perché erano chiare e distinte e ad ogni passo verificabili, e non tessuti di menzogne e di vanità, come la radio e i giornali? Sandro mi ascoltava, con attenzione ironica, sempre pronto a smontarmi con due parole garbate e asciutte quando sconfinavo nella retorica: ma qualcosa maturava in lui (non certo solo per merito mio: erano mesi pieni di eventi fatali), qualcosa che lo turbava perché era insieme nuovo ed antico. Lui, che fino ad allora non aveva letto Salgari, London e Kipling, divenne di po un lettore furioso: digeriva e ricordava tutto, e tutto in lui si ordinava spontanmente in un sistema di vita; insieme, in minciò a studiare, e la sua media balzò dal 21 al 29.

Nello stesso tempo, per inconscì gratitudine, e forse anche per desiderio rivalsa, prese a sua volta ad occuparsi della mia educazione, e mi fece intendere che era mancante. Potevo anche aver ragione poteva essere la Materia la nostra maestra e magari anche, in mancanza di meglio, la nostra scuola politica; ma lui aveva un’altra materia a cui condurmi, un’altra educatrice: non le polverine di Qualitativa, ma quella vera, l’autentica Urstoff senza tempo, la pietra e il ghiaccio delle montagne vicine. Mi dimostrò senza fatica che non avevo le carte in regola per parlare di materia. Quale commercio, quale confidenza avevo io avuto, fino allora, coi quattro elementi di Empedocle? Sapevo accendere una stufa? Guadare un torrente? Conoscevo la tormenta in quota? Il germogliare dei semi? No, e dunque anche lui aveva qualcosa di vitale da insegnarmi.

Nacque un sodalizio, ed incominciò per me una stagione frenetica. Sandro sembrava fatto di ferro, ed era legato al ferro da una parentela antica: i padri dei suoi padri, mi raccontò, erano stati calderai (magnîn) e fabri (fré) delle valli canavesane, fabbricavano chiodi sulla forgia a carbone, cerchivano le ruote dei carri col cerchione rovente, battevano la lastra fino a che diventavano sordi: e lui stesso, quando ravvisava nella roccia la vena rossa del ferro, gli pareva di ritrovare un amico. D’inverno. quando gli attaccava secco, legava gli sci alla bicicletta rugginosa, partiva di buora, e pedalava fino alla neve, senza soldi con un carciofo in tasca e l’altra piena di insalata: tornava poi a sera, o anche il mattino dopo, dormendo nei fienili, e più tormenta e fame aveva patito, più era contento e meglio stava di salute. D’estate, quando partiva da solo, sovente è portava dietro il cane, che gli tenesse compagnia. Era un bastardetto giallo dall’aspetto umiliato: infatti, come Sandro mi aveva raccontato, mimando alla sua maniera l’episodio animalesco, aveva avuto cucciolo un infortunio con una gatta. Si era avvicinato troppo alla figliata dei gatti appena nati, la gatta si era impermalita, aveva cominciato a soffiare e si era gonfiata tutta: ma il cucciolo non aveva ancora imparato il significato di questi segnali, ed era rimasto lì come uno sciocco. La gatta lo aveva aggredito, inseguito, raggiunto e graffiato sul naso: il cane ne aveva riportato un trauma permanente. Si sentiva disonorato, e allora Sandro gli aveva costruito una pallottola di pezza, gli aveva spiegato che era un gatto, ed ogni mattino glielo presentava perché si vendicasse su di esso dell’affronto e restaurasse il suo onore canino. Per lo stesso motivo terapeutico Sandro lo portava in montagna, perché si svagasse: lo legava a un capo della corda, legava se stesso all’altro, metteva il cane bene accucciato su di un terrazzino, e poi saliva; quardandola corda era finita, lo tirava su gentilmente, e il cane aveva imparato, e camminava a muso in su con le quattro zampe contro la parete quasi verticale, uggiolando sottovoce come se sognasse.

Sandro andava su roccia più d’istinto che con tecnica, fidando nella forza delle mani, e salutando ironico, nell’appiglio a cui si afferrava, il silicio, il calcio e il magnesio che aveva imparati a riconoscere al corso di mineralogia. Gli pareva di aver perso giornata se non aveva dato fondo in quale modo alle sue riserve di energia, ed allora era anche più vivace il suo sguardo: e mi spiegò che, facendo vita sedentaria, si forma un deposito di grasso dietro agli occhi, che non è sano; faticando, il grasso si consuma, gli occhi arretrano in fondo alle occhiaie, e diventano più acuti.

Delle sue imprese parlava con estrema avarizia. Non era della razza di quelli che fanno le cose per poterle raccontare (come me): non amava le parole grosse, anzi, le parole. Sembrava che anche a parlare, come ad arrampicare, nessuno gli avesse insegnato; parlava come nessuno parla, diceva solo il nocciolo delle cose. Portava all’occorrenza trenta chili di sacco, ma di solito andava senza: gli bastavano le tasche, con dentro verdura, come ho detto, un pezzo di pane, un coltellino, qualche volta la guida del CAI, tutta sbertucciata, e sempre una matassa di filo di ferro per le riparazioni d’emergenza. La guida, poi, nonla portava perché ci credesse: anzi, perlaragione opposta. La rifiutava perché la sentiva come un vincolo; non solo, ma come una creatura bastarda, un ibrido detestabile di neve e roccia con carta. La portava in montagna per vilipenderla, felice se poteva coglierla in difetto, magari a spese sue e dei compagni di salita. Poteva camminare due giorni senza mangiare, o mangiare insieme tre pasti e poi partire.

Per lui, tutte le stagioni erano buone. L’inverno a sciare, ma non nelle stazioni attrezzate e mondane, che lui fuggiva con scherno laconico: troppo poveri per comperarci le pelli di foca per le salite mi aveva mostrato come ci si cuciono i teli di canapa ruvida strumenti spartani che assor bono l’acqua e poi gelano come merluzzi, e in discesa bisogna legarseli intorno alla vita. Mi trascinava in estenuanti cavalcate nella neve fresca, lontano da ogni traccia umana, seguendo itinerari che sembrava intuire come un selvaggio. D’estate, di rifugio in rifugio, ad ubriacarci di sole, di fatica e di vento, ed a limarci la pelle dei polpastrelli su roccia mai prima toccata da mano d’uomo: ma non sulle cime famose, né alla ricerca dell’impresa memorabile; di questo non gli importava proprio niente. Gli importava conoscere i suoi limiti, misurarsi e migliorarsi; più oscuramente, sentiva il bisogno di prepararsi (e di prepararmi) per un avvenire di ferro, di mese in mese più vicino.

Vedere Sandro in montagna riconciliava colvmondo, e faceva dimenticare l’incubo che gravava sull’Europa. Era il suo luogo, quello per cui era fatto, come le marmotte di cui imitava il fischio e il grifo: in montagnavdiventava felice, di una felicità silenziosa e contagiosa, come una luce che si accenda. Suscitava in me una comunione nuova con la terra e il cielo, in cui confluivano ilvmio bisogno di libertà, la pienezza delle forze, e la fame di capire le cose che mi avevano spinto alla chimica. Uscivamo all’aurora, strofinandoci gli occhi, dalla portinavdel bivacco Martinotti, ed ecco tutto intorno, appena toccate dal sole, le montagne candide e brune, nuove come create nella notte appena svanita, e insieme innumerabilmente antiche. Erano un’isola, un altrove.

Del resto, non sempre occorreva andare alto e lontano. Nelle mezze stagioni il regno di Sandro erano le palestre di roccia. Ce ne sono diverse, a due o tre ore di bicicletta da Torino, e sarei curioso di sapere se sono tuttora frequentate: i Picchi del Pagliaio con il Torrione Wolkmann, i Denti di Cumiana, Roca Patania (significa Roccia Nuda), il PI6, lo Sbarila, ed altri, dai nomi casalinghi e modesti. Quest’ultimo, lo Sbariia, mi pare fosse stato scoperto da Sandro stesso, o da un suo mitico fratello, che Sandro non mi fece mai vedere, ma che, dai suoi scarsi accenni, doveva stare a lui come lui stava alla generalità dei mortali. Sbariia è deverbio da «sbarié», che significa «spaurare»; lo Sbarila è un prisma di granito che sporge di un centinaio di metri da una modesta collina irta di rovi e di bosco ceduo: come il Veglio di Creta, e spaccato dalla base alla cima da una fenditura che si fa salendo via via più stretta, fino a costringere lo scalatore ad uscire in parete, dove, appunto, si spaura, e dove esisteva allora un singolo chiodo, lasciato caritatevolmente dal fratello di Sandro.

Erano quelli i curiosi luoghi, frequentati da poche decine di affezionati del nostro stampo, che Sandro conosceva tutti di nome o di vista: si saliva, non senza problemi tecnici, in mezzo ad un noioso ronzio di mosche bovine attirate dal nostro sudore, arrampicandosi per pareti di buona pietra salda interrotte da ripiani erbosi dove crescevano felci e fragole, o in autunno more: non di rado, si sfruttavano come appigli i tronchi di alberelli stenti, radicati nelle fenditure: e si arrivava dopo qualche ora alla cima, che non era una cima affatto, ma per lo più un placido pascolo, dove le vacche ci guardavano con occhi indifferenti. Si scendeva poi a rompicollo, in pochi minuti, per sentieri cosparsi di sterco vaccino antico e recente, a recuperare le biciclette. Altre volte erano imprese più impegnative: mai tranquille evasioni, poiché Sandro diceva che, per vedere i panorami, avremmo avuto tempo a quarant’anni. «DOma, neh?» mi disse un giorno, a febbraio: nel suo linguaggio, voleva dire che, essendo buono il tempo, avremmo potuto partire alla sera per l’ascensione invernale del Dente di M., che da qualche settimana era in programma. Dormimmo in una locanda e partimmo il giorno dopo, non troppo presto, ad un’ora imprecisata (Sandro non amava gli orologi: ne sentiva il tacito continuo ammonimento come un’intrusione arbitraria); ci cacciammo baldanzosamente nella nebbia, e ne uscimmo verso la una, in uno splendido sole, e sul crestone di una cima che non era quella buona.

Allora io dissi che avremmo potuto ridiscendere di un centinaio di metri, traversare a mezza costa e risalire per il costone successivo: o meglio ancora, già che c’eravamo, continuare a salire ed accontentarci della cima sbagliata, che tanto era solo quaranta metri più bassa dell’altra; ma Sandro, con splendida malafede, disse in poche sillabe dense che stava bene per la mia ultima proposta, ma che poi, «per la facile cresta nord-ovest» (era questa una sarcastica citazione dalla già nominata guida del CAI) avremmo raggiunto ugualmente, in mezz’ora, il Dente di M.; e che non valeva la pena di avere vent’anni se non ci si permetteva il lusso di sbagliare strada.

La facile cresta doveva bene essere facile, anzi elementare, d’estate, ma noi la trovammo in condizioni scomode. La roccia era bagnata sul versante al sole, e coperta di vetrato nero su quello in ombra; fra uno spuntone e l’altro c’erano sacche di neve fradicia dove si affondava fino alla cintura. Arrivammo in cima alle cinque, io tirando l’ala da far pena, Sandro in preda ad un’ilarità sinistra che io trovavo irritante.

– E per scendere? – Per scendere vedremo, – rispose; ed aggiunse misteriosamente: – Il peggio che ci possa capitare è di assaggiare la carne dell’orso -. Bene, la gustammo, la carne dell’orso, nel corso di quella notte, che trovammo lunga. Scendemmo in due ore, malamente aiutati dalla corda, che era gelata: era diventato un maligno groviglio rigido che si agganciava a tutti gli spuntoni, e suonava sulla roccia come un cavo da teleferica. Alle sette eravamo in riva a un laghetto ghiacciato, ed era buio. Mangiammo il peco che ci avanzava, costruimmo un futile muretto a secco dalla parte del vento e ci mettemmo a dormire per terra, serrati l’uno contro l’altro. Era come se anche il tempo si fosse congelato; ci alzavamo ogni tanto in piedi per riattivare la circolazione, ed era sempre la stessa ora: il vento soffiava sempre, c’era sempre uno spettro di luna. sempre allo stesso punto del cielo, e davanti alla luna una cavalcata fantastica di nuvole stracciate, sempre uguale. Ci eravamo tolte le scarpe, come descritto nei libri di Lammer cari a Sandro, e tenevamo i piedi nei sacchi; alla prima luce funerea. che pareva venire dalla neve e non dal cielo, ci levammo con le membra intormentite e gli occhi spiritati per la veglia, la fame e la durezza del giaciglio: e trovammo le scarpe talmente gelate che suonavano come campane, e per infilarle dovemmo covarle come fanno le galline. Ma tornammo a valle coi nostri mezzi, e al locandiere, che ci chiedeva ridacchiando come cela eravamo passata, e intanto sogguardava i nostri visi stralunati, rispondemmo sfrontatamente che avevamo fatto un’ottima gita, pagammo il conto e ce ne andammo con dignità. Era questa, la carne dell’orso: ed ora, che sono passati molti anni, rimpiango di averne mangiata poca, poiché, di tutto quanto la vita mi ha dato di buono, nulla ha avuto, neppure alla lontana, il sapore di quella carne, che è il sapore di essere forti e liberi, liberi anche di sbagliare, e padroni del proprio destino.

Perciò sono grato a Sandro per avermi messo coscientemente nei guai, in quella ed in altre imprese insensate solo in apparenza, e so con certezza che queste mi hanno servito più tardi. Non hanno servito a lui, o non a lungo. Sandro era Sandro Delmastro, il primo caduto del Comando Militare Piemontese del Partito d’Azione. Dopo pochi mesi di tensione estrema, nell’aprile del 1944 fu catturato dai fascisti, non si arrese e tentò la fuga dalla Casa Littoria di Cuneo. Fu ucciso, con una scarica di mitra alla nuca, da un mostruoso carnefice-bambino, uno di quegli sciagurati sgherri di quindici anni che la repubblica di Salò aveva arruolato nei riformatori. Il suo corpo rimase a lungo abbandonato in mezzo al viale, perché i fascisti avevano vietato alla popolazione di dargli sepoltura.

Primo Levi
(da “Il sistema periodico”, Einaudi, Torino 1975)
(Ripubblicato su Alp – numero 100 – Agosto 1993)

Nella foto Sandro Delmastro, in una foto pubblicata in rete dal suo pronipote Marco Delmastro

Gli anni della scoperta

Gli anni della scoperta

Ivan Guerini – Annuario 75° CAI Lissone 2007. Sarà stato d’inverno, o giù di lì, nel settantuno del secolo e del millennio appena trascorsi, quando conobbi alcuni arrampicatori della sezione del C.A.I. di Lissone. Ci trovavamo, assieme ai rispettivi compagni di cordata, alla Trattoria dello Zaccheo, punto d’incontro degli arrampicatori e degli alpinisti che andavano e venivano dalle pareti delle Corna di Medale nei sabati da fine inverno a metà primavera, una volta che s’abbandonava lo sci e si ricominciava ad arrampicare in vista della stagione estiva.

“Il Medale” ti faceva sentire, per ampiezza e ripidità della sua prospettiva, al centro di una parete insigne, caratterizzata da un terreno misto, con le rocce brizzolate dall’erba anziché dalla neve, che aveva pochi itinerari ripetuti, dai chiodi essenziali sui quali il buon senso vietava di cadere. Allora mica c’erano i “monotiri” dove specchiare la propria disinvoltura su passaggi e difficoltà che si conoscono a memoria: per riprendere la forma i più cominciavano direttamente con trecentottanta metri di diedri saldi ma già allora unti dall’usura, raccordati da lunghi tratti su blocchi saldati dalla terra, che qualche volta venivano via al grido di: SAAASSSOOO!

Zaccheo invece era l’alpino che gestiva la trattoria, un uomo saldo dalle mani forti, col viso inciso da rughe simili a solchi lasciati dai raggi di sole, ai quali non poteva certo sottrarsi facendo il contadino, e perennemente abbronzato: assomigliava ad Anthony Quinn in uno di quei film nei quali interpretava un marinaio; sempre disponibile, ti dava le informazioni sugli itinerari che non avevi ancora fatto e non aveva fatto nemmeno lui, ma che aveva sentito descrivere tante volte con entusiasmo dai rocciatori.

Di ritorno dalle vie si era spesso disidratati, giacché la forma concava della parete tratteneva implacabilmente l’irradiazione solare raddoppiandola nelle ore centrali del giorno e trasformando il tepore primaverile in caldo torrido. Allora si ordinava ”birra e gazzosa” e talvolta, quand’eri affamato per il fatto d’esser stato troppo a lungo su qualche via più impegnativa del solito, anche i formaggi caprini sott’olio.

Nella trattoria c’era una cartolina in bianco e nero della parete: gli itinerari erano segnati male, ma la foto era talmente nitida che ti dava la possibilità di notare le linee progressive dei diedri e dei pilastrini là dove non c’erano i tratteggi bianchi degli itinerari.

Proprio quella mancanza d’indicazioni divenne per me fonte d’ispirazione, perchè m’insegnò a notare tutto ciò che non era ancora stato percorso: fu così che credendo di salire nuovi itinerari mi trovai a ripetere per primo quelli compiuti nei decenni precedenti dai due forti arrampicatori Serafino Colnaghi e Mario Bianchi.

Oggi quella trattoria non c’è più e con lei anche la memoria di eventi e personaggi che ho appena citato è tramontata dietro il crinale delle generazioni succedutesi.

Nell’arco di qualche mese incontrai gli amici lissonesi in occasione di altre uscite, durante le quali, approfondendosi la reciproca conoscenza, essi giunsero a confidarmi le esperienze più severe vissute in montagna: salite effettuate in condizioni meteorologiche divenute repentinamente avverse e affrontate con ripari di fortuna; tragedie sfiorate per cadute di sassi o incidenti in parete.

Nel loro racconto mi aveva in particolare colpito il sangue freddo e la capacità di “razionalizzare” conservata anche nelle situazioni più difficili e drammatiche, a dimostrazione di grande preparazione mentale e di solido carattere.

Cose che “narrano i superstiti” potrebbe affermare oggi Lammer, forse smorzando la sua drastica etica. La mia curiosità e l’impressione destata da quei racconti, che mi sembrava illustrassero esperienze delle quali far tesoro poiché potevano accadere a tutti, acuirono il mio entusiasmo giovanile, facendomi riflettere sul fatto che i veri rischi e pericoli nei quali si poteva incorrere in montagna erano soprattutto la casualità e l’imprevisto.

Fortemente colpito dalle peripezie, dalla mirabolante maestria e dalla straordinaria Fortuna di quel gruppo di scalatori, pensai che essere iscritti alla sezione di Lissone del C.A.I. fosse senza ombra di dubbio garanzia di frequentare individui dotati del raro talento di saper schivare abilmente gli imprevisti, persone senza fisime e decisamente più alla mano degli intellettuali arrampicatori milanesi che avevo conosciuto.

Soprattutto avevano quel “pizzico d’immortalità” fondamentale per recarsi in montagna ben prima dello Spit, del Meteo Svizzero, del G.P.S, e dei cellulari oggi necessari per salutare la fidanzata dalla sommità d’un ottomila.

Assieme a loro nell’estate del ’73 mi recai alle Calanques e a salire il Pic d’Aneto, la vetta più alta dei Pirenei. L’anno successivo ripetemmo la precaria via artificiale di Cesare Maestri ed Ezio Alimonta sull’aggettante e sfaldata Rocca di San Leo, e in seguito ancora con loro e alcuni amici monzesi ci arrampicammo alla Sfinge per la via Elli, da sempre poco frequentata. Così mi resi conto che non sempre in montagna succede qualcosa di grave.

In quel tempo, nella storia dell’arrampicata Italiana ed Europea iniziava un processo di rinnovamento: a Courmayeur avevano importato dall’Inghilterra le prodigiose e assai strette pedule d’arrampicata con le quali gli Inglesi e gli Americani salivano da tempo difficoltà elevate in Free Climbing” mentre alla CAMP di Premana potevi trovare i primi nut, coi quali ci si poteva assicurare riducendo l’utilizzo dei chiodi in ”Clean Climbing”.

Nel primo anno del mio periodo d’iscrizione alla Sezione del C.A.I. di Lissone cominciò la mia ascesa esplorativa in montagna. Assieme ad un mio compagno di liceo feci quattro vie nuove su quattro montagne diverse, situate in quattro dei luoghi meno frequentati della Val Masino. In una di queste fu percorso il primo tratto di VII° delle Alpi Centrali, prima in montagna che in fondovalle e dunque ben tre anni prima del Precipizio degli Asteroidi.

Di lì a qualche tempo la Scala Welzenbach delle Difficoltà, ferma dal ’36 al sesto grado”, si sarebbe aperta verso l’alto anche grazie a quest’ultima salita.

Prima di tutto questo, avevo praticato spontaneamente l’arrampicata ad incastro sul calcare delle Prealpi Lombarde per evitare le facili lastre pericolanti che circondavano le più attraenti ma difficili fessure verticali, ignaro che si trattasse di un metodo di salita praticato sul granito della Yosemite Valley.

Erano quelli anni di fermento e d’inventiva, tanto che avevo chiamato “Antimedale” una parete mai presa in considerazione, salendola per la prima volta con un itinerario ancor oggi impegnativo; avevo inoltre praticato intensamente l’arrampicata sui massi della Val Masino e in modo del tutto naturale iniziato ad esplorare le lisce fiancate della Val di Mello.

Nella primavera del 1974, in occasione del pranzo sociale della Sezione al Cainallo, mi fu consegnata una targa d’argento per quelle salite: si trattò di un gesto che apprezzai, giacché nessuno prima d’allora aveva preso in considerazione il nostro entusiasmo giovanile di scopritori, proprio perché in quei tempi era consuetudine dar più valore alle ripetizioni degli itinerari più “difficili” e “classici” dell’epoca.

Il Presidente del CAI Lissone d’allora era Dario Schiantarelli, proprietario di una ditta che costruisce ancora oggi bei giocattoli e utili accessori per bimbi: da individuo schietto e lungimirante qual era si offrì di rifornirci di tutto il materiale che ci occorreva per salire pareti impraticate.

Il sottoscritto, che ”pensava alle pareti di giorno per sognarne di notte le salite”, richiese a negozi specializzati un numero spropositato di chiodi, nuts, corde e quant’altro per sé e per i compagni di cordata.

La spesa sostenuta per quell’acquisto non scompose per niente la ferrea determinazione da “capitano d’industria” di Dario, ed egli accettò di buon grado il fatto compiuto, considerandolo di buon auspicio per un futuro di salite impegnative. Le salite furono talmente numerose che i chiodi finirono molto presto!

Ora pochi sanno che in quel tempo esisteva una “succursale” decisamente singolare della Sezione di Lissone, nella quale ci si recava quando il CAI chiudeva i battenti: era la trattoria del Bar Gallo, dove c’erano ancora gli anziani che giocavano a bocce sotto il pergolato di glicine, i tavoli in legno, il ”calcetto”(non quello che s’intende oggi, bensì il biliardino) e dove la paziente signora che gestiva il locale ci faceva la pasta asciutta col vino bianco solo dopo mezzanotte.

Si trovava in una piazza al confine con Monza, dove vi era anche una chiesa, che sembrava sorvegliare a distanza agli schiamazzi e le ridde della compagnia che in quel locale s’era formata spontaneamente. L’atmosfera di quelle tarde ore pareva un fuoco che aveva per fiamme e per bagliori discorsi intensi e crepitanti entusiasmi avvolti dal manto silenzioso della notte: in essa ognuno dava il meglio di sé discutendo della vita e delle esperienze vissute e germogliavano idee un po’ folli e un po’ grandi, come quella di salire la Cassin del Medale di notte con la Luna piena, per rimanere poi straniti dalla scoperta che la luce diafana del vicino satellite evidenziava sulla roccia le linee d’ombra degli appigli e degli appoggi meglio che di giorno.

Esperienze esaltanti dunque, vissute non soltanto in Brianza, ma anche in luoghi lontani, raggiunti grazie alle ferie durante le quali si affrontavano impegnative trasferte, come quando, stipati in tre in un’utilitaria e guidando a turno senza soste per quattro giorni filati, arrivammo al vulcano Damavand in Persia. La salita di quella cima fu, dopo la protratta immobilità forzata del viaggio in auto, quasi un piacevole diversivo.

Quella compagnia non sarebbe per altro mai esistita senza la presenza di un personaggio formidabile, la cui memoria storica si è momentaneamente assopita ma potrebbe, conoscendo il personaggio, imprevedibilmente riaffiorare: ”Marietto”, un gigantesco e forzutissimo ragazzone dalla cassa toracica prominente e dalle energie assolutamente irrefrenabili, che avrebbe fatto la sua figura come capo di una gang di teddy-boys degli anni ’50 e che era la figura emblematica dell’iniziatore al ”senso della vita”.

Da solo era in grado di coricare su un fianco un’auto, di qualsiasi cilindrata con l’autista a bordo, giusto per fargli provare un’emozione simile all’inabissamento del Titanic; non contento di quelle ”prestazioni materiali” egli andò poi incontro anche ad una maturazione del carattere che lo portò a plasmare con etica saggezza la propria energia dirompente.

Elencare le “sperimentazioni esistenziali” compiute da ’Marietto” sarebbe troppo difficile, tuttavia ricordo come “pietra miliare” di questo percorso ideale la serata al Gallo durante la quale, da astemio qual ero, mi ritrovai per la prima volta un po’ brillo. Facendo l’equilibrista sul muro di cinta d’un collegio femminile, cosparso di cocci di vetro, saltai maldestramente e nel cadere m’incastrai nella biforcazione d’un albero, tanto che il mio secondo di cordata, in condizioni simili alle mie ed in preda alle risa, non riusciva a togliermi dall’impaccio di quella situazione imbarazzante.

Ci pensò l’ombra gigantesca di ”Marietto”, che comparve fulminea e, sollevandomi senza alcuno sforzo, caricò me su una spalla, il secondo sull’altra e ci coricò entrambi nel bagagliaio dell’auto, uno addosso all’altro come valigie umane, portandoci poi a casa senza batter ciglio alle prime luci del giorno.

A colazione mia madre commentò: “Se ieri non ci fosse stato Marietto a farti da angelo custode chissà quale tremenda sorte ti avrebbe riservato quella scorribanda!” “Quale scorribanda?” risposi io, del tutto dimentico di quella iniziazione.

Qualche anno dopo, di ritorno dal Parco di Monza, mi capitò di fermarmi con Monica al Bar Gallo per un calice e un panino: nella penombra della sala c’era sempre il vecchio disegno ingiallito dai bordi sbrecciati che illustrava i pesci dei fiumi e dei laghi Lombardi, ma sotto il pergolato non c’erano più gli anziani, le bocce erano immobili sulla sabbia e nell’aria estiva, tremolante per la calura, si sentiva solo il ronzio di qualche insetto ebbro per il profumo dolciastro del glicine.

Anni dopo ancora, passai là davanti in automobile assieme a Vasco Taldo, ma il Bar Gallo non c’era più: era diventato un ristorante cinese, mentre noi eravamo ancora diretti al Medale con lo spirito di sempre.

Ivan Guerini
Annuario 75° CAI Lissone 2007

Foto Iniziale: Rugge sul traverso della Cassin – 2019. Tassi del Moregallo

Picco Luigi Amedeo 1968

Picco Luigi Amedeo 1968

“La Val Torrone” di Tullio Speckenhauser – Aggiornamento alla Guida: «Masino – Bregaglia – Disgrazia» (edizione 1936). Rivista Mensile del Club Alpino Marzo 1968.

PICCO LUIGI AMEDEO m 2810 (IGM) – Il lungo crestone SSO del Pizzo Torrone Occidentale forma, prima di precipitare con una liscia parete sull’apertura NNE del Passo Val Torrone, una vetta rocciosa che, veduta salendo al bivacco Manzi, pare un acuto. torrione incombente con una enorme parete verticale di granito rossastro sulla Val Torrone.

Per la Parete Est m 500 c. (ore 21 dei primi salitori) – 6° grado superiore. 1° ascensione: N. Nusdeo, V. Taldo – 1 e 2 giugno 1959. Senza dubbio è una delle più difficili arrampicate del Gruppo Masino – Disgrazia. Data l’importanza della salita e le difficoltà estreme continue è opportuno descrivere ogni lunghezza di corda.

Dal bivacco Manzi, si segue il sentiero Roma fino alla base della parete (h. 0,40).

1) Si attacca circa 10 metri a destra di un grande masso posto sotto la verticale delle fessure che formano quel caratteristico naso visibile anche dal basso. Per fessure si sale fino a raggiungere un diedro obliquo orientato verso destra. Si segue il diedro fino al posto di fermata a 30 metri dall’attacco (6°).

2) Si attraversa a sinistra, fino a raggiungere la fessura che scende dal naso. Innalzandosi per 3 o 4 metri la fessura si raggiunge il posto di fermata (4°-5°).

3) Raggiungere il chiodo lasciato sotto il naso, che viene superato mediante 3 cunei. Superato il naso con 3 metri di arrampicata in Dulfer si raggiunge il posto di fermata dove ci si assicura con cunei (6°).

4) Proseguire per la fessura (3 cunei lasciati) fino al posto di fermata, sotto il tetto che chiude la fessura.

5) Attraversare a sinistra per 2 metri sotto il tetto fino a raggiungere le scaglie instabili, che portano ad una fessura strapiombante. Superare la fessura che presenta scarse possibilità di piantare chiodi (6° superiore) fin dove è possibile sormontarla e piegare verso destra in arrampicata libera (4°). Si raggiunge così un comodo posto di fermata.

6) Si supera uno strapiombo di rocce instabili (5° super.) quindi per rocce rotte si raggiunge la nicchia visibile anche dal basso al centro della parete (posto di bivacco dei primi salitori).

7) Si sale per la parete a destra del camino fin dove esso strapiomba (4°). (Il posto di fermata si trova al disotto dello strapiombo).

8) Superato lo strapiombo, si prosegue per un diedro fin quando esso termina (40 metri di 5° e 6°).

9 e 10) Puntare verso l’enorme grotta triangolare cui si perviene con due lunghezze di corda su rocce instabili (4° e 5°). Nonostante la sua vastità, data la pendenza della sua base la grotta non presenta alcuna possibilità di bivacco.

11) La grotta si presenta a forma di triangolo alto 30 metri, al cui vertice superiore si apre la fessura che permette di proseguire la salita. Per raggiungerla è necessario affrontare la parete di destra all’interno della grotta (guardando dal posto di fermata verso il cielo). Si attraversa per 2 metri (chiodo) quindi, in trazione, si raggiunge una fessura che si risale con arrampicata estremamente difficile. Le fessure cieche non permettono di piantare chiodi sicuri. Raggiunta la strozzatura strapiombante, ci si incastra dentro e si sale fino a un comodo posto di fermata (6° grado super.).

12-13) Si risale il grande camino per due lunghezze di corda fino a raggiungere un cuneo di legno con chiodo (4°).

14) Dal chiodo ci si abbassa leggermente per un paio di metri verso destra fino al diedro inclinato che porta sotto un saltino strapiombante. Si supera in arrampicata liberalo strapiombo e si prosegue fino ad esaurimento della corda (5° gr.; fermata sui chiodi).

15) Si supera a chiodi un piccolo diedro; quindi si attraversa decisamente verso sinistra fino ad un posto di fermata (5° e 6°).

16) Si punta verso il diedro giallo sovrastante. Dalla sua base ci si sposta per 3 metri a sinistra, fino al posto di fermata (5°).

17) Si affronta un diedro nero, caratterizzato da numeroste fessurine mal chiodabili. Si prosegue per il diedro fino allo scomodo posto di fermata situato sulla parete di destra del diedro stesso, 4 metri sotto il grande tetto che preclude la salita (6°).

18) Si si porta sotto il tetto. Quindi, chiodando verso sinistra, si raggiunge una serie di fessure che, dopo 30 metri di arrampicata libera, portano al posto di fermata sotto grandi strapiombi gialli (5° e 6°).

19) Di qui, si attraversa a sinistra per circa 15 metri, per un sistema di piccoli diedri (cuneo) si raggiunge uno spigolo dal quale, spostandosi a sinistra si perviene alle piode della vetta.

Si consiglia il seguente materiale: 35 moschettoni, 25 chiodi Cassin normali, 10 chiodi a U medi e lunghi, 10 cunei di legno grossi, 2 corde di 40 m, 5 staffe, attrezzatura normale di bivacco. I primi salitori sconsigliavano di proseguire, durante la prima giornata di salita, oltre il loro bivacco, in quanto la parete non presenta nessuna possibilità di riposo fin sopra la grande grotta triangolare. (R.M. n. 11-12.1961).

Via di discesa – per la cresta NNE e versante ONO (1 ora c.).

Per la grande placca poco inclinata si scende alla piccola breccia fra le due vette. Si risale la 2° vetta; ci si cala quindi per un erto spigolo e per la placca sommitale, tenendosi verso la Val di Zocca, fino ad un breve diedro. Per agevoli rocce si segue la cresta spartiacque fino ad un cengione che porta ad un canaletto; ci si cala e per rocce facili si perviene ad una cengia di rocce discendenti verso destra, che porta alla base della vetta. Costeggiando la base della parete O si è in breve sul sentiero Roma e di qui attraverso il Passo Val Torrone, in Val Torrone

Tullio Speckenhauser
(C.A.I. Sez. Valtellinese e C.A.A.I.)
Relazione Storica anno 1968 di una via del 1956.

Foto a colori pubblicata sul web da Valentino Cividini nel 2005, foto in bianco e nero pubblicata nell’articolo originale di Tullio Speckenhauser del 1968 e realizzata da Vasco Taldo. 

Ago di Sciora invernale

Ago di Sciora invernale

AGO DI SCIORA – 3201 m – Spigolo ovest-nord ovest, 1a ascensione invernale: Elio Scarabelli (Sez. di Como), Rino Zocchi (Sez. di Como), Daniele Chiappa (Sez. di Belledo), 7-8-9 marzo 1971. Ore di arrampicata effettiva: 28 ad una temperatura fra i -15° e i -28°. 

“D’inverno sullo sperone O-NO dell’Ago di Sciora” di Rino Zocchi – Rivista Mensile del Club Alpino Italiano. Anno 92, N°12 Dicembre 1971.

Sotto la nostra piccola tendina rossa e marrone, assicurati a quattro chiodi e col fornello acceso, cerchiamo di vincere le morse del freddo intenso che sopportiamo ormai da tre giorni. Ancora due o tre lunghezze di corda, borbottiamo fra noi, e poi ce l’abbiamo fatta e con grande emozione lanciamo due razzi verdi per segnalare a Dino, laggiù a Bondo, che tutto procede regolarmente; e la risposta convenuta ci dà fiducia, ci fa sentire meno soli.

È il secondo bivacco che effettuiamo sul filo di questo sperone ed è il terzo giorno che fatichiamo; non ci nascondiamo di essere provati, ma l’equipaggiamento valido ed omogeneo, la studiata attrezzatura, la perfetta intesa ed il tempo eccezionalmente bello, anche se caratterizzato da una temperatura rigidissima, sono elementi più che sufficienti per renderci sicuri ormai di riuscire.

Le luci di Soglio intanto, una cinquantina in tutto, brillano tremolanti nella valle buia e ci tengono compagnia assieme alla luna che illumina tutto lo splendido anfiteatro della Bondasca.

Quassù regnano una pace assoluta ed un silenzio esaltante, rotti di tanto in tanto da un fastidioso vento che giostra nel ballatoio su cui siamo appollaiati e che scuote con discrezione la parete gelata della nostra angusta dimora e la ferraglia appesa a qualche metro da noi.

Stretti uno vicino all’altro, impacciati nei movimenti da tanto siamo imbottiti, ci scambiamo i viveri preferiti tenendo a turno fra le ginocchia l’utilissimo fornello e fra le mani il pentolino colmo di neve.

La cengia è stretta, troppo piccola per noi tre che, stanchi, vorremmo sdraiarci, e oltretutto la sua inclinazione verso l’esterno ci obbliga ad assumere una posizione scomodissima: tutti con le gambe penzoloni e appoggiati con la schiena alla parete, leggermente strapiombante. Non riusciamo a chiudere occhio per tutta la notte, una delle tante notti lunghissime che caratterizzano l’inverno, e fra uno spintone, un’imprecazione, una parola d’incoraggiamento, giungono (puntuali come sempre) le immancabili fantasticherie dei nostri pensieri, che ben presto si accavallano, si moltiplicano, corrono con una rapidità eccezionale portandoci (non a caso) sulle cime delle altre famosissime montagne che ci circondano: Trubinasche, S. Anna, Badile, Céngalo, Gemelli, Sciore, Innominata.

Ripercorriamo ad una ad una tutte le vie tracciate su di esse e ricordiamo soprattutto quelle da noi percorse; poi inevitabilmente gli accenni cadono sull’attività invernale svolta in questo versante, caratterizzata quasi sempre da diversi tentativi, ed ai risultati conseguiti (tutti di prestigio) sia nei canaloni che su pareti o creste.

Passiamo in rassegna con precisione nomi e date, che per oltre quindici anni hanno richiamato l’attenzione del mondo alpinistico su questo selvaggio e meraviglioso angolo delle Retiche. Scopriamo così che l’alpinismo invernale in Bondasca ha inizio proprio con tre comaschi, che nel 1957 percorrono il Canalone del Céngalo, seguiti dopo quattro anni da altri comaschi lungo il Canalone dei Gemelli; ad Elio, che era fra questi ultimi, non sembra vero che siano già passati dieci anni da quel giorno e guarda con insistenza e nostalgia quello scivolo ghiacciato che sta proprio di fronte a noi, rischiarato per metà dalla luna. Nel 1965 tre «ragni di Lecco» risolvono il primo grande problema su roccia della valle: il fantastico Spigolo Nord del Badile, richiamando ancor più l’attenzione, già viva del resto, per l’altra ciclopica via su questa splendida montagna: la Cassin alla parete nord est. I tentativi per superare questa caratteristica ed enorme pala di granito sono molti, da parte di fortissime cordate sia italiane che straniere, ma solo nel ’68, con circa dieci giorni di scalata, una perfetta intesa italo-elvetica riesce a far raggiungere a sei alpinisti la cima del Badile. Nel frattempo comaschi e lecchesi percorrono d’inverno altri due itinerari in ghiaccio tracciati dal fortissimo Klucker: i canaloni nord ovest alla Forcola di Sciora e al Colle della Scioretta.

Terminata questa meravigliosa rassegna, piombiamo tutti e tre con un gran tonfo nella realtà del nostro bivacco; le ore passano con una lentezza esasperante, sembra quasi che si divertano a farci accendere in continuazione le nostre pile.

Per far trascorrere il tempo spostiamo i pensieri sulla nostra salita ripetendo lunghezza dopo lunghezza tutta l’ascensione: dalla crepaccia terminale, superata senza difficoltà, al primo tratto nel canalone su neve ottima e al lungo traverso, che ci impegna prima di raggiungere la grande cengia, finalmente riscaldati dal pur debole sole invernale.

Con enorme stupore constatiamo che la cengia si nasconde completamente sotto uno scivolo ripidissimo di neve fresca che, per essere superato, richiede molta attenzione senza poter avere

in pratica un minimo di sicurezza. Poi uno stretto camino-canale che immette su un altro pendìo dalla penderiza eccezionale ci porta a circa due lunghezze di corda dalla cresta vera e propria. È qui che effettuiamo il primo bivacco, su una piccola balza di rocce ottime, che ripulite accuratamente ci offrono una discreta sistemazione, poco sotto ad un chiodo di via che al vederlo ci tranquillizza non poco poiché ci conferma che siamo sull’itinerario giusto.

Impieghiamo alcune ore a prepararci per bene e lanciamo poi un razzo verde, prima di ritirarci nella nostra tendina, sporgendo il capo di tanto in tanto e a turno per controllare il tempo.

Iniziamo qui le lagnanze di Daniele, che comincia a rendersi conto di non poter essere a casa per lunedì a prendere le redini della sua azienda di acque gasate, visto che anche il fratello Roberto se ne è andato in Civetta con altri quattro o cinque compagni per salire la Philipp-Flamm, e preoccupatissimo per il lavoro supplementare che si dovrà sobbarcare il padre. Non ci sarà frase, d’ora in poi, in cui in un modo o nell’altro egli non faccia riferimento alle sue care ed amate gassose; Elio ed io sappiamo tutto, ormai, sulle sue bibite: ingredienti usati, costo vivo per ogni tipo, modalità di preparazione e di trasporto e non manchiamo ogni tanto di stuzzicarlo bonariamente e di rassicurarlo che, dato il freddo intenso, saranno pochi i clienti ad effettuare vistose ordinazioni.

Al mattino seguente decidiamo di iniziare l’arrampicata in quattro… chiedo scusa, in tre più il sacco, il quale però per peso, posizione in cordata e importanza, potrebbe essere considerato degnamente il quarto componente; Elio prende deciso il comando, superando con eleganza un colatoio vetrato molto delicato, la cui uscita richiede una spaccata alquanto esposta, e successivamente una serie di placche cosparse di neve, che portano in prossimità dello spigolo. Con un’altra lunghezza siamo finalmente sullo sperone vero e proprio. Mentre dal basso, osservato anche col cannocchiale, sembrava avere le rocce pulite, qui ci offre appigli e appoggi completamente intasati di neve, per fortuna abbastanza polverosa. Entra in funzione a questo punto lo «scopino» (utilissimo anzi indispensabile) che pur scandalizzando i «puri», contribuisce a rendere più sicura e veloce l’arrampicata.

La biforcuta vetta dell’Ago, col passar delle ore, si avvicina sempre di più e ormai la nostra attenzione è concentrata al massimo sul modo di superare la sua parte finale; ci rammentiamo del giudizio di Bonacossa scritto sulla guida Màsino-Bregaglia-Disgrazia «arditissimo pinnacolo di granito, una delle vette più caratteristiche della regione» e guardandolo con insistenza confermiamo senza dubbio questa felice ed esatta descrizione.

Non ci resta ora che valutare le due possibilità che ci si presentano: seguire la via originale di Risch, che aggira il pinnacolo con un gran traverso per poi raggiungere la vetta della cresta ovest, od affrontare la via diretta, senz’altro più impegnativa, ma di maggior valore, il cui problema è dato (in inverno) dai diedri verticali, dalle rispettive uscite e dalle placche che li congiungono.

Sono già le 17 ed incomincia a far buio; siamo molto stanchi, ma con risolutezza attacchiamo i diedri, decisi ad arrivare almeno alla cengia per passare la notte tutti e tre riuniti sotto la tendina in maniera almeno sopportabile.

Elio, con la sua calma eccezionale e la sua indiscussa bravura, risolve questo problema arrampicando ormai al buio e intuendo i passaggi e le difficoltà come solo un alpinista di gran classe può fare; mi rendo conto ancora una volta, in questa circostanza, come abbia potuto percorrere da solo la Cassin al Badile in tre ore e mezza. Lo assicuriamo in due e lo sentiamo procedere con lentezza, ma inesorabilmente, senza vederlo; la sua posizione la intuiamo dal rumore dei chiodi che pianta e dai moschettoni che sbattono sordamente contro l’ottimo granito.

Non impreca, non brontola, anzi sembra allegro dalle poche parole che ci comunica e alla fine, dopo due lunghezze durissime, lo raggiungiamo definitivamente anche noi due.

E così siamo riuniti tutti e tre per passare la seconda notte, dopo aver arrampicato ininterrottamente per tredici ore senza aver bevuto un solo sorso di tè, senza aver mangiato un sol dattero, ma sempre di corsa, nella speranza di poter risolvere la salita in giornata. Non riusciamo ed è forse meglio, perché la cima affilatissima ed aerea, non ci consentirebbe di predisporre la tendina.

E quando alle 9 di martedì le nostre mani, che risentono di qualche leggero sìntomo di congelamento, per aver arrampicato senza guanti nei tratti più impegnativi, si stringono con forza dopo aver concluso l’ascensione, non possiamo nasconderci l’un l’altro la gioia e la commozione che ci assalgono; vediamo ora le montagne circostanti con altri occhi, con altro animo: oltre alla Bondasca, dalla quale siamo ormai usciti, ci appaiono nel loro candido manto invernale anche le altre valli vicine: dell’Albigna, del Ferrey, di Zocca, di Porcellizzo.individuando ad una ad una tutte le loro cime, molte delle quali già salite.

Felici come poche altre volte, rimaniamo senza parlare per parecchio tempo a cavalcioni di una colossale lastra di granito, guardando lontano e fissando ora questa, ora quella parete, ora l’una, ora l’altra delle innumerevoli catene montagnose che ci circondano; passano attraverso la nostra mente altri nomi, altre date, altri ricordi; sono momenti d’èstasi che ci fanno dimenticare la lunga fatica portata a termine da poco, momenti descritti da molti alpinisti con fiumi di parole e che noi viviamo ora in silenziosa, ma intensa contemplazione.

Il tempo sta per cambiare, il sole è reso opaco da un alone di foschìa che non prelude certamente al bello ed è quindi nostra intenzione essere fuori dalle difficoltà al più presto possibile; preparando accuratamente le doppie ci accorgiamo con grande sorpresa di aver due delle tre corde tranciate, per fortuna in punti che non pregiudicano interamente il loro impiego. I nodi che siamo costretti a predisporre per scendere con una maggior sicurezza fanno smuovere un masso di notevoli proporzioni proprio mentre Elio sta scendendo.

Daniele ed io, dopo aver udito un boato assordante, notiamo le corde delle doppie allentarsi e quella di sicurezza senza peso; restiamo paralizzati; temiamo il peggio e chiamiamo il nostro compagno con la voce rotta dall’ansia e dal terrore sperando non ne sia rimasto investito: nessuna risposta, nessun segno di vita; solo i continui tonfi e il disperdersi nel vuoto del masso frantumatosi sulle rocce sottostanti.

Finalmente un suo richiamo ci tranquillizza e con fredda decisione lo raggiungiamo ansiosi di sapere cosa sia successo: Niente di particolare — ci spiega con tutta tranquillità — quando ho sentito arrivare il masso, mi sono spostato rapidamente e mi sono aggrappato ad uno spuntone solido, temendo appunto che le corde subissero qualche rottura e poi, constatata la loro piena efficienza, ho ripreso a scendere.

Dopo altre doppie, non ci resta che raggiungere per una cresta di neve la Forcola di Sciora e scendere il ripido, ma corto canale che ci porta nell’alto circo dell’Albigna.

Ora, finalmente, possiamo sdraiarci sulla neve in posizione orizzontale, completamente rilassati, e lanciare dalla gioia razzi bianchi, verdi ed anche rossi… sì rossi, tanto Dino nell’altro versante ormai non li può più vedere e non può quindi pensar male.

Rino Zocchi
(Sezione CAI Como)


CRONISTORIA DELLE PRIME INVERNALI DELLA VAL BONDASCA

  • 18 marzo 1957 – Colle del Céngalo – Canalone Klucker: Bernasconi – Masciadri – Meroni.
  • 12 marzo 1961 – Colle dei Gemelli – Canalone Klucker: Noseda Pedraglio  – Compagnoni – Meroni – Scarabelli.
  • 21-23 marzo 1965 – Pizzo Badile – Spigolo Nord – Via Risch: Anghileri – Ferrari – Negri.
  • 8 gennaio 1967 – Forcola di Sciora – Canalone Klucker: Longhi – Balestrini – Colonna – Jàkel.
  • 22 dicembre 1967, 2 gennaio 1968 – Pizzo Badile – Parete Nord Est – Via Cassin: Armando – Calcagno – Gogna; Bornissen – Darbellay – Troillet.
  • 9 marzo 1969 – Colle della Scioretta – Canalone Klucker: Maresi – Trovati.
  • 10-11 marzo 1969 – Sciora di Fuori – Spigolo Nord Ovest – Via Simon: Neeracher – Nigg.
  • 14-20 marzo 1970 – Pizzo Badile – Sperone Est Nord- Est – Via del Fratello: A. e G. Rusconi.
  • 5-15 febbraio 1971 – Pizzo Cengalo – Parete Nord – Via Piacco: A. e G. Rusconi – Fabbrica – Steinkotter – Tessari.
  • 7-9 marzo 1971 – Ago di Sciora – Spigolo Ovest Nord-Ovest – Via Risch: Scarbelli – Zocchi – Chiappa.
Bruno Detassis

Bruno Detassis

“Il signore del Brenta” intervista di Nanni Villani (Rivista della Montagna 1983) – Rifugio Alberto e Maria al Brentei, punto di partenza per alcune tre le più belle arrampicate dolomitiche, al centro di un vallone chiuso al fondo dalla figura della Brenta Bassa, quasi raccolta e delicata se confrontata con le impressionanti muraglie del Crozzon e le slanciate figure dei campanili sui due lati. A pochi metri dal rifugio uno strano trespolo, o forse meglio una sorta di leggio, giusto due pezzi di legno inchiodati, ed una specie di sgabello ricavato dallo stesso legno dalle venature marcate. Quale mai l’uso? Due giorni sono trascorsi prima di sapere. L’ho visto per la prima volta proprio seduto lì, il Bruno, le braccia appoggiate al leggio immaginario, nelle mani un binocolo con cui segue passo a passo la salita di due ragazzi spagnoli che quella mattina hanno attaccato la sua «Via delle Guide». «Eh no, ragazzo, traversi troppo a destra»; le parole, quasi bisbiglio, ricreano un legame, meglio una simbiosi uomo-parete sicuramente unica nella storia dell’alpinismo.

Bruno Detassis aprì con Enrico Giordani la «Via delle Guide» sulla parete nord est del Crozzon di Brenta nel luglio del 1935. Nel 1949, prigionia in Germania e guerra nonché una gloriosa carriera alpinistica alle spalle, sarebbe diventato gestore del rifugio Brentei, proprio di fronte al Crozzon, continuando così a ripercorrere idealmente nel succedersi delle estati quella salita, diventata nel frattempo fondamentale banco di proava per intere generazioni di arrampicatori.

Giudicata tra le scalate più impegnative dell’epoca, la via è testimone del formidabile intuito, con traversate ed aggiramenti che non sminuiscono l’eleganza della via stessa e sfruttano appieno le linee naturali di salita offerte dalla montagna, che ha contrassegnato l’iter alpinistico di un personaggio come Bruno Detassis, grande e importante al di là delle pareti che lo videro primo salitore, perché figura che mal sopporta gli stretti abiti del semplice grande alpinista. «Vivevo in una città pedemontana, facevo il fabbro e l’idraulico, e la passione per la montagna, fin dall’inizio, aveva una radice nella libertà dei miei istinti. lo andavo per prati e per boschi, mi interessavo alla storia della montagna, e ne attaccavo le pareti provando un versante e poi l’altro: comunque ho sempre ammirato andare in cima dalla via più facile, gli altri versanti venivano dopo. Passando dal primo al quarto grado noi facciamo quasi tutte le cime del mondo: vorrei vivere migliaia di anni per poterle salire tutte senza superare il quarto grado. Il resto è acrobazia, che io ammiro e che rappresenta l’evoluzione».

«Ho fatto la guida tra una licenza e l’altra, perché sono stato militare quasi quarant’anni. No, scherzo: comunque ho fatto la prigionia, e nella guerra del Quaranta ho fatto tutti i fronti, un po’ con Castiglioni e un po’ con la Tridentina». «Facevo la professione e nelle giornate libere andavo per conto mio. Ho fatto la guida proprio perché potevo rimanere in montagna, per la mia passione per la montagna. Se no, avrei fatto il fabbro». Nelle giornate libere, come lui stesso le definisce, Detassis risolve alcuni de maggiori problemi alpinistici degli Anni Trenta, in particolare nel gruppo del Brenta, pur non disdegnando frequenti puntate, spesso con Castiglioni, per la pubblicazione di guide, nelle Pale di San Martino e nel gruppo della Marmolada.

Nel 1933 supera, sempre con Castiglioni, la parete nord est della Cima Tosa, e un anno più tardi, in due giorni, con Ulisse Battistata ed Enrico Giordani, fa sua la parete nord est della Brenta Alta, per una via che proprio in questi ultimissimi anni è stata riscoperta al punto da essere considerata uno dei più interessanti itinerari alpinistici delle Dolomiti, su roccia ideale e di difficoltà sempre assai sostenute. Il 1935 è l’anno della già citata «Via delle Guide», cui segue nell’agosto del 1937, con l’altro fortissimo arrampicatore trentino Giorgio Graffer, il superamento del pilastro della parete est della Cima Tosa, la maggiore impresa di Detassis sotto il profilo delle pure difficoltà tecniche, di ordine estremo specie nella parte iniziale della salita. Dato fondamentale, tutti i percorsi sono svolti con minimo impiego di chiodi, all’insegna di una arrampicata libera tirata spesso al limite.

Testimonianza del livello di preminenza e polivalenza raggiunto da Detassis nell’alpinismo pre-bellico è la partecipazione (1937, con Pirovano) dell’arrampicatore trentino alla lotta per la conquista della parete nord dell’Eiger. «Cassin, e altri, lavoravano negli arsenali. Avanguardisti. Poi gli davano quindici giorni di ferie pagate, che gli altri non avevano. lo non so se è vero, immagino. Dall’altra parte c’era Hitler, e così è venuta fuori la lotta per l’Eiger, vera lotta per nazioni. L’alpinista andava per fare, ma dietro c’erano i giornali, la letteratura… Comunque, se uno partiva per l’Eiger lo faceva con passione, preparazione, intelligenza, e partiva solo se pensava di poter ritornare».

Oggi piove, niente produzione. Una noia sottile e stagnante gonfia il rifugio, perché, se ognuno prova delle sensazioni diverse arrampicando sulla medesima via, a voce le sequenze dei passaggi sono sempre le stesse, nel racconto il quinto può anche diventare quarto, i chiodi pioli per la solita scala da galline, e la pioggia continua a cadere. Spunta invidiatissimo un mazzo di carte. Forse solo al Brentei, tra tutti i rifugi delle Alpi, la pioggia può essere occasione di quelle da non perdere. Perché spesso capita che un vecchio, i lunghi capelli, così come la barba, più grigi che bianchi, ad incorniciare una faccia dalle rughe scavate e dal colore sano di chi in montagna ne ha viste proprio tante, incominci a parlare e raccontare, e non solo sul filo dei ricordi, ma anche nel segno di una filosofia di vita che gli permette, anche con persone di cinquant’anni più giovani, di discutere e consigliare, di capire e giudicare.

Non a caso Detassis dimostra sempre una sensibilità per l’evoluzione dell’alpinismo, si parli di scale di valutazione, di tecnica e di allenamenti, quanto di spinte e motivazioni, che ne fa un interlocutore da ascoltare sempre con attenzione, poiché dotato di una chiarezza e un’attualità che stupiscono». «L’alpinismo è un grande libro da seguire con un punto di domanda al fondo della pagina, perché dietro comincia l’altra pagina». «Si pensa di fare agonismo, ma è difficile farne nell’alpinismo: alpinismo è ideale e passione, e vale prima di tutto per se stessi. Alpinista è anche chi va sui sentieri ed in cima proprio seguendo i sentieri. Quando uno ha ottant’anni si accorge degli errori fatti, della fortuna che ha avuto ad essere qui a parlare in questo momento, e può dare l’esempio ai giovani». «Prendiamo le rivalità: le rivalità muoiono. Ma in tutto c’è rivalità, anche tra le pentole di smalto e quelle inox. Una dice: ‘perché io sono di smalto e tu sei invece così bella?” E così anche nell’alpinismo, e se tu sei stato più bravo di me a passare dove io non sono riuscito, bene, questa è la via del progresso. Ma questa è già acrobazia, perché si tenta da vie sempre più difficili». «lo ho fatto anche molta ginnastica nel tempo libero. Oggi i giovani dicono che bisogna allenarsi, che bisogna tenersi su con un dito. lo battevo la mazza dodici ore al giorno, ed anche la gente dei miei tempi si teneva su con un dito. Non c’è novità, al massimo c’è quella del magnesio, ché noi dovevamo asciugarci sui pantaloni». «Non accetto nell’alpinismo il cronometro, perché non fa tener conto della prudenza: e i giovani oggi non mi sembra credano molto all’importanza della prudenza. Se nell’alpinismo si vuole portare la testa a casa, perché è la testa che comanda, ci vuole il calcolo. Però non bisogna screditare i giovani, perché in un senso o nell’altro rappresentano l’evoluzione: dopo sarà la montagna medesima a prendere o a scartare».

La modernità del personaggio alpinisticamente parlando, diventa più spiegabile se si pensa che Detassis, pur compiendo come già ricordato le imprese più prestigiose della propria carriera negli Anni Trenta, ha continuato ad arrampicare fin dopo i sessant’anni, ed è rimasto nel giro del grande alpinismo fin quasi agli Anni Sessanta, quando guidò nel 1957, forte della presenza di Cesare Maestri, la spedizione trentina al Cerro Torre in Patagonia.

La porta del rifugio si apre di colpo, ed una strana figura ne esce con passo deciso. Un paio di scarponi ai piedi, una tuta blu da meccanico, uno spesso paraorecchie in lana moda Anni Quaranta. Nella soleggiata mattina di inizio agosto, la goffa sagoma si avvicina al casotto di arrivo della teleferica collegata al fondovalle, si rannicchia all’interno del piccolo carrello tra bottiglie vuote e lenzuola sporche, e in un attimo sparisce velocissima lungo il filo. Il tempo è prezioso, specie quando si è superata una certa età, ed ogni tanto Bruno si concede — ma non sarà anche il richiamo all’ebrezza del vuoto? — una discesa a valle degna di un numero da trapezista.

Figlio di un sindacalista irridentista, Bruno arriva all’alpinismo molto giovane: inizia ad arrampicare a dodici anni, a quindici sale per la prima volta il Campanile Basso. Sul Basso, una delle poche cime del Brenta dove non traccia una nuova via, compie comunque la prima invernale con Serafino Serafini nel febbraio del 49, pochi mesi prima di salirvi per la centesima volta.

Solo sulla Cima Tosa, quasi a compensazione, apre cinque nuove vie nell’arco di ventinove anni: nel ’33 la parete nord est e la sud sud ovest con Castiglioni, nel ’37 con Graffer il pilastro della parete est, nel ’52 col fratello Catullo e Marino Stenico la parete ovest, infine, dieci anni dopo, con i fratelli Catullo e Giordano, ennesima via sulla parete nord est.

Come già ricordato l’attività in proprio si alterna con la professione di guida esercitata a partire dai venticinque anni, ed è ulteriormente arricchita da imprese quali la prima traversata scialpinistica delle Alpi. Molti grandi alpinisti, terminata l’epoca delle grandi imprese personali, si sono allontanati dalle cime quando queste hanno smesso le sembianze di strumento con cui appagare la propria sete di conquista, avventura ed anche affermazione. Bruno Detassis è invece uomo di montagna, e dell’ambiente alpino ha assimilato con gli anni elementi sempre diversi, realizzando un rapporto continuo e completo. Così oggi, ad oltre settant’anni, se la montagna stessa non è più impresa, pur sempre rappresenta terreno non avaro di soddisfazioni; basta imparare ad apprezzare quelle che egli stesso definisce le «piccole cose», che sono le forme e i colori della montagna e le storie degli uomini che la frequentano, la cui scoperta giornaliera impone sensazioni sicuramente meno violente di quelle dei giorni delle grandi salite, ma non meno intense.

Una vita senza rimpianti? — «Un rimpianto ce l’ho, ostia. E che dovevo scrivere di più e invece ho scritto poco perché è difficile. Oggi ho uno che fa un libro per me, un teologo, l’unico teologo con cui vado d’accordo perché loro hanno una mentalità e io un’altra. Lui scrive per me, però bisogna vedere cosa scrive, se no finisce nel fuoco anche quel libro lì. La montagna cosa ti dà? Vento e tormenta, traversate, ghiaccio e camini. Tu imposti così un libro su pareti ghiaccio e camini: “ho allargato le gambe, le ho strette, ho alzato la mano…” Se tu non fai un romanzo la montagna non vale niente, e la verità della montagna non c’è più. Se io ti dico: “ostia, in quel bivacco lì ho patito, etc. etc.”, hai ragione di dirmi: “stai a casa, cosa vai a patire”. Cerco di fare un libro della vita, mettendo anche la parte alpinistica che ha appartenuto alla mia vita. Ma è difficile che un grande alpinista, quello che ha vinto certe difficoltà, sappia scrivere. Come me molti altri arrivano da una manovalanza di cultura. Per scrivere ci vuole la penna, perché devi trasmettere agli altri quello che pensi, e non è facile. Messner sì che è bravo, ma ha una cultura, ed è già fuori da noi o almeno da me. Ti fa il libro di verità e il libro di commercio. Basta, ho già parlato troppo. E vedete voi giovani vedete come siete? Non pagate neanche da bere».


Dolomiti Anni Trenta

  • Sotto un sole che fu
    “Cose e fatti di Dolomiti Anni Trenta” di Roberto Mantovani
    (Rivista della Montagna 1983).
  • Gino Soldà
    “Un vicentino sulla Marmolada” intervista di Stefano Ardito
    (Rivista della Montagna 1983).

  • Bruno Detassis
    “Il signore del Brenta” intervista di Nanni Villani
    (Rivista della Montagna 1983)

  • Luigi Micheluzzi
    “Il primo sesto grado italiano sulle Dolomiti” di Enrico Camanni
    (La rivista della Montagna 1983).

Luigi Micheluzzi

Luigi Micheluzzi

“Il primo sesto grado italiano sulle Dolomiti” di Enrico Camanni (La rivista della Montagna 1982).  A lungo, e inutilmente, si è cercato di datare il primo sesto grado della storia dell’alpinismo, di quello italiano in particolare. A conti fatti penso che si tratti di un’operazione impossibile, perché sono troppi i fattori e le variabili storiche, psicologiche, soggettive e oggettive che condizionano una scalata nel momento in cui viene realizzata. Per esempio è vero che Solleder, superando nel 1925 il suo incredibile itinerario sulla parete nord ovest della Civetta, è andato probabilmente oltre ai limiti in arrampicata di quegli anni, ma molto probabilmente lo stesso Solleder e altri suoi compagni della prestigiosa Scuola di Monaco avevano già superato simili difficoltà sulle proprie pareti di casa.

L’evoluzione è troppo rapida e complessa per poter fissare delle date e delle tappe imprescindibili. Molto più produttivo e interessante si presenta, sulla base dei singoli exploit e delle singole evoluzioni, il confronto delle diverse scuole e dei diversi gruppi di arrampicatori che, nella stessa epoca storica, hanno operato in un determinato gruppo montuoso. In quest’ottica particolare si può veramente parlare di superamento dei limiti, delle inibizioni, insomma di raggiungimento del sesto grado inteso come barriera limite raggiunta in arrampicata.

Il sesto grado degli Anni Venti e Trenta coincide con la massima difficoltà ipotizzata, proprio in quel periodo storico, dall’alpinista della Scuola di Monaco Willy Welzenbach. Nello stesso periodo, in Italia, l’unico alpinista ad avere le idee veramente chiare su ciò che hanno fatto i tedeschi in roccia, e su quali livelli si stia sviluppando l’arrampicata in Dolomiti, è Domenico Rudatis, di educazione e tradizione colta cittadina. Lo stesso Emilio Comici di Trieste, che pure si era misurato con la Solleder alla Civetta (senza riuscire a passare), maturerà solo più tardi la sua chiara concezione dell’arrampicata. Siamo alla fine degli Anni Venti, quando si realizzano in brevissimo tempo le tre imprese italiane — allora poste sullo stesso livello da giornalisti specializzati come Vittorio Varale — che segneranno un passo avanti fondamentale, soprattutto a livello psicologico, perché per prime reggeranno il confronto con le pre stazioni della Scuola di Monaco. Infrangeranno insomma quella che era diventata in quegli anni la grande barriera proibita.

L’anno è il 1929, i protagonisti sono gli stessi Rudatis e Comici, oltre alla sconosciuta guida fassana Luigi Micheluzzi. Rudatis cercava apertamente di eguagliare la via di Solleder in Civetta (erano ormai quattro anni che quest’itinerario reggeva e superava il confronto con qualsiasi altra realizzazione italiana) e riuscì nel suo intento a poca distanza dalla grande parete nord ovest, salendo con Renzo Videsott e con il tedesco Leo Rittler l’altissimo spigolo ovest della Busazza; Rittler, che aveva già ripetuto la Solleder, stimò le due vie pressoché equivalenti come difficoltà.

Rudatis scrisse a Varale poco tempo dopo la salita, commentandola in questi termini: «…abbiamo posto cinque chiodi su ben 1000 metri durante la scalata, e ciò dimostra perfettamente il grado di purezza di stile. Siamo pervenuti anche noi, guide e non guide, all’estremo delle difficoltà. A constatarlo, in cordata con noi, un arrampicatore di Monaco di Baviera il quale detiene il record delle salite estremamente difficili». E ben presente, nella filosofia tedesca così come in quella di Rudatis, la rigorosa concezione di purezza di stile introdotta e testimoniata anni prima da Paul Preuss.

Durante la stessa estate Emilio Comici e Giordano Bruno Fabian salgono la parete nord ovest della Sorella di Mezzo (Tre Sorelle-Sorapis). Anche questa via eguaglia la Solleder, senza superarla. L’impresa fu reclamizzata più di ogni altra dell’epoca, anche se lo stesso Comici — a differenza di Rudatis — non osa esprimere nella relazione la definizione di sesto grado, limitandosi al termine di «estremamente difficile» con chiaro riferimento all’oggettivazione della Scala di Monaco. Il concetto è lo stesso, ma la definizione resta più generica e meno impegnativa.

L’anno successivo tutti gli alpinisti italiani saranno informati della portata delle due imprese attraverso il Bollettino del CAI. La terza realizzazione del 1929 è di gran lunga la più importante delle tre, ma passeranno anni prima che venga resa pubblica e inquadrata nel suo reale valore. Si tratta della prima salita del Pilastro sud della Marmolada di Penia, superato il 6/7 settembre dalla guida di Canazei Luigi Micheluzzi con Roberto Perathoner e Demetrio Christomannos: 550 metri di dislivello con difficoltà indubitabilmente superiori alla Solleder, passaggi di VI superiore, meno dr dieci chiodi usati su tutta la via (oggi in parete ce ne sono una cinquantina e oltre). Secondo alcuni ripetitori moderni, la Micheluzzi sarebbe dello stesso livello di difficoltà della via Soldà e della via Vinatzer aperte molti anni dopo sulla stessa parete e classificate giustamente di VI sup. Secondo altri ripetitori moderni i passaggi in arrampicata libera sarebbero ancora superiori a quelli della stessa Soldà, equivalenti a quelli della via di Vinatzer. La direttiva dell’ascensione è una linea ideale, che si svolge tutto a sinistra della grande gola che solca verticalmene la parete della Punta di Penia, con una serie quasi continua di camini e fessure, sulla stretta faccia destra del pilastro.

Dunque un exploit eccezionale, del tutto sottovalutato, che infrange una grande barriera psicologica e getta le premesse, sul finire degli Anni Venti, di quello che sarà nel decennio successivo il periodo d’oro dell’alpinismo dolomitico italiano. Micheluzzi, senza rendersene conto, aveva superato il limite degli arrampicatori tedeschi in arrampicata pura e aveva anche superato in arditezza e in purezza dell’itinerario la concezione più ardita della Scuola di Monaco; il tutto con solo sette chiodi, secondo l’etica più esemplare di Preuss.

La confusa relazione che Micheluzzi invia all’Annuario della SAT nel 1930 non rende per nulla ragione del valore della salita, per il semplice fatto che la giovane guida di Canazei era di umile cultura valligiana e non era assolutamente al corrente di tutta la complessa problematica sviluppatasi intorno ai limiti delle difficoltà in arrampicata. Nella chiusura della relazione si legge semplicemente: «La salita è difficilissima, presenta ostacoli che non possono essere superati che dalla cooperazione di al meno due esperti alpinisti».

Ma partiamo dalla situazione culturale in cui si muoveva l’alpinismo dolomitico di allora, in particolare valligiano. Sul finire degli Anni Venti, le due guide che a giudizio internazionale esprimevano le maggiori capacità erano Piaz e Dibona. Due personalità nettamente differenti: schivo, modesto e silenzioso Dibona, «un vero principe della montagna — come lo definisce argutamente l’alpinista triestino Piero Slocovich — dotato di una signorilità innata, pieno di dignità professionale e nello stesso tempo pieno di rispetto per il proprio cliente, di cui capiva immediatamente pregi e difetti»; Piaz, al contrario, estroso e stravagante, maestro non solo nell’arte di arrampicare ma anche in quella della pubblicità: ricordiamo la sua “sacrilega” traversata a corda della Guglia De Amicis, tanto per fare un esempio. Si trattava comunque «di guide venerande, che ispiravano immenso rispetto e soggezione ed esercitavano un fascino incomparabile… Ambiente fascinoso: a Cortina (dove passavano ancora giardiniere a cavalli, qualche rara macchina aperta, bianca di polvere e i torpedoni rossi, pure aperti delle SAD, che facevano in sei ore il percorso Cortina-Bolzano) di fronte all’albergo Croce di Malta, dove oggi ci sono le vetrine della CIT, c’era un grande bancone di legno dove, alla sera, sedevano le grandi guide di quelle Dolomiti: il vecchissimo Verzi (quello della Tofana e dei Cadini) con i lunghi baffoni spioventi, gialli di tabacco, l’agile e scattante Barbaria (quello del Becco di Mezzodì) e, sommo fra tutti, Angelo Dibona… Altro punto d’incontro era il Vaiolét, dominio esclusivo di Piaz, il quale dettava legge sull’uso o non uso di chiodi di assicurazione, difendeva o accusava senza pietà gli arrampicatori le cui prime erano oggetto di discussione… Questo era il mondo idilliaco in cui feci le mie prime esperienze. La folgore che lo sconvolse fu la notizia delle incredibili imprese di Solleder in Civetta e di Simon e Rossi al Pelmo. Per suscitare oggi uno choc paragonabile alla notizia della caduta della Civetta, bisognerebbe sentire che qualcuno ha fatto l’Eiger d’inverno, con una gamba sola, in solitaria!» (P. Slocovich, Cinquant’anni di Quarto grado. Riv. Mensile del CAI n. 9/1973).

È in quest’ambiente dolomitico dal sapore antico e tradizionale, dove le guide più forti sono strabiliate e annichilite di fronte alle imprese dei tedeschi, che Luigi Micheluzzi — guida lui stesso e valligiano come loro — realizza la prima salita diretta della parete sud della Marmolada. Illustre spettatore all’impresa è lo stesso Tita Piaz, che sta salendo con la contessa Scheiler di Milano lungo la via classica della sud. All’alba del 6 settembre, su proposta dell’amico alpinista Roberto Perathoner che trovandosi al rifugio Contrin ai primi di settembre aveva assistito a un ennesimo fallimento di una cordata tedesca sulla diretta della sud, Micheluzzi è già alla forcella d’Ombretta, ormai deciso a tentare la grande prima, sicuramente spinto anche lui dall’acceso spirito nazionalista del tempo. Della cordata fa parte anche Demetrio Christomannos, aggiuntosi all’ultimo momento. La determinazione psicologica di Micheluzzi è tale che la salita gli riesce di slancio, in trenta ore di arrampicata, attrezzato soltanto di martello, sette chiodi e una corda di canapa. La leggenda narra infine che egli avesse da mangiare solo una “luganega” infilata di traverso in una tasca dei pantaloni, e che questa gli sia sfuggita di tasca insieme alla pipa durante uno dei passaggi più duri. Si racconta anche che dopo il bivacco, reso molto penoso dal freddo e da un getto d’acqua gelata che scendeva dal colatoio superiore, la volontà di Perathoner si fosse incrinata al punto da far prendere in considerazione la rinuncia. Fu Micheluzzi a ristabilire il morale del gruppo, affrontando con decisione il passaggio chiave superiore, che lui stesso in seguito continuò poi a definire come «straordinariamente difficile».

Alla salita, festeggiata solo tra le guide della valle di Fassa, fece seguito un’inadeguata considerazione da parte degli alpinisti italiani e addirittura l’incredulità dei tedeschi; fino alla prima ripetizione della cordata Stòsser-Kast (già avevano più volte tentato senza successo l’impresa) che fu decisamente considerata come una prima salita dall’ambiente germanico. Qui scoppiò la decisa polemica, nella quale Tita Piaz ebbe un ruolo determinante in difesa di Micheluzzi, con memorabili arringhe che dimostrarono con gli anni l’autenticità delle dichiarazioni della guida fassana. Solo nel 1933 si giunse ad una chiara smentita da parte di una rivista specializzata tedesca che, tra l’altro, muoveva i giusti elogi agli alpinisti italiani protagonisti dell’impresa.

Micheluzzi, nato il 16 luglio del 1900 a Canazei, aveva cominciato ad arrampicare verso i 18 anni; in brevissimo tempo conobbe tutti i massicci dolomitici, ripetendo numerosi tra gli itinerari più difficili dell’epoca. Scrive Tommaso Magalotti (Una guida del sesto grado, coraggio e semplicità di Luigi Micheluzzi. Riv. Mensile del CAI nov.-dic. 1976).

«Divenne guida valentissima e molto apprezzata. La sua passione alpina, il suo mestiere, si realizzarono soprattutto sulle montagne di Fassa (nel 1935 egli aprì con Ettore Castiglioni il bellissimo itinerario sulla parete sud del Piz Ciavazes — oggi classicissimo — caratterizzata da una spettacolare traversata di 90 metri tra due fasce di strapiombi, n.d.a.), sulle Pale di San Martino, sulle Dolomiti Cortinesi, nel Gruppo del Brenta ove compì la prima ripetizione della via Preuss al Campanile Basso (impresa importantissima specie da un punto di vista psicologico, perché poco prima vi avevano perso la vita Bianchi e Prati, n.d.a.). Era una guida disponibile,

pronto ad assecondare le più disparate esigenze della sua numerosa clientela di cui — al di fuori del rango di appartenenza ed in termini di estrema chiarezza — non esitava ad enunciare qualità e difetti. Il fatto che fossero molti coloro che si rivolgevano a Micheluzzi per essere accompagnati in ascensioni o in arrampicate un po’ su tutto l’arco dolomitico, alimentò, in quella prima metà del secolo, non poche polemiche nei suoi riguardi, soprattutto da parte delle guide delle altre vallate, che lamentavano la frequente comparsa sulle montagne di casa loro, di un ‘foresto” alla cui corda erano spesso legate alte personalità sia italiane che straniere»

E ancora Slocovich ricorda: …«Negli anni 1928, 1929, 1930 arrampicai dietro al grande Micheluzzi, arrampicatore non elegante, ma estremamente dotato ed ardito, usammo questi (leggi pochissi- mi, n.d.a.) chiodi di assicurazione: uno alla fine della prima lunghezza di corda alla Preuss del Basso (stavamo facendo la prima ripetizione italiana, seconda assoluta, ed eravamo sotto l’incubo della catastrofe di Bianchi e Prati, precipitati proprio sui primi venti metri due anni prima) che non aveva naturalmente chiodi di sorta; due nella prima salita della parete del Piz Ciavazes (a destra del caminone), due nella prima salita della Nord della Roda del Mulon… Ma Micheluzzi non chiodava se non in caso estremo e aveva quel «coraggio da leone» di cui così autorevolmente parla Rudatis» (c.f.r. articolo citato).

Dunque una personalità estremamente libera e moderna, ispirata e creativa nel senso più ricco del termine. Un personaggio che non divenne mai tale, e che seppe inserirsi in modo magistrale nella storia alpinistica di quegli anni anche senza l’influenza determinante dello spirito intellettuale di un Rudatis, o di una scuola tecnica e dinamica come quella che si era formata negli anni trenta tra Belluno e Vicenza. Un montanaro legato alla sua vallata che si è trasformato in arrampicatore moderno senza aver mai avuto piena coscienza di ciò. Micheluzzi è morto, stroncato da infarto, il 18 febbraio 1976 a Canazei.


Dolomiti Anni Trenta

  • Sotto un sole che fu
    “Cose e fatti di Dolomiti Anni Trenta” di Roberto Mantovani
    (Rivista della Montagna 1983).
  • Gino Soldà
    “Un vicentino sulla Marmolada” intervista di Stefano Ardito
    (Rivista della Montagna 1983).

  • Bruno Detassis
    “Il signore del Brenta” intervista di Nanni Villani
    (Rivista della Montagna 1983)

  • Luigi Micheluzzi
    “Il primo sesto grado italiano sulle Dolomiti” di Enrico Camanni
    (La rivista della Montagna 1983).

Sotto un sole che fu

Sotto un sole che fu

“Cose e fatti di Dolomiti Anni Trenta” di Roberto Mantovani (Rivista della Montagna 1983). Esiste nella storia dell’alpinismo italiano, un momento mitico e affascinante che si può comprendere solo se ci si avvicina a fatti e vicende di quel periodo in maniera umile, lasciando cadere i luoghi comuni della storiografia tradizionale. E’ il periodo che va dal 1929 al 1939, l’epoca d’oro del grado nelle Dolomiti, denso di avvenimenti grandissimi e a torto un po’ dimenticati. Un’epoca che a distanza di cinquant’anni esercita ancora una profonda emozione, quasi che certi vissuti odierni potessero trovare là le loro radici, il loro alimento primario.

Le avvisaglie di un grosso sommovimento nel mondo alpinistico si erano già avute nel breve periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. Poi gli arrampicatori della scuola di Monaco avevano dato colpi decisivi ai limiti raggiunti in precedenza, che parevano invalicabili. E furono mirabilissime imprese, prima realizzate sul calcare del Kaisergebirge e in seguito nelle Dolomiti delle Alpi occidentali.

Ma l’esplosione del fenomeno, che divenne poi movimento corale, quasi che l’lo collettivo di un universo locale, quello delle Alpi orientali, fosse stato attirato nel vortice di un’energia potentissima, si ebbe solo tra la fine degli Anni Venti e il decennio successivo, per opera di alpinisti veneti, trentini, giuliani.

E non a caso, in un periodo storico particolare, quello compreso tra le due guerre, venendo a sollevare la situazione di ristagno successivo all’esplosione delle forze distruttive, volute o subite, nel primo conflitto mondiale.

Sono i nomi grandi dell’epoca, nomi in qualche caso adoperati in maniera meschina dalla propaganda di regime, e che occorrerebbe riportare nella giusta luce, quella che permette di rendere giustizia sulla base dei fatti e delle intuizioni: Gino Soldà, Attilio Tissi, Luigi Micheluzzi, Giovanni Andrich e più tardi il fratello Alvise, Bruno Detassis, Gian Battista Vinatzer, Celso Gilberti, Emilio Comici e infine Umberto Conforto e Franco Bertoldi, la cui salita sulla parete della Marmolada d’Ombretta alla vigilia della guerra del ’40 sembra richiudere una porta per quanto riguarda l’arrampicata dolomitica.

L’ultimo itinerario del periodo, quello appena citato, è una via di montagna nel senso più severo del termine, qualcosa che simbolicamente sembra voglia far volgere lo sguardo verso ovest, verso le Alpi occidentali dove Gervasutti è ancora lontano dalla conclusione del suo discorso.

Analizzando i racconti dei protagonisti, i commenti dei ripetitori, e visualizzando gli itinerari di allora, tracciati quasi tutti su pareti aperte, scaturisce in maniera più che netta l’impressione dell’esistenza di un rapporto con la montagna che dà a pensare, soprattutto oggi, che siamo spettatori della superlibera e del free più spinto.

Insomma, al di là degli anni, si ha l’impressione di riconoscere — e non solo con l’intelletto — gli attimi di una profonda comunicazione tra gli strati più nascosti e oscuri dell’umano e l’anima della montagna. Si pensi ai lunghi tiri di corda su terreno verticale, difficile, strapiombante, qualche volta friabile, senza un chiodo, senza un rinvio. E sempre c’era la sicurezza di passare, una sicurezza interiore che quasi quasi ti fa toccare con mano l’energia di cui prima si parlava.

Il fatto curioso, al di là di quanto ci si potrebbe attendere, è che in mezzo a tutto il fiorire di imprese stupefacenti, i racconti dei protagonisti e le pagine più genuine della letteratura alpinistica dell’epoca sono molto distanti dai toni drammatici, sanguigni e di partecipazione quasi viscerale del Romanticismo tedesco. Qui c’è invece la consapevolezza di trovarsi a fare dell’alpinismo a livello altissimo con una semplicità ed umiltà che hanno dell’incredibile, se pensiamo alle strombazzate che la cultura di regime rendeva allora più che legittime.

Accanto a tutti i grandi nomi citati, ma in posizione diversa, proprio per il ruolo che si trovò a svolgere, si erge la figura di Domenico Rudatis, personaggio un po’ misterioso, spesso discusso e anche temuto. Profondo conoscitore delle filosofie orientali e del pensiero di Nietzscke, valentissimo arrampicatore, critico e studioso della storia dell’alpinismo, in una serie di appassionati articoli e di scritti esercitò un influsso decisivo nell’impulso verso la “grande arrampicata”.

Facendo convergere la dottrina taoista e il sapere nietszchiano, Rudatis arrivò a concepire l’alpinismo come un raffinato strumento per avvicinarsi, nella pura potenza dell’atto in sé, libero da scopi materiali immediati e scaturito dalla pura volontà, al centro integrale dell’Essere, all’essenza dell’lo. Nelle forze scatenate nel momento magico dell’arrampicata, nell’agire libero da ambizioni e da meschinità, liberando le forze primordiali della natura, si realizzerebbe la rottura della spirale della casualità, della crosta del mondo fenomenico, aprendo la strada alla conoscenza reale.

Nietzsche e il Karma Yoga. La potenza che spezza il velo delle apparenze e la coscienza che esperimenta la vacuità delle cose. Ma è proprio nell’arrampicata, intesa come sforzo, come pura potenza che trascende il contingente, come «dover essere», che può annidarsi la tentazione di poter giocare con il potere. E la tentazione ci fu, vuoi per l’incomprensione dei termini più genuini del messaggio o, peggio, per il tradimento del medesimo. Sta di fatto che, ad un certo punto, qualche debolezza per il potere spicciolo si inserì là dove non avrebbe dovuto penetrare. Ma questo è un discorso che ci porterebbe troppo in là.

È comunque vero che le idee di Rudatis portarono all’alpinismo molti giovani e, trovando l’humus adatto a germogliare, misero profonde radici. Ed è il caso dei trentini Giorgio Graffer e Renzo Videsott, ma soprattutto di Attilio Tissi, Agordino, e Giovanni Andrich, fortissimi arrampicatori attorno ai quali prese ben presto corpo un nutrito gruppo di bellunesi, tra cui figurano Checo Zanetti, Ernani Faè, Attilio Zancristoforo, Furio Bianchet, e più tardi Alvise Andrich, alpinisti che sempre si distinsero per precise scelte etiche che rifiutavano assolutamente l’artificialismo.

La tradizione del gruppo sarà poi continuata anche dal trentino Bruno Detassis, il Signore del Brenia e dal fortissimo valgardenese Giovan Battista Vinazer il quale ha legato il proprio nome a vie come quelle che percorrono la parete nord della Furchetta e la sud della Marmolada di Rocca. A lato dei bellunesi, proveniente dal cupo e misterioso mondo delle doline calcaree dell’estremero d’Italia e dalle guglie delle Alpi Giulie, bisogna riordare dare Emilio Comici, il primo vero iniziatore di quell’arrampicata artificiale che spezzò sul nascere la proibizione, il divieto maniacale e assoluto di forare la roccia che si stava imponendo. Un’arrampicata che, proprio per il tipo di rapporto a cui costringe l’alpinista che ne fa uso per tracciare una nuova via su terreno sconosciuto, può anche divenire estremamente creativa.

La sua sarà la strada che verrà poi seguita dal gruppo dei vicentini Raffaele Carlesso, Gino Soldà, Bortolo Sandri e Mario Menti, autori di magnifiche vie sullePiccole Dolomiti e sulle Dolomiti propriamente dette. In coda a tutti questi personaggi, intanto, già appare l’ombra un po’ angosciante di una perfetta macchina da arrampicare, decisa e potente, Riccardo Cassin, che getta i suoi semi tra le guglie dolomitiche, aprendo nuove vie in parallelo ai grandi itinerari di pochi anni prima, ma che correrà presto verso occidente, nel regno delle altezze e delle glaciali pareti nord dove si sarebbero giocate di lì a poco le carte decisive di quella storia che abbiamo ancora sotto agli occhi.

Nelle pagine che seguono, presentiamo due dei massimi esponenti dell’arrampicata dolomitica degli anni trenta, Bruno Detassis e Gino Soldà, già fautori delle diverse tendenze poc’anzi accennate e cerchiamo di far luce su uno degli eroi sconosciuti di quel periodo, un arrampicatore sempre rimasto nell’ombra, ingiustamente: Luigi Micheluzzi.

Emani Faè, esponente del gruppo dei bellunesi, arrampicò dapprima con i «vecchi» del gruppo e, in seguito, col più giovane Alvise Andrich, con cui aprì una via sulla parete nord ovest della P.ta Civetta in due giorni di durissima salita.

Gian Battista Vinatzer, valgardenese, è uno dei personaggi chiave della storia dell’alpinismo dolomitico degli Anni Trenta, e solo in tempi recenti è stato inquadrato nella giusta luce. Il suo nome è legato alla parete nord della Furchetta e all’itinerario aperto con Castiglioni, nel 1936, sulla parete sud della Marmolada di Rocca.

Raffaele Carlesso, vicentino, fu caposcuola nelle Piccole Dolomiti, ma realizzò anche grandissime imprese in Civetta, come la parete sud della Torre Trieste, il suo capolavoro indiscusso. Un’impresa che innalzò di gradino il livello dell’arrampicata nel gruppo. Pur essendo molto versatile in arrampicata libera, Carlesso fu tra i primi esponenti dell’artiticialismo.

Alvise Andrich, uno dei personaggi più rappresentativi degli arrampicatori bellunesi, è di 13 anni più giovane del fratello Giovanni. Fortissimo arrampicatore in libera, audace fin quasi ai limiti dell’incoscienza, portò a termine un gran numero di vie. Tra tutte, la sua impresa più famosa e bella è senz’altro la parete Ovest del la P.ta Civetta, raggiunta per la fessura di sinistra, dritta, elegante,che incide tutta la parete nella sua lunghezza.

L’agordino Giovanni Andrich, grande amico di Attilio Tissi, del quale fu spesso secondo di cordata, divenne l’artefice di una nutrita serie di successi alpinistici che risollevarono l’arrampicata italiana dallo stato di appannamento in cui era caduta dopo i grandi successi di austriaci e tedeschi. Nel 1930 portò a compimento con Tissi la prima salita italiana della via Solleder-Lettenbauer sulla parete nord ovest della P.ta Civetta.

Domenico Rudatis è il personaggio chiave per capire gli sviluppi dell’alpinismo dolomitico degli Anni. Trenta. Intellettuale, profondo conoscitore delle filosofie orientali, fu anche un valente alpinista. Arrampicò prima col trentino Renzo Videsott e poi col gruppo dei bellunesi, partecipando ad imprese di grido, come la salita al Pan di Zucchero nel 1928, lo spigolo della Busazza, e la nord ovest della Sorella di Mezzo nel 1929.

Emilio Comici è il vero iniziatore: dell’artificialismo nelle Dolomiti. Ciò che contava, per lui, oltre alla salita in sé, era il modo in cui veniva condotta, l’ascensione, lo stile, l’eleganza, dell’arrampicata, la perfezione estetica del gesto.

Riccardo Cassin, un personaggio fin troppo noto per essere presentato. Apprese le tecniche della corda e del chiodo in Grigna, in occasione di una dimostrazione di Comici; si dedicherà in seguito alle Dolomiti e alle Alpi . occidentali. Tra le sue ascensioni dolomitiche, ricordiamo la parete sud est della Piccolissima di Lavaredo, lo spigolo sud est della Torre Trieste e la parete nord della Cima Ovest di Lavaredo. Più che uno scopritore di vie, Cassin fu comunque un grande risolutore dei problemi alpinistici del momento, pareti e spigoli sui quali si erano già infranti i tentativi di altri scalatori.


Dolomiti Anni Trenta

  • Sotto un sole che fu
    “Cose e fatti di Dolomiti Anni Trenta” di Roberto Mantovani
    (Rivista della Montagna 1983).
  • Gino Soldà
    “Un vicentino sulla Marmolada” intervista di Stefano Ardito
    (Rivista della Montagna 1983).

  • Bruno Detassis
    “Il signore del Brenta” intervista di Nanni Villani
    (Rivista della Montagna 1983)

  • Luigi Micheluzzi
    “Il primo sesto grado italiano sulle Dolomiti” di Enrico Camanni
    (La rivista della Montagna 1983).

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