Oggioni e le tre Cassin
[Le mani sulla roccia – Diario alpinistico Andrea Oggioni] L’anno 1950 lo inizio allenandomi in Grignetta; sento di essere molto migliorato nella tecnica e nello stile. Infatti sulle stesse vie salite in allenamento l’anno scorso, mi trovo molto più a mio agio, mi stanco meno e mi sembrano perfino facili. Però l’anno è cominciato sotto cattivi auspici. Emilio Villa, mio compagno di tante scalate, cade dalla via Comici ai Corni del Nibbio. La sua tragica fine mi lasciò abbattuto e smarrito. Per superare lo «choc», la domenica seguente vado proprio alla via Comici per ricostruire l’accaduto a modo mio, e per vincere un certo timore che sta per impadronirsi di me.
Continuo senza interruzione i miei allenamenti, resi però saltuari dal persistente cattivo tempo e quando arriva giugno non si può proprio dire che io sia allenatissimo. Tuttavia, con Luigi Galbiati, mi porto nelle Dolomiti, e precisamente alle tre Cime di Lavaredo, ove compio una salita dello spigolo Mazzorana sulla Cima Grande. Qualche giorno dopo, sempre con Galbiati, salgo sulla Cima Piccola ; per lo Spigolo Giallo. Anche qui, una persistente pioggerella ci accompagna durante la discesa.
Matura il desiderio. di portare a termine la ripetizione di un altro grande problema risolto da Cassin: la parete nord della Cima Ovest di Lavaredo. Se ce la farò, sarò il primo alpinista che abbia ripetuto i tre grandi itinerari di Cassin: la nord-est del Pizzo Badile, la Walker alle Grandes Jorasses e la nord della Cima Ovest di Lavaredo. Vorrei completare la triade in fretta, prima di entrare nel mio ventesimo anno di età.
Così, vado alla forcella Lavaredo per esaminare da vicino la famosa parete. Ritorno dall’esplorazione alquanto impressionato, quella visione di continui strapiombi e tetti gialli non è certo fatta per tranquillizzare il mio spirito; malgrado tutto mi dispongo a tentare.
Rientrato a Monza, non mi ci vuol molto a convincere l’amico Aiazzi, e con lui riparto quindi per Misurina. Il giorno dopo, carichi delle nostre attrezzature, giriamo la forcella Lavaredo, costeggiamo quindi gli appicchi nord della Piccolissima, della Frida, della Piccola, della Grande e infine quello più severo della Cima Ovest.
Legatici, iniziamo l’arrampicata lungo lo spigolo ovest. È giallastro, un poco friabile; proseguiamo per circa 200 metri fino al punto in cui ha inizio la famosa traversata. L’affronto tenendomi il più aderente possibile alla parete: coi piedi su una minuscola cengia avanzo centimetro per centimetro; con la testa faccio pressione contro il soffitto che mi sovrasta. Dopo una decina di metri, avanzando senza l’aiuto di chiodi, la cengia finisce, e sotto di me, con enormi tetti, la parete strapiomba con un salto nel vuoto di 250 metri. In questo punto per una buona mezz’ora lavoro accanitamente per arrivare a un chiodo ma quando l’ho raggiunto mi resta fra le mani: sono costretto a calarmi nel vuoto per 5 o 6 metri fino a una seconda piccola cengia molto friabile. Proseguo verso il centro della parete aggrappandomi con le mani al bordo della cengia e puntando la punta delle pedule contro la roccia: più tardi, con un sospiro di sollievo, raggiungo un friabilissimo posto di sosta. Qui per maggiore precauzione pianto due chiodi di sicurezza.
Ora tocca al mio compagno: Josve parte sicuro ed arrivato al famoso chiodo è costretto a un pendolo volontario per raggiungere la cengia più bassa. Il pendolo funziona a dovere, ma la corda di 12 millimetri si impiglia in uno spuntone: per liberarsi, l’unica soluzione in quel frangente è di slegarsi dalla corda impigliata. Così Josve avanza lungo la cengia tenuto soltanto dalla corda di 10 millimetri. Improvvisamente le mani del mio compagno di cordata staccano un appiglio: lo vedo prima sbilanciarsi e poi cadere nel vuoto… Il colpo della corda sui chiodi è secco, ma riesco ugualmente a tenerli: Josve rimane a pendolare nel vuoto, fin quando riesco a buttargli la corda di 12 millimetri.
Aggrappato ad una delle funi, mentre io ritiro l’altra Josve mi raggiunge. Giunto al mio fianco, prima ancora di tirare il fiato mi investe: — Cos’hai da fare quella faccia da funerale? Però anche lui cambia subito colore quando senza parlare, gli mostro la corda che l’ha trattenuto e che l’ha aiutato ad arrivare sul terzo terrazzo: è tranciata a metà; e sbianca in volto ancor più quando si accorge che i chiodi che hanno tenuto il suo strappo uscivano alla semplice trazione della mano. L’unica reazione in casi simili, è l’azione. Se ci si pensa su, non si va più avanti.
Riprendiamo dunque ad arrampicare, ma con maggior prudenza: più in alto giungiamo ad un breve passaggio obliquo, estremamente difficile: mi impegna per una buona ora obbligandomi ad accaniti sforzi per raggiungere un vecchio chiodo. Su questo breve tiro di corda provo anch’io la spiacevole sensazione di un piccolo volo, per fortuna senza conseguenze.
Alle 18 siamo finalmente su una larga cengia al termine della famosa e temuta traversata. Ci mettiamo al riparo sotto un enorme tetto. Prima di raggiungere questo posto, abbiamo dovuto attraversare un colatoio scrosciante acqua. Ci assale subito il freddo, i muscoli sono intorpiditi, le corde inzuppate: decidiamo di bivaccare. Il bivacco non è dei migliori; continui dolori ai muscoli ci tormentano entrambi, dovuti forse all’allenamento piuttosto sommario.
Un amico, prima di partire, mi aveva regalato un bel paio di pedule con la suola di cotone. Le pedule sono bellissime, ma in fatto di resistenza un po’ meno: le suole si sono staccate completamente fin dai primi tiri di corda sulla traversata: partita la suola, il cartone sottostante si è scucito dalla tomaia e improvvisamente mi trovai con le, sole calze: riuscii a farci tutta la traversata. Sul terrazzo sono arrivato a piedi nudi, e me li sto guardando pensando all’indomani.
— Ce la farò ad arrivare in cima? — La roccia è dura e tagliente, le dita dei miei piedi no.
Alle nove del giorno dopo riprendiamo la scalata e lungo il colatoio, arrampicando a piedi nudi, raggiungiamo la vetta. Ci accoglie un violentissimo temporale. Nello spazio di poche ore cengie e terrazzi sono colmi di grandine, il tutto con un contorno impressionante di fulmini. In quel momento provai tanta paura, come mai non mi era successo. La via di discesa non è più visibile, la grandine ha coperto ogni traccia. Aiazzi, con filosofia, si mette alla ricerca di un posto di bivacco. Io, che sono senza sacco da bivacco, scalzo, non me la sento di affrontare una seconda notte in parete; ed essendo solo le due pomeridiane, sotto l’infuriar del temporale decido di tentare la discesa. L’acqua cade furiosa, sono torturato dal freddo ai piedi; non mi rimane che rimanere in ‘piedi a turno’, con un piede prima e con l’altro dopo. Qualche ora più tardi ci caliamo giù per una via qualunque, fra canaloni pieni di neve e grandine, e lungo cengie diventate infide. Dopo parecchie peripezie raggiungiamo il ghiaione, ultimo ma non i meno formidabile ostacolo per i miei piedi già martoriati.
Anche l’avventura sulla via di Cassin sulla Cima Ovest di Lavaredo è finita. Una grande avventura, degna delle salite fatte in precedenza; infatti mi tornano alla mente le vie che portano lo stesso prestigioso nome di Riccardo Cassin: la parete nord-est del Pizzo Badile e lo sperone della Walker sulla parete nord delle Grandes Jorasses. Della splendida collana me ne mancava fino ad ieri una; la parete nord della Cima Ovest di Lavaredo, oggi non più.
Ora mi sento fiero di essere il primo alpinista che ha saputo ripetere tutte e tre le grandi vie, ma quello che mi rende più felice è il come le ho salite. La totale mancanza di mezzi finanziari, la scarsa esperienza, l’equipaggiamento sommario: e la mia età? Non ho ancora vent’anni, ma questo non vuol dire niente; mi sono servito soprattutto della mia resistenza fisica e della mia volontà, e più ancora della fortuna, che anche nei momenti più paurosi mi ha sempre assistito.
Andrea Oggioni
Andrea Oggioni morì nella notte dal 15 al 16 luglio 1961, al Colle dell’Innominata, sul Monte Bianco. Con lui restarono per sempre sulla montagna, i francesi Guiltlaume, Kholmann e Vieille. Aveva trent’anni. Viveva, con la mamma, il papà, un fratello e una sorella, in una piccola casa-cascina a Villasanta alla periferia di Monza, ai margini nord-orientali della «grande Milano». Aveva alle spalle la Pianura Padana, di fronte la Brianza e, al di tà di essa, le Prealpi, il Resegone, la Grigna. L’ambiente crea gli uomini, si dice, e in questo caso fu vero: Andrea, figlio di contadini, respirava aria di fabbriche e si fece operaio; nato nella « bassa », sen- tiva profumo di montagne e divenne alpinista. Come il più anziano Josve Aiazzi e il coetaneo Walter Bonatti, che tanta parte hanno avuto nella storia breve e intensa di Andrea Oggioni. Erano i tre alfieri della « Pell e Oss » di Monza, questa città di pianura che ha scritto alcune delle più belle pagine nel libro dell’alpinismo del dopoguerra. Questa città che Andrea aveva onorato con la sua vita e che lo ha ricordato, dopo la scomparsa, dedicandogli un bivacco-rifugio nella Presanella e allestendo in suo nome la spedizione 1962-63 alle Torri del Paine, all’estremo sud del continente americano. [..]
Il ritratto più vero è quello che ne fece Dino Buzzati: «Un uomo strano, piccolo, robusto, ma ben proporzionato con una caratteristica faccia popolaresca, larga e schiacciata, un po’ da mongolo. Non ho mai visto nessuno che, pur in così piccole dimensioni, esprimesse un così intenso concentramento di energia fisica. Per definirlo adeguatamente, non esiste che un nostro appellativo dialettale: “stagno”, che vuol dire, insieme, forte, duro, sodo, tosto, compatto, infrangibile ».
Poi, le sue imprese: a diciannove anni aveva già ripetuto tutte e tre le famose vie nord di Cassin, al Badile, alle Jorasses e alla Cima Ovest di Lavaredo. Legato a Josve e a Walter, in occasioni diverse, aveva compiuto una quindicina di prime assolute di livello mondiale. Tra le altre, da capocordata, con Aiazzi, quella via del Gran Diedro alla Brenta Alta che un referendum colloca fra le dieci scalate, su roccia pura, più difficili e più significative in tutta la storia dell’alpinismo. In questo libro d’oro dell’« impossibile », sono compagni di Oggioni, in ordine cronologico, nove capi-cordata come Carlesso. (Torre di Valgrande), Soldà (Sud-ovest Marmolada), Vinatzer (Sud-est Marmolada); Cassin (Nord della Ovest di Lavaredo), Ratti (Ovest Aiguille Noire), Costantini (Pilastro Tofana di Rozes), Livanos (Cima Su Alto), Bonatti (Est Gran Capucin) e Lacedelli (Cima Scotoni).
Carlo Graffina
Le Mani sulla Roccia – Il diario Alpinistico di Andrea Oggioni.
(10 Marzo 1964 – Casa editrice Arti Grafiche Tamari).
Scritti originali di Oggioni consegnati a Graffina prima della spedizione nelle Ande, integrati poi con scritti di Bonatti, Ferrario, Gallieni e Mazeaud.
(La copertina del mio volume è andata perduta, c’è solo una bella macchia di caffè su della carta ingiallita dal tempo)