À travers la savane du Congo
Sono le quattro del mattino, il mondo è una scura massa informe di cui distinguo solo le piccole parti illuminate dalle torce elettriche. Siamo nel retro dell’ambulanza, una vecchia Land Cruiser Toyota, e siamo in viaggio per la fattoria di Kinta nell’interno del Congo.
A quest’ora non c’è traffico ma i pochi mezzi in giro sono i peggio rottami e le strade restano uno schifo anche con il buio. Padre Hugo, decisamente a tradimento, rompe il silenzio: “Preghiamo il Signore per il nostro viaggio” ed attacca con le Ave Maria. Io sospriro e sprofondo nelle ombre del veicolo: per me è davvero troppo presto per tutta questa roba ed a quest’ora, su questo bidone di macchina in questo schifo di strada, la religione mi appare pericolosamente simile alla sindrome di Stoccolma. Resta da scoprire se la “Provvidenza” sacrificherà quattro anime candide ed un sant’uomo solo per punire un indifferente ed impenitente peccatore.
Ai bordi dell’asfalto una fiumana di figure scure scendono la collina portando sulle spalle un varipionto mucchio di taniche di plastica. Ogni giorno percorrono quella strada fino al pozzo a valle, si caricano d’acqua, risalgono la collina e danno inizio alla propria giornata. Ci si dovrebbbe incazzare per essere nati in un posto come questo ma, in fondo, potrebbe anche andargli peggio: ed infatti inizia a piovere.
L’acqua cade dal cielo gettata a secchi e precipita impietosa su quest’umanità in cammino tra le tenebre. Più avanti un grosso camion è in panne in mezzo alla carreggiata. Sotto il telone è stracarico di una massa indistinta di oggetti ammassati e legati tra loro. Sotto il camion, tra gli assi e le ruote, cerca riparo dalla pioggia una moltitudine di gente seduta sull’asfalto con le ginocchia strette al petto, i loro occhi bianchi e sconfortati brillano tra le ombre come una caricatura. Chiudo gli occhi e lascio che per un po’ tutto questo mi scorra addosso senza graffiarmi.
Un’ora dopo siamo finalmente nel mezzo del niente, dispersi tra le grandi colline. Lontano dalle città il mondo sembra ritrovare il suo equilibrio anche nel grande bacino del Congo. La strada è un susseguirsi di sali e scendi e poco importa se qui e là sono ammassati i rottami di sfortunati veicoli: siamo in viaggio attraverso un mondo verde come la speranza.
La nostra ambulanza rallenta e svolta a destra. Leman, l’autista, scende e blocca la trazione delle ruote anteriori. Davanti a noi ci sono venticinque chilometri di pista sabbiosa che la pioggia ha solo in parte reso più compatta. Rido, Bruna è eccitata e si guarda intorno rapita dall panorama: siamo nella savana, una sconfinata pianura d’erba alta da cui spuntano solo solitari e sparuti alberi. Le faccio spazio al finestrino mentre osservo il suo entusiasmo ad ogni sobbalzo della jeep. Avanziamo a 15/20 km orari e ci vorrà del tempo per arrivare fino in fondo alla pista: il giro in giostra durerà parecchio.
Cerco di mettermi comodo sulle minute panche dell’ambulanza, in questi anni ho preso troppi scossoni su trade come questa per condividere l’entusiasmo di Bruna: le fotografie vengono sempre mosse e tutto quello che uno può fare è guardarsi attorno e sbadigliare facendo attenzione a non mordersi la lingua.
Quello che c’è laffuori però mi piace. Attraversiamo piccoli villaggi di capanne di fango e legno abitati da contadini che lavorano la terra coltivando manioca. Sorridono e salutano mentre passiamo: sembrano gente apposto, gente di cui un po’ ci si può fidare. Faccio due calcoli al volo: 25 km li posso coprire a piedi in 6-8 ore, anche molto meno se non batte il sole. Riempio mentalmente lo ziano e riguardo la strada, l’erba alta ai suoi bordi e l’orizzonte così distante: sì, mi piacerebbe davvero camminare libero in questo mondo.
Davide Valsecchi