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À travers la savane du Congo

À travers la savane du Congo

Sono le quattro del mattino, il mondo è una scura massa informe di cui distinguo solo le piccole parti illuminate dalle torce elettriche. Siamo nel retro dell’ambulanza, una vecchia Land Cruiser Toyota, e siamo in viaggio per la fattoria di Kinta nell’interno del Congo.

A quest’ora non c’è traffico ma i pochi mezzi in giro sono i peggio rottami e le strade restano uno schifo anche con il buio. Padre Hugo, decisamente a tradimento, rompe il silenzio: “Preghiamo il Signore per il nostro viaggio” ed attacca con le Ave Maria. Io sospriro e sprofondo nelle ombre del veicolo: per me è davvero troppo presto per tutta questa roba ed a quest’ora, su questo bidone di macchina in questo schifo di strada, la religione mi appare pericolosamente simile alla sindrome di Stoccolma. Resta da scoprire se la “Provvidenza” sacrificherà quattro anime candide ed un sant’uomo solo per punire un indifferente ed impenitente peccatore.

Ai bordi dell’asfalto una fiumana di figure scure scendono la collina portando sulle spalle un varipionto mucchio di taniche di plastica. Ogni giorno percorrono quella strada fino al pozzo a valle, si caricano d’acqua, risalgono la collina e danno inizio alla propria giornata. Ci si dovrebbbe incazzare per essere nati in un posto come questo ma, in fondo, potrebbe anche andargli peggio: ed infatti inizia a piovere.

L’acqua cade dal cielo gettata a secchi e precipita impietosa su quest’umanità in cammino tra le tenebre. Più avanti un grosso camion è in panne in mezzo alla carreggiata. Sotto il telone è stracarico di una massa indistinta di oggetti ammassati e legati tra loro. Sotto il camion, tra gli assi e le ruote, cerca riparo dalla pioggia una moltitudine di gente seduta sull’asfalto con le ginocchia strette al petto, i loro occhi bianchi e sconfortati brillano tra le ombre come una caricatura. Chiudo gli occhi e lascio che per un po’ tutto questo mi scorra addosso senza graffiarmi.

Un’ora dopo siamo finalmente nel mezzo del niente, dispersi tra le grandi colline. Lontano dalle città il mondo sembra ritrovare il suo equilibrio anche nel grande bacino del Congo. La strada è un susseguirsi di sali e scendi e poco importa se qui e là sono ammassati i rottami di sfortunati veicoli: siamo in viaggio attraverso un mondo verde come la speranza.

La nostra ambulanza rallenta e svolta a destra. Leman, l’autista, scende e blocca la trazione delle ruote anteriori. Davanti a noi ci sono venticinque chilometri di pista sabbiosa che la pioggia ha solo in parte reso più compatta. Rido, Bruna è eccitata e si guarda intorno rapita dall panorama: siamo nella savana, una sconfinata pianura d’erba alta da cui spuntano solo solitari e sparuti alberi. Le faccio spazio al finestrino mentre osservo il suo entusiasmo ad ogni sobbalzo della jeep. Avanziamo a 15/20 km orari e ci vorrà del tempo per arrivare fino in fondo alla pista: il giro in giostra durerà parecchio.

Cerco di mettermi comodo sulle minute panche dell’ambulanza, in questi anni ho preso troppi scossoni su trade come questa per condividere l’entusiasmo di Bruna: le fotografie vengono sempre mosse e tutto quello che uno può fare è guardarsi attorno e sbadigliare facendo attenzione a non mordersi la lingua.

Quello che c’è laffuori però mi piace. Attraversiamo piccoli villaggi di capanne di fango e legno abitati da contadini che lavorano la terra coltivando manioca. Sorridono e salutano mentre passiamo: sembrano gente apposto, gente di cui un po’ ci si può fidare. Faccio due calcoli al volo: 25 km li posso coprire a piedi in 6-8 ore, anche molto meno se non batte il sole. Riempio mentalmente lo ziano e riguardo la strada, l’erba alta ai suoi bordi e l’orizzonte così distante: sì, mi piacerebbe davvero camminare libero in questo mondo.

Davide Valsecchi

Les allumettes du Congo

Les allumettes du Congo

Ad aiutare la pediatria ci sono anche molti imprenditori stranieri che hanno dato vita ad attività nella Repubblica Democratica del Congo. A volte supportano la pediatria economicamente, a volte mettono a disposizione le risorse ed i mezzi della propria azienda. Uno dei più attivi tra questi è Mounsieur Salima: i suoi nonni erano iraniani, lui è nato a Zanzibar e per molti anni ha vissuto in Canada prima di trasferirsi in Kuwait ed ora in Congo con il fratello.

Quando giorni fa, quando siamo stati a fare commissioni a Kinshasa, ci ha messo a disposizione una sua vettura ed un suo autista e così, sulla via di ritorno, siamo passati a fargli visita: lui, molto gentilmente, ci ha mostrato la sua fabbrica. Da due anni ha infatti rilevato dei vecchi macchinari tedeschi risalenti agli anni ’50 e, dopo averli rimessi in sesto, ha iniziato a produrre fiammiferi.

Per lui lavorano un centinaio di operai, sia stranieri che locali, a cui assicura vitto ed alloggio all’interno della sua struttura. Tra di loro molti provengono dal Pakistan ed in particolare dalla valle di Hunza, una valle sul confine tra Pakistan e Cina che attraversai proprio durante la spedizione Cima-Asso nel ’99.

In visita alla fabbrica abbiamo incontrato anche il giovane figlio di un uno degli operai che nonostante la sua giovanissima età, poco più che tredicenne, ci ha raccontato con orgoglio della sua salita al campo base del Rakaposhi, una vetta di 7.700 metri a nord di Gilgit. Il centro abitato di Gilgit è forse il paese pakistano più conosciuto dagli alpinisti del Cai Asso che lo hanno attraversato molte volte in diverse spedizioni alpinistiche: il mondo sembra davvero piccolo alle volte!.

Nella fabbrica lo spettacolo è straordinario. I tronchi di legno umido entrano da un lato del capannone ed escono inscatolati sotto forma di fiammiferi all’estremità opposta. Salima ci ha mostrato con pazienza tutti i passaggi  ed è affascinante vedere quell’esercito di “stecchi” marciare in piedi perfettamente allineati!

I fiammiferi qui sono una risorsa più preziosa di quanto si possa immaginare e più ci si addentra nell’interno del Congo più diventano importanti. I fiammiferi di Salima, Les papillions du Congo, stanno diventando sempre più famosi nel paese grazie alla loro incredibile resistenza all’umidità. In Congo quando nella foresta i fiammiferi bagnati ti piantano in asso c’è davvero poco di cui essere allegri e la bontà di questi oggetti, ormai da noi quasi in disuso, è davvero importante.

I suoi fiammiferi sono distribuiti all’interno del paese grazie ad una piccola imbarcazione che naviga risalenfo il fiume facendo da spola tra le varie stazioni di rifornimento lungo le sponde. Il fiume è la principale “strada” del paese. L’idea di un viaggio in cargo risalendo il Congo mi ha fatto brillare gli occhi ma, sebbene la disponibilità di Salima, questa volta mi tocca desistere: chissà, forse l’anno prossimo navigheremo sul grande fiume!

Davide Valsecchi

À la fin d’un jour

À la fin d’un jour

“Ora è la mia volontà contro la tua e quindi tu hai già perso!” Mi avvicino alla piccola peste squadrandola negli occhi. Sono ormai due ore che io e lei combattimo danzando sulla stessa musica: io armato di biscotti ed omogenizzato, lei colma di una rabbia che sembra inesauribile.

Padre Hugo l’ha portata nella “premier chambre” questa mattina: “Dovrebbe avere un anno d’età, è stata abbandonata ieri sera dalla madre che l’ha portata fin qui. Lei è denutrita e sieropositiva, non vuole mangiare e per questo non può stare in neonatoloogia”. La nostra stanza si è infatti riempita di cuccioli denutriti che richiedono di essere sfamati nonostante le loro proteste. Padre Hugo,  ridendo, si è avvicinato alla porta e guardandomi mi ha detto: “Non aveva un nome, l’ho chiamata Bruna. Prenditene cura!”.

Così ho infilato i guanti, le ho dato una ripulita ed ho dato inizio ad una lotta impari. Credo che risenta molto della mancanza della madre e tutta la rabbia ed il malessere le impediscano di accettare il cibo e le attenzioni. Ogni volta che provo ad infilarle un cucchiaio in bocca si agita, prende a schiaffi me ed il cucchiaio strillando con quel poco di voce che le resta. Poi, senza alcun motivo, si allunga ed addenta il cucchiaio. Se provo ad allungarne un altro riparte il cinema tra mille proteste. Stessa cosa per i biscotti: quando provo a darglieli li tira lontano mentre se li lascio distrattamente sul lettino lei si sporge per afferrarli. Se si prova a forzarla si indigna furiosa: Padre Hugo voleva prendermi in giro ma il nome è decisamente azzeccato!!

“Comincio a capire perchè ti hanno piantato in asso: sei una rompiscatole incazzosa! Il destino però ci ha messo sulla stessa strada e per te io sono il guaio peggiore! Io ti spezzo: mangerai, puoi starne certa! Non mollo di certo!”. Lei di sicuro non capisce l’italiano ed il tono appare più una supplica che una minaccia e così, armato di pazienza e di un certo imbarazzo tutto maschile, ho ripreso a darle da mangiare tra gli strilli e gli schizzi di omogenizzato: avventura difficile i bambini!!

Mentre io litigo con la Petit Brùnà mi raggiunge nella stanza anche la nostra Bruna bergamasca in compagnia di altri due piccoli ospiti della nostra stanzetta: Adam e Patrizia. Questi due fessacchiotti erano poco più che scheletri la scorsa settimana e nostante i loro 7 e 9 mesi di vita pesavano meno di un nostro neonato. Fortunatamente, con una massiccia dose di pazienza sopratutto di Bruna, ora hanno messo su peso e cominciano a ridersela un po’ di più. I due nanerottoli hanno una forma di tubercolosi infantile e superato il problema della denutrizione ne avranno per parecchi mesi ancora.

Salvo il piccolo Winner la nostra stanzetta, la Premier Chambre, naviga decisamente bene ed i nostri piccoli pazienti, nonostante qualche difficoltà, reggono bene proseguendo verso la guarigione. C’è da essere contenti per i nostri piccoli ma non si deve dimenticare che qui ogni mattina si celebra un piccolo funerale e ci sono giornate in cui il vento soffia forte e le piccole bare arrivano ad essere cinque alla volta.  Il mondo circostante è di una bellezza abbagliante ma c’è tanto da fare: mi piace distrarmi e raccontarvi le parti belle ma spero non dimentichiate le difficoltà che qui ancora attendono di essere sanate.

Un saluto dall’Africa

Davide e Bruna

Mont Mangengenge

Mont Mangengenge

Il richiamo della montagna o forse semplicemente una tradizione da rispettare. Già dall’aeroplano avevo addocchiato quella montagna isolata, quel promontorio che si innalza tra le colline del bacino del Congo. Mentalmente avevo cercato di orientarmi dall’alto studiando le distanze tra la città di Kinshasa, l’aeroporto e là dove immaginavo fosse la pediatria. Una volta a terra ho persino scoperto che quella è una montagna sacra, la meta di pellegrini e fedeli cristiani.

Così, ottenuto il permesso da Padre Hugo, eravamo in viaggio per il Monte Mangengenge, “la montagna che brilla” in lingala. Con la Jeep superiamo l’ampia e sconnessa strada che collega Kinshasa all’aereoporto internazionale. Quella strada è stata costruita negli anni’70 da Mobuto in occasione del mitico incontro di Box “Rumble in the Jungle”. Serviva ad accogliere Muhammad Ali (Cassius Clay), George Foreman ed i visitatori stranieri: da allora poco altro è stato fatto per mantenerne il buono stato.

Lasciata la strada ci infiliamo tra i villaggi avanzando a fatica lungo strade sabbiose dove la Jeep affonda e le ruote slittano a vuoto come su di una spiaggia. Spesso riusciamo ad avanzare a passo d’uomo solo perchè l’autista guadagna terreno zigzagando da fermo con lo sterzo.

Finalmente all’orizzonte appare la nostra montagna e, dopo qualche collina, riusciamo a raggiungerne le pendici. Da lontano la scogliera appariva di solida roccia ed invece è una strana conformazione di sabbia compatta che sembra resistere all’erosione in modo differente dal resto delle colline circostanti. Sembra roccia ma in realtà è possile scalfirla ed inciderla semplicemente con un unghia: ciò che ci apprestiamo a salire è un enorme massa di sabbia compatta immersa nella vegetazione.

Lungo la salita vi è una spartana via crucis dove semplici croci in ferro, spesso travolte dalla pioggia, segnano le stazioni per i pellegrini. Dove la montagna si fa più ripida il sentiero è scavato dall’acqua e si avanza in scoscesi canaloni di sabbia rossa.

Il panorama attorno a noi è sconfinato. Siamo lontani ormai dalla città e le pochissime piste che si vedono all’orizzonte sono tracciati in terra battuta e sentieri percorsi a piedi, qua e là si vedono piccoli villaggi con capanne in legno. Per Bruna, finalmente, è l’occasione di vedere l’Africa nella sua bellezza più sincera.

Nonostante l’afa il cielo è coperto dalle nuvole e questo ci risparmia dal sole Africano durante la salita. Dopo un ora abbondante siamo sulla cima dove una grande croce in cemento rappresenta il traguardo finale del pellegrinaggio. Sulla vetta ci sono quattro pellegrini che hanno trovato giacilio tra i cespugli passando la notte pregando.

Mi chiedono se vogliamo fermarci a pregare con loro. Con infinita faccia tosta rispondo loro gentilmente unendo platealmente le mani:”Ho già pregato cammindo fin quassù, grazie”. Alla mia risposta annuiscono e, parlottando tra loro in francese, sembrano dare credito alle mie parole: “Gli stranieri usano fare così: è un’altra educazione”. Chissà, forse hanno ragione loro e a modo mio anche i miei passi sono preghiere. Per gli Africani la religione è parte della vita, è quasi impossibile trovare qualcuno che, nel bene o nel male, non sia un fervente credente o un timorato del signore: qui la vita è troppo dura per privarsi della speranza che una fede infonde.

Un pellegrino ci scatta una foto e lasciamo qualche spiccio ai tre bambini che, armati di badile, pattugliano la salita aggiustandone i tratti erosi dalla pioggia. Mangengenge, la montagna che brilla, con i tuoi 718 metri di quota sei stata la cima di questo viaggio. Grazie per aver mostrato a Bruna il verde sconfinato di questa terra.

Davide Valsecchi

Le coureur, l’enfant et l’oiseau

Le coureur, l’enfant et l’oiseau

Da queste parti mi chiamano “David le coureur”, Davide il corridore, ed il motivo è abbastanza divertente. Nella pediatria ci sono molti ragazzi tra i 10 e 12 anni che sono in salute e che frequentano la piccola scuola in cima alla collina. I ragazzini di quell’età sono una risorsa incredibile: sono gli unici che sanno sempre cosa accade, sono quelli che conoscono tutti i sentieri e le stradine che gli adulti ignorano e sono quelli spesso più disponibili a darti un aiuto. Non ultimo sono i più divertenti se in fondo ti senti un po’ bambino anche tu.

Conquistarli però non è poi così facile. Spesso fanno i gentili ma ti prendono in giro e sono pronti a fartela appena ti giri. Se vuoi essere sicuro di averli dalla tua devi diventare il “capo branco”, devi conquistare la loro piena stima e fiducia e, per farlo, devi sfidarli e batterli sul campo: questa è la dura legge della giungla!

Giorni fa mi sono quindi avvicinato al gruppetto dei più scapestrati: “Vediamo chi arriva prima al cartello?” Sissignore, una sfida di corsa in piena regola perchè non è con le chiacchiere che si diventa il capo branco! La distanza era sui settanta metri: abbastanza per distendermi e non troppo lunga da diventare impari per la loro età.

I ragazzi ridevano e facevano capannello mentre tracciavo nella sabbia la linea di partenza. Tre, due, uno ….VIA! I pischelli partono bene ma io sono allineato e sui venticinque metri i miei piedi si fanno leggeri ed il busto coordinato. Loro invece iniziano a perdere le scarpe e a scordinarsi nella foga. Lascio “Piccola Africa” alle mie spalle e li aspetto al traguardo dove arrivano stupefatti ed esausti.

Io ho 35 anni ma ho ancora un certo scatto nelle gambe e quando mi distendo divento un treno. Inoltre se si corre sulla sabbia i mei scarponi con la suola in vibram ed i lacci fino alla caviglia sono un vantaggio che rasenta la scorrettezza se gli avversari sono a piedi nudi.

Comunque ora sono il “capo branco” e questo significa che si sbracciano a saltuarmi quando passo, che ubbiscono quando dico loro cosa fare e che si offrono volontari ogni volta che possono aiutarmi. Essere il capo ha i suoi vantaggi!!

Ieri stavo facendo il giro per la pediatria studiando gli effetti dell’erosione sui fianchi della collina. Mentre mi districavo tra i bambù sbuca alle mie spalle il piccolo Samuel. Samuel era arrivato secondo e questo in effetti gli aveva dato un certo prestigio, inoltre ogni volta che può mi corre incontro cercando di aiutarmi: credo gli piaccia farsi vedere amico del “capo” e così cerco di dargli corda quando posso.

Mentre proseguivo nei mei rilievi, Samuel al mio fianco, ci siamo imbattuti in una grande fossa molto profonda riempita con rifiuti e sterpaglie. Incredibilemente sul fondo c’era un ampio telone di plastica trasparente sotto il quale si agitava prigioniero un piccolo uccellino.  Come avesse fatto a rimanere intrappolato era per me un mistero ma di sicuro era parecchio che tentava inutilmente una via di fuga.

Scendere nella fossa per me però era un problema: il mio peso mi avrebbe fatto affondare in mezzo a quella schifezza rendendo difficile e pericoloso il salvataggio. Cercavo quindi una soluzione alternativa quando il piccolo Samuel se ne esce in francese: “Vado io! Vado io!”.

Guardo il piccolo e poi la fossa: può funzionare in effetti. In qualsiasi parte del mondo calare un bambino in una buca colma di rami e rifiuti costerebbe forse l’arresto ma il piccolo Samuel era determinato al salvataggio. Così, mentre lo reggevo calandolo dall’alto, è riuscito ad afferrare il piccolo uccellino prigioniero. Un’ultimo sforzo e via:  entrambi fuori dalla fossa mentre Samuel mi mostra soddisfatto il suo uccellino.

“Bravo Sammy Boy!” Trionfante si è fatto fotografare ed ha insistito affinchè mostrassi il suo eroico gesto a chiunque incontrassimo lungo la strada. Così, per farlo contento, ecco a anche voi l’eroico Samuel e l’uccellino prigioniero!

Davide Valsecchi

Nb: dopo la foto il piccolo Samuel ha diligentemente liberato l’uccellino battendo allegro le mani  nel vederlo volare via. Ha davvero la stoffa per essere un buon “vice”!

La Croix dans la jungle

La Croix dans la jungle

Si deve a Justin Gillet il primo giradino botanico d’Africa. Il padre gesuita agli albori del 1900 iniziò a sperimentare la coltivazione di piante da frutto cercando un modo efficace di sfamare la propria missione. Il suo fu il primo e più importante successo di questo tipo nella valle del fiume Congo. Non solo riuscì a coltivare ortaggi europei ma migliorò le culture di banano e maioca importando nuove speci di piante da riso dall’India e dal sud America.

Ma l’amore per la natura di questo religioso belga nato nel 1866 non diede vita solo ad un laboratorio a cielo aperto di agraria, ma anche ad un dei più bei giardini d’Africa, uno spazio in cui crescono e fioriscono piante provenienti da tutto il mondo. Padre Hugo ci ha portato a visitare il giardino a Kisantu durante la sua visita al Vescovo. Anche Padre Hugo è colpito e affascinato dalla bellezza e dall’affetto per la natura che trasmette quel posto. Padre Gillet ha riversato la sua vita e la sua fede in un’opera straordinaria.

Per comprenderne l’estensione si deve tenere presente che si attraversa il parco in jeep percorrendo lunghi tratti nella fitta boscaglia e risalendo per colline e declivi: ci si dimentica subito di essere in un parco e si sprofonda in una natura che appare selvaggia e vibrante.

In cima alla collina più alta vi è un monumento edificato nel 1934 e che ha saputo colpirmi in modo inatteso: è una grande croce posta al di sopra di un altare ed al cui fianco stanno due grandi statue di santi. I vandali, o forse i mistici, indigeni hanno mozzato la testa alle statue e sulla croce hanno disegnato strani simboli rossi. Nel cielo plumbeo vedevo quella croce sprofondare sempre di più nella vegetazione mentre, nonostante le avversità, dalla collina svettava ancora sulla meraviglia della natura e sull’operato di Gillet.

Non avevo mai visto un monumento cristiano preda della giungla: era un immagine decadente, colma di tristezza e nostalgia per un passato scomparso, per un ricordo che la foresta inghiottirà e conservererà lontano dagli occhi di chi non può capirne il significato. In quella croce  c’era qualcosa di romantico, di profondo, qualcosa che colpiva anche un miscredente come me: non l’hanno mai capito, non hanno mai compreso il suo gesto o il suo messaggio ed ora, lentamente, la giungla se lo stava riprendendo per custodirlo da questo mondo in declino.

“La natura è il modo più semplice per trovare Dio” dice Padre Hugo. La croce nella giungla mi ricorda quanto abbia ragione nel crederlo. Vado cercando Dio da tempo ma non sono buone le intenzioni che guidano la mia ricerca. Io credo che ormai lo sappia, che si diverta pure in questa caccia. Sfugge, non si lascia prendere ma abbandona dietro di sè indizzi e piccole tracce.  Non è nei templi, nelle chiese o nei luoghi di culto che si diverte con me, lì ci sono solo le paure e le debolezze dell’uomo. Io al contrario non ho preghiere, ho domande furiose da porgli e lui sembra  appendere distratto le sue brevi risposte tra i rami della natura che mi circonda: egli è un passo davanti a me ed io non posso fare a meno di inseguirlo, braccarlo senza sosta sapendo che il mio destino è morire, morire non appena l’avrò raggiunto. Sono il figlio di un cacciatore, in questa vita inseguo la preda più grossa.

Davide Valsecchi

Sur le chemin de Kisantu

Sur le chemin de Kisantu

La giornata è curiosa: sono in Africa e sto andando a fare visita ad un Vescovo, al mio fianco nella jeep c’è un missionario che celebrava messa in Vaticano con Papa Giovanni II e che ha rinunciato a diventare Vescovo di Santiago de Cuba pur di continuare a prendersi cura dei suoi bambini. Effettivamente è difficile capire come un “satanasso” della mia specie possa essere finito in una situazione simile!

Tuttavia la realtà è abbastanza semplice: Padre Hugo doveva incontrare il suo superiore e noi ci siamo imbucati per cogliere l’occasione di fare un “giro in giro”. Eccoci quindi in viaggio per Kisantu.

La strada è la Numero Uno del Congo. La Numero Due è in costruizione da anni e tutte le altre un numero nemmeno ce l’hanno. Tuttavia è una buona strada, è ben asfaltata e scorre tranquilla su e giù per le colline unendo Kinshasa con Matadi, il porto principale del Congo alla foce dell’omonimo fiume.

Padre Hugo è un pozzo di conoscenza e nelle due ore di viaggio ci racconta quasi cinque secoli di attività missionaria ripercorrendo la storia del Congo fino all’arrivo dei primissimi portoghesi. Gli Europei muovevano i primi passi all’interno del Congo quando prendeva avvio la corsa alle Americhe e questo fece si che questa porzione di Africa fosse a lungo dimenticata ed abbandonata. Pare inoltre che tutta la prima missione evangelica, giunta qui nel 1400, sia scomparsa nella giungla e che solo secoli più tardi i missionari si spinsero nuovamente nell’interno. Guardandomi attorno vedo solo sconfinata foresta in un sussegguirsi di colline: addentrarsi in quella natura selvaggia non è facile oggi, così come non lo era quattro secoli fa.

A Kisantu la terra si fa più rossa, il clima umido ed il cielo plumbeo. Qui piove da giorni ed il terreno è fertile. Sfiliamo con la jeep davanti alla grande cattedrale in mattoni rossi e ci fermiamo sotto la residenza del Vescovo, anch’essa in mattoni ed in stile coloniale di altri tempi. I palazzi dovevano essere magnifici e ben curati a giudicare dalle forme e dalle finiture. Oggi però i giardini, in passato ben curati dai religiosi, mostrano i segni dell’abbandono così come gli edifici sembrano solo lo spettro di ciò che erano. Gli africani non hanno cura per simili cose e ciò che un tempo era un luminoso esempio ora appare una povera eredità. Gli africani sono così: dai loro un giardino e ci creano nel mezzo un sentiero fangoso per andare a comprare i fiori di plastica dai cinesi. Sono un popolo giovane sotto molti aspetti…

Accompagnamo Padre Hugo e con lui attendiamo l’arrivo del Vescovo ma, dopo i saluti di rito, tagliamo la corda lasciandoli alle loro discussioni. Bruna ed io ce ne andiamo a zonzo tra gli edifici che un tempo erano la scuola e l’università missionaria, spingendoci poi fin dentro il cuore della Cattedrale. Infine, finalmente trovato un chiosco dopo tanto lungo girovagare, ci siamo seduti ad aspettare con un paio di Fanta in mano.

L’attesa però non è vana. Bruna, io e Padre Hugo avevamo infilato nello zaino un pezzo di prosciutto sotto vuoto che mi ha regalato mio padre prima della partenza: quello, ed un po’ di pane acquistato lungo la via, sarebbe dovuto essere il nostro frugale pranzo. Tuttavia, con una certa sorpresa, il Vescovo ci ha gentilmente offerto il desinare e così, dopo tre settimane, ho finalmente potuto addentare nuovamente un pezzo di manzo che, per quanto duro e nervoso, mi è apparso delizioso!

Sul ritorno un piccolo imprevisto in pieno stile africano: salendo lungo una collina un grosso camion a rimorchio ha avuto un guasto e, vinto dal peso, ha cominciato a precipitare in retro marcia lungo la strada. Il rimorchio si è quindi messo di traverso lungo tutta la carreggiata e la motrice si è quasi accartocciata sotto di esso. La strada, resa impraticabile, si è riempita di una folla di automobilisti bloccati e vocianti.

La scena era piuttosto folcloristica e divertente se non vi fosse stata la seria possibilità di doversi accampare sulla strada per la notte. Il rimorchio, posto esattamente di traverso, bloccava entrambi i sensi di marcia: sulla sinistra una scarpata impediva di aggirare l’ostacolo mentre sulla destra era un profondo fosso per l’acqua a rendere impraticabile il passaggio. Se ci fosse stato un mimino di cooperazione si sarebbe potuto lavorare tutti insieme per colmare il fosso e rendere agibile il passaggio ma, in quel marasma, ognuno diceva la sua e tutti provavano le più improbabili manovre fuori e dentro quello stretto fossato in cemento. Nemmeno l’arrivo di un polizziotto ha contribuito a dare ordine: ora oltre al vociare avevamo uno con il fischetto…

La fortuna ha voluto che quattro camion porta container della SAT, Special African Transport, fossero appaiati appena al di là del blocco. I quattro autisti hanno unilateralmente preso di petto la situazione e, dopo aver ancorato tra loro due camion, hanno agganciato il mezzo incidentato e lo hanno letteralemente trascinato via in un tripudio di clacson e rombi di motore. Tutti urlavano a gran festa ma ovviamente, ancor prima che la strada fosse sgombra, tutti erano già in macchina litigando per passare per primi e generando così il secondo round di quel caos africano.

Una volta tornati alla pediatria Bruna si è munita di biberon per i piccoli mentre io mi sono rimesso a riempire sacchetti di sabbia: la pioggia incombe!

Davide Valsecchi

Moi, Madame Rubéole et le paludisme

Moi, Madame Rubéole et le paludisme

Apro gli occhi ed ho come l’impressione che un carro armato mi sia passato sopra durante la notte. Le gambe sono rigide e tutte le articolazioni mi fanno un male dannato. Infilo i pantaloni e quasi trascinando i piedi  entro in cucina. Riempio una tazza di caffè e mi accorgo che anche l’anulare della mano destra si è gonfiato. “Dannata umidità” penso tra me e me trangugiando il caffè. Muoversi però è un problema e, incredibilmente per uno come me, camminare è una fatica atroce. Qualcosa decisamente non va.

Aiuto Bruna a lavare i piccoli come tutte le mattine ma reggere quei corpicini sembra uno sforzo impari e sono costretto a metterle fretta perchè il “peso” sembra avere la meglio su di me: “Vado a buttarmi giù un attimo, scusa, oggi gira davvero male per me”.

Entro in stanza, tolgo gli scarponi, sfilo i pantaloni e precipito sul materasso: Tre, Due, Uno… Oblio. Sprofondo in un buio cupo e mi sveglio solo quando Bruna, non vedendomi più tornare, si è messa a cercarmi: “Pigrone, vuoi imboscarti tutto il giorno?”. Lei ride, anche io. Trovo tutto molto buffo. Appoggia la mano sulla mia fronte e cambia espressione “Mamma mia Davide! Sei bollente!” Io trovo tutto molto buffo: “Bhe, allora niente scuola per me oggi! Chiamiamo l’ambulanza?”

Lei si mette a trafficare cercando il termometro, io provo a tirarmi dritto sopra le lenzuola. “oooh, ma che caz…”. Guardo il mio braccio sinistro ed è tutto coperto di piccole macchie rosse. La situazione si fa spessa anche se io, inspiegabilmente, continuo a trovare tutto divertente e buffo: “Hey, Bru, forse è ora che tu vada a cercare il Dottor House …oppure Padre Hugo, vedi tu…”

Riprecipito sul letto. Ho una mezza idea di quello che sta accadendo ma ho intenzione di tenermelo per me ancora per un po’. Chiudo gli occhi e se non mi facesse male dappertutto riderei. Sì, riderei.

Quando Padre Hugo apre la porta esordisce con “Non sei ancora morto?”. Anche lui è uno a cui piace ridere. “Spero proprio di no, Padre, qui non avete montagne!”. Entra, si siede ed iniziamo a parlare seriamente. Lui è l’uomo giusto al posto giusto: ora iniziamo a ripararmi!

Tutto questo accadeva più o meno cinque giorni fa ed è stato l’inizio di una piccola avventura molto meno cruenta di quanto potrebbe apparire e che oggi è già quasi un ricordo.

Le macchie rosse erano una cosa piuttosto buffa. Alla mia veneranda età sono stato infatti colpito dalla terza malattia infantile: la rosolia. In realtà l’avevo fatta da bambino ma solo in forma lieve e probabilmente i miei anticorpi, solo in parte addestrati, se la sono data a gambe vedendo il virus in versione africana.

Salvo le macchie il resto dei sintomi era abbastanza chiaro ed in buona misura conoscevo già la diagnosi. Negli ultimi quattro anni ho giocato a rimpiattino con la Malaria attraverso due continenti ed era ormai statisticamente inevitabile che facesse punto anche lei.  Tuttavia un po’ mi consolavo: prendere la malaria qui significa aver atteso il posto migliore per farlo! (…ossia in un ospedale e con un dottore esperto che parla italiano!)

Qui in Congo imperversa il ceppo malarico “falciparum” che tra tutti è quello più “gramo”, sia per i sintomi che per gli esiti, tuttavia Padre Hugo affronta la malaria ormai da trent’anni e non era affatto preoccupato: con la malaria l’importante è curarla per tempo e come si deve fino in fondo.

Molti dei bambini che muoiono di malaria nella pediatria sono malati che arrivano qui quando ormai è troppo tardi o dopo che erroneamente si era creduta superata la malattia. I sintomi, a volte davvero violenti, sono infatti altalenanti dando luogo a “finestre” di benessere tra una crisi e la successiva.

Come stavo? Il Primo giorno uno schifo: dolori ovunque non riuscivo a muovermi liberamente e camminare era un problema di volontà. Avevo la febbre tra i 38 e 39 gradi ma la cosa che più inquietava era che, alle undici di mattina in Africa, io mi sentissi gelare come in pieno inverno da noi: ricordo difficilmente di aver provato un freddo simile in passato.

Padre Hugo mi ha dato due compresse di Palucur, un composto di Dihydroartemisinin (DHA) e Piperaquine Phosphate (PQP). Il loro effetto era quasi immediato: prima un freddo terribile e poi un caldo atroce durante il quale iniziavo a sudare come un ossesso. Ogni volta che prendevo le medicine dovevo restare a letto per un paio d’ore ma, finita la sfuriata, potevo tornare alla mie attività cercando di limitare gli sforzi e tenendo a bada i dolori alle gambe.

Il ciclo di cura è durato tre giorni ed ho preso due compresse 8 ore dopo la prima dose, due 24 ore dopo la prima dose ed infine due 48 ore dopo la prima dose. Ogni volta l’effetto diminiuiva d’irruenza e via via i dolori sono andati scomparendo. Oggi sono ancora un po’ affaticato ma, per indenderci, passo le giornate a scavare fossati nel terreno in previsione della pioggia (quindi, salvo il vezzo del riposino dopo pranzo, il mio corpo è nuovamente in piena efficenza).

Se non fossimo intervenuti tempestivamente la “suonata” sarebbe però stata diversa perchè probabilmente avrei dovuto affrontare un paio di flebo di chinino ed un trattamento lungo sette giorni. Intervenendo ancora più in ritardo avrei dovuto affrontare la malaria nella sua fase più invasiva e sarei finito ospite fisso della “premier chambre”.

Comunque è fatta anche questa. Per un po’ dovrei essere parzialmente immune ma non è una sicurezza su cui fare conto. Ultima nota: la “vaga euforia” è davvero uno dei sintomi clinicamente riconosciuti della malaria ed effettivamente è stato abbastanza divertente essere ammalato per un po’ =)

Davide Valsecchi

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