Category: Corni di Canzo

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Nuova Generazione

Nuova Generazione

Il piazzale del Rifugio Sev è gremito dalle maglie gialle dell’Assalto ai Corni 2019. Noi, sui prati alle spalle del rifugio, abbiamo steso un ampio telo, all’ombra di una pianta su cui giocano ora i bambini del gruppo. In un angolo, tra gli zaini carichi di cibo, iniziano ad affollarsi le bottiglie vuote di vino bianco accanto a quelle, altrettanto vuote, di birra. Pezzi di pizza, focaccia ed affettato: unto dappertutto mentre i nanerottoli gozzovigliano tra gli adulti. Poi, verso l’una e mezza, si avvicina Mattia: “Andiamo?”. Guardo l’orologio: “Yep, ormai è ora!”. Mattia, Simone, io e Nicola ci incamminiamo sotto la grande muraglia della Parete Fasana verso la cima del Corno Orientale. Superiamo la Croce e, costeggiando il margine dell’abisso, ci avviamo verso l’uscita delle vie. Sotto di noi il grande vuoto dell’Orientale, della grande Onda. Quella mattina, uscendo dal Rifugio, ero sceso lungo il ghiaione fino all’attacco della via Dell’Oro. Qui, già alla prima sosta, avevo trovato Gabriele e Ruggero intenti nella salita. Una parte di me avrebbe voluto “corromperli”, convincerli a desistere optando per la festa, ma sapevo che sarebbe stato inutile quanto ingiusto. Le vie dei Corni sono qualcosa di particolare: le ripeti una volta, le ricordi per tutta la vita. Dubito ripeterò mai quella via, percorsa con Mattia in una giornata di Marzo anni fa, eppure ricordo a memoria quasi ogni dettaglio di quella salita. Probabilmente è proprio per quei ricordi che forse non la ripeterò! Una grande salita, la prima sul Corno Orientale, fatta di dubbi, incertezze ed incognite da affrontare e risolvere. Forse oggi, con più esperienza, le difficoltà non mi sembrerebbero così incalzanti o forse, oggi che sono meno allenato e determinato, potrebbero apparirmi anche maggiori. Ma questo non ha importanza: ogni via ai Corni ha il suo momento, unico, speciale, spesso irripetibile. Lasciandoli con un saluto avevo gridato loro le ultime indicazioni: “Dopo il primo tiro su per le linee delle capre. Alla seconda targhetta si risale lo scivolo verso destra, poi si taglia a sinistra sulla cengia con l’anello in mezzo ai piedi. A sinistra! Perchè a destra c’è l’altra via di Mandelli, che è un bastone! Okkio alla roccia appoggiata prima del diedro e poi via verso l’uscita!”. Ruggero e Gabriele: il giorno prima erano andati ai piani di Bobbio con Mattia. Avevano macinato una via dietro l’altra ed erano poi scesi in bicicletta. Se Mattia, vedendoli in azione, avesse avuto dubbi avrebbe di certo detto la sua. Ma i due sono giovani, allenati ed affiatati. Una parte di me li invidia molto, mentre l’altra, quella che ricorda cosa li aspetta, forse un po’ meno. Camminiamo sul bordo dell’abisso del Corno Orientale, verso l’uscita della vie: tre senatori ormai della vecchia guardia, in equilibrio sulla roccia a strapiombo, in cerca dei due più forti della nuova generazione. Cammino a testa bassa, per non mettere i piedi in fallo ma anche per non guardare oltre, per soffocare una punta d’ansia che inizio a non contenere. Chissà se anche Renzo e Pietro, vedendo me e Mattia trafficare sulle vie dei Corni, avevano provato qualcosa di simile. Poi una voce, un saluto, Rugguero in piedi alla sosta finale, sorridente mentre recupera la corda e Gabriele: è fatta, sono fuori! La vera festa può finalmente iniziare! Ci avviciniamo, incuranti del vuoto, e cominciamo a congratularci. A breve anche la voce di Gabriele e finalmente anche lui è in sosta. “Come è andata?!” Gli occhi scintillano in un sorriso trascinante. “Fenomenale! Ma che battaglia!”. Strette di mano, abbracci e pacche sulle spalle. Insacchiamo il materiale e torniamo tutti insieme alla festa. Arriverà il tempo per parlare di quei sassi appoggiati sopra le testa, di quel fittone con l’anello in mezzo ai piedi nel centro del traverso, della roccia buona e di quella cattiva, delle soste, delle ginocchia e dei gomiti incastrati in fessura, dei chiodi piantati alla cieca con le frasche in faccia. Arriverà il tempo per parlare e per riflettere, ma ora è tempo di festeggiare: ancora una volta c’è una nuova generazione ai Corni di Canzo.

Davide “Birillo” Valsecchi

Oggi come Ieri:Gabriele e RuggeroBirillo e Mattia

Restauri alla Torre Desio

Restauri alla Torre Desio

«Ancora una volta è sorprendente vedere cosa fossero in grado di compiere i “grandi” nei “tempi eroici”. In un libro ho trovato una rara foto di Eugenio Fasana a torso nudo mentre si allena: sembra Bruce Lee con i baffi e la barbetta tanto era in forma! Faceva paura! Ma non solo erano atleti prima ancora che l’arrampicata fosse una disciplina, non era solo una questione fisica: in quel camino ho scorto non solo il coraggio ma anche il talento che contraddistingue quegli uomini. Con scarpette di stoffa e corde ragguardevoli hanno fatto cose che ancora oggi, con tecnologia spaziale, fatichiamo a ripetere e comprendere. Non possiamo che rendere loro omaggio e ringraziali per la “via” che hanno tracciato per noi.»

Queste le parole con cui avevo chiuso il mio racconto della mia “prima volta” sulla Fasana alla Torre Desio. In quell’epoca, che ora mi sembra remota, io e Mattia arrampicavamo tutti i venerdì pomeriggio: lui faceva il turno del mattino in Croce Rossa ed io avevo la giornata libera dall’ufficio. I Corni erano deserti, non si sentiva una voce, eravamo completamente soli in un persistente e surreale silenzio quasi opprimente. Eravamo soli ed autodidatti nell’ignoto, non sapevamo davvero nulla di quelle pareti, nel modo più difficile e rischioso non facevamo altro che imparare dai nostri errori. Tutto quello che avevamo erano le vecchie guide e le critiche di chi ci additava come sciocchi incrodati su vecchie vie dimenticate e pericolose. Quanta fatica, e quanta paura, ma con il senno di poi credo che la nostra sia stata una straordinaria avventura, la fortuna di un’esperienza unica per la vita.

Sdraiato al sole, nell’anfiteatro della Torre Desio, mi godo il tepore del mattino. Con me ci sono Ruggero, Gabriele, Miky e Lorenzo: quasi tutti ventenni. Sono sparsi sulle vie, sullo spigolo Palferi e sulla Corvara. Io sono sdraiato sull’erba mentre loro hanno capi-cordata d’eccezione: da un lato Josef e dall’altro Gianni, colui che scrisse le guide su cui io e Mattia abbiamo studiato tutte le salite classiche. E’ un sabato di sole, si sentono le voci dei gitanti sul sentiero sottostante mentre gli escursionisti si accalcano sulla cima del Corno Occidentale. Ascolto le loro voci, così vicine e così distanti: incredibile essere tanto rilassato sotto queste pareti. Sono sdraiato al sole e mi godo il momento con un sorriso compiaciuto. Forse i “Tassi del Moregallo” sono nati per compensare quelle infinite ore di solitudine trascorse sospesi, e spesso appesi, tra queste pareti di calcare grigio. Forse sono nati perchè quelle schegge di conoscenza, così difficoltosamente conquistate, non andassero perdute e fossero tramandate. Forse sono nati perchè sono un asociale socievole o perchè, come raccontano facesse mio nonno materno Luigi Paredi, è di famiglia incitare nei giovani la voglia di scoprire queste piccole grandi montagne.

Non so, sono ormai molte le nuove vie aperte con i Tassi sui versanti del Moregallo, spesso anche molto impegnative ed estetiche. Tuttavia nessuno di loro aveva mai affrontato le “Grandi Classiche” dei Corni. Almeno fino ad oggi. Sdraiato al sole mi godo il tepore del mattino, sorrido sornione dietro gli occhiali, compiaciuto del lungo e complicato viaggio che ci ha portato fin qui.

Poi le due cordate si ritrovano insieme alla base del Camino Fasana alla Torre Desio. Il giovane Lorenzo raggiunge da primo la sosta del primo tiro: “Birillo vieni?”. Avevo indossato imbrago ed equipaggiamento ma non avevo intenzione di arrampicare. La caviglia mi fa ancora male, la schiena è rigida e sono praticamente un rottame, ma per un istante guardo verso l’alto e l’istante dopo ho un otto infilato all’imbrago: che bello inseguire nuovamente Eugenio Fasana!

Il diedro camino iniziale ha un passaggio atletico che richiede determinazione e coraggio. Impressionante pensare che Fasana, in apertura nell’ignoto, lo superò probabilmente senza protezioni, semplicemente con una straordinaria tecnica di progressione in camino. Anche il secondo tiro, dove il diedro si chiude in due strette pareti parallele, non si può che provare ammirazione per i pionieri che per primi, nel 1931, si avventurarono fin sulla vetta percorrendo tutta la torre: Eugenio Fasana ed Antonio Omio.

“Un’altra via di Fasana ed un altro capolavoro di tecnica, estetica e coraggio. Il camino della Torre Desio è una di quelle arrampicate che lascia impressionati i ripetitori, le difficoltà sono nettamente superiori a quelle che Fasana aveva espresso a suo tempo (IV+). Ultimamente, dopo aver piazzato un paio di fix del camino, si è arrivati a valutare i passaggi fino al VI+. Più realisticamente si possono valutare i passaggi più difficili un grado in più, certo non deve mancare la predisposizione all’arrampicata in camino e non dovrebbe mancare un briciolo di coraggio ai ripetitori.“ Questa era la descrizione della via nell’edizione del 2005 de “L’isola senza Nome”.

Su una Fasana ai Corni di Canzo c’erano due Fix piantati con il trapano: c’erano, perchè ora non ci sono più. Furono piazzati certamente con buona intenzione, dall’alto, per proteggere i ripetitori nei due passaggi più complicati ed esposti tra due chiodi tradizionali. L’attitudine sportiva di quelle piastrine era evidente perchè “proiettava” un eventuale caduta nel vuoto fuori dal camino. Tuttavia in questo modo quella protezione influiva negativamente sulla progressione classica da camino, certamente faticosa e delicata, che in quell’ancoraggio esterno trovava solo false e pericolose illusioni fuori linea. Inoltre, il secondo di cordata, rischiava di essere “strattonato fuori” dal camino in un pendolo più che aiutato dalla corda dall’alto. I due Fix, nell’ottica di rimuovere il superfluo e conservare lo spirito e la storia di una via classica, sono stati quindi rimossi con cura: al loro posto sono stati piantati due chiodi tradizionali che, oltre a sfruttare quanto offerto dalla roccia, hanno posizioni più adatte e logiche alla progressione in camino. Il fix, con anello di calata arancione, in supporto alla clessidra della prima sosta è stato lasciato, così come la sosta sommitale su cui effettuare le doppie lungo la torre. (La doppia originale di Fasana, per chi fosse interessato, era molto breve, realizzata su uno spuntone e scendeva sul ripido terrazzo erboso a sinistra della torre).

“Mio padre diceva di usare i chiodi con grande parsimonia perchè feriscono la roccia”. Queste è la frase che mi disse l’adorabile ed anziana figlia di Eugenio Fasana. Sostituire i Fix con chiodi tradizionali è stato il nostro modo per conservare un equilibrio, forse inevitabilmente imperfetto ma coerente, tra passato, presente e futuro. Un tributo doveroso ad un talento ed un insegnamento che, banalizzati ed oscurati dal trapano, rischierebbero di non essere compresi ed apprezzati.

Gian Maria Mandelli, membro del CAAI e storica figura di rilievo dell’arrampicata Valmadrerese, ha avallato, supervisionato e personalmente condotto l’iniziativa di “bonifica”. Ai Corni di Canzo sono molte le vie “restaurate” recentemente, una di queste ad esempio è la Palferi sul Pilastro Gianmaria. Un lavoro certosino e paziente che mira a conservare, in modo razionale e ponderato, lo stato delle “classiche”, minimizzando le alterazione ma permettendone la fruizione alpinistica. In alcuni casi i chiodi più malridotti sono stati attentamente sostituiti o integrati, la Fasana è probabilmente la prima in cui sono stati rimossi infissi permanenti. Una scelta importante, in controtendenza a ciò che avviene altrove, e che per questo ha richiesto l’intervento di uno tra i più autorevoli dell’Isola. Io credo che questi “restauri”, queste bonifiche, non solo conservino la storia umana quanto la natura delle pareti, ma possano soprattutto insegnare con l’esempio un uso più consapevole e corretto degli spazi verticali per le grandi classiche che ancora devono essere realizzate.

Rimuovere ciò che è superfluo per proteggere ed educare. “Tuttavia, se esiste un equilibrio, la sua ricerca sarà un compromesso non privo di rischi, tanto nell’etica quanto nel diritto. Speriamo non violento.” Se qualcuno ritiene di avere ragioni valide per contestare la rimozione dei due fix sulla Fasana alla Torre Desio allora si faccia avanti, si assuma il peso ed il rischio delle proprie parole, parli con coraggio e sarà ascoltato.

Davide “Birillo” Valsecchi

Corni: Antivigilia 2018

Corni: Antivigilia 2018

Bruna, ora che è mamma, ha venduto la “Hornet600” e questo ha privato la nostra sconclusionata compagine della batteria da moto con cui alimentare i nostri tamarrissimi led per la tradizionale fiaccolata dell’antivigilia alla Croce del Corno Occidentale dei Corni di Canzo. Invero avevamo anche trovato una batteria sostitutiva ma, ahimè, qualcuno dei Tassi l’ha dimenticata in ufficio. Quindi nulla, quest’anno la si è combinata al buio con le frontali da 4 eruo comprate all’OBI.

In realtà la faccenda non si dimostra un gran problema per due motivi. Il primo è che, essendo l’antivigilia di domenica, il rifugio SEV è eccezionalmente aperto per la serata. Una fiaccolata di volontari è partita da Oneda e sulla terrazza del rifugio si è festeggiato con vin brulè e panettone. La seconda ragione è che, come sempre accade, “l’uso e l’abuso del buso porta al disuso del buso stesso”. Illuminare le cime la notte dell’antivigilia era inizialmente una tradizione discreta, un piccolo gesto simbolico. Oggi è diventato un “happening” e, come sempre accade, è scattata sulle montagne una competizione a chi ha le luminarie più grosse e a chi tira più gente. Quindi, visto che noi non abbiamo manco la batteria per quei quattro led tamarri comprati sempre all’OBI, abbiamo festeggiato piacevolmente al buio. “esserci più che apparire, invisibili ma radicalmente presenti”, ecco la riflessione e la missione per il prossimo anno.

Il rifugio era gremito di gente e la tentazione di non salire sulla cima mi ha sfiorato: questa volta sono stati i Tassi, e non il Nostromo, ad impegnarsi per proteggere la tradizione. Mav e Ruggero hanno risalito la ferrata del Venticinquennale mentre il resto della piccola compagine ha raggiunto la cima lungo il Caminetto. Strette di mano, abbracci e foto di rito. Poi tutti di nuovo al rifugio.

“Il mio galletto. Sì l’ha un bel becco. Tutte le donne lo voglion nel letto. Galletto qui, galletto là. E il mio galletto l’è mai a ca’. E muoio, muoio, muoio per te mio galletto. Evviva l’amor, evviva l’amor e chi lo sa fare.” Nella sala grande della SEV è un tripudio di scodelle di trippa, caraffe di rosso e canzoni sberciate battendo il ritmo sul tavolo. Magnifico!

Davide “Birillo” Valsecchi

Corni: Antivigilia 2017

Feliz Navidad

Anche i Corni brillano!

Una luce anche ai Corni

La Falesia che non c’è

La Falesia che non c’è

La sezione di Lecco “Riccardo Cassin” del Club Alpino Italiano, fondata il 30 giugno 1874, è certamente una delle più importanti a livello nazionale. E’ quindi facile comprendere come il loro Notiziario Sezionale, a differenza di quello delle sezioni più piccole, non sia un “ciclostile” in bianco e nero ma una vera e propria pubblicazione con cadenza quadrimestrale. Ogni “numero”, oltre alle comunicazioni della sezione, raccoglie articoli e racconti, sia contemporanei che storici, arricchiti da immagini e fotografie. Io, purtroppo, non ne possiedo nemmeno una copia cartacea ma, grazie alla potenza del web, è possibile accedere all’archivio on line dove, con qualche mese di differita, ogni numero viene ripubblicato in formato digitale. Qui potete trovare l’archivio on line: Archivio Notiziario Cai Lecco.  

L’ultimo notiziario reso ora disponibile sul web risale a Maggio 2018, sulla sua copertina fa bella mostra di sè il “Bivacco Ferrario”, l’astronave della Grignetta, ed all’interno della rivista è possibile rileggere la storia della sua costruzione.    

Tra quelle pagine, inaspettatamente, ha trovato spazio anche un articolo dedicato ai Corni di Canzo. Una riflessione, ponderata e precisa, su qualcosa che ha decisamente agitato gli animi alla fine del 2017. Confesso che per me, tutt’oggi, è ancora impossibile affrontare l’argomento con moderazione: la mia indole mi impedisce di soprassedere a certe cose. Tuttavia, visto che il mio pensiero è ormai ampiamente noto, ho pensato che fosse interessante riproporre qui, su questo piccolo blog che in “attesa” si è fatto silente, il pensiero altrui.   

Link Originale: Notiziario Cai Lecco 01/2018 

Riflessioni sulla nuova iniziativa dei Ragni al Corno di Canzo Occidentale
(Sergio Poli)

Negli ultimi mesi del 2017 sono apparsi sulla stampa locale diversi articoli che parlavano di una “nuova falesia sui Corni di Canzo” in via di realizzazione da parte dei Ragni di Lecco. La falesia si sarebbe chiamata “K90”, in onore dei 90 anni di fondazione dell’industria lecchese Kapriol, leader nella produzione e commercializzazione di attrezzature e abbigliamento da lavoro, che sponsorizza l’attività di alcuni Ragni.

Sembra impossibile che ci siano pareti, o almeno porzioni di esse, ancora non vergini sulle montagne attorno a Lecco, dopo decenni di sistematiche esplorazioni di ogni struttura rocciosa e di apertura di vie sempre più difficili, in luoghi dove un tempo nemmeno si pensava di poter passare. Eppure, ogni tanto salta fuori qualche sorpresa, come questa.

Infatti, sorpresa è stata: proprio sulla conosciutissima parete sud del Corno Occidentale, una struttura in magnifica dolomia, già attraversata dalla “Ferrata del Venticinquennale”, i Ragni hanno visto la possibilità di realizzare una serie di vie d’arrampicata di grande difficoltà, che nell’insieme avrebbero formato una falesia di tutto rispetto anche in un territorio già quasi saturo come il nostro.

I Corni di Canzo rappresentano di per sé un pezzo di storia dell’alpinismo lecchese, e più propriamente valmadrerese: sulle pareti dei Tre Corni – che in realtà sono quattro, comprendendo a pieno titolo il Corno Ratt – sono state aperte decine di vie di tutte le difficoltà, sia classiche che moderne e sportive, e quel gruppo montuoso ancor oggi è un banco di prova di tutto rispetto per chi vuole confrontarsi con le proprie capacità arrampicatorie. Basti sfogliare il bel volume “L’Isola senza nome’ uscito nel 2005 a cura delle Sezioni CAI di Oggiono e Valmadrera, ripubblicato e aggiornato nel 2015 con le nuove vie, per rendersene conto.

Dicevamo anche della Via Ferrata del Venticinquennale: realizzata dal CAI Canzo nel 1972 sul Corno Occidentale per celebrare i 25 anni della fondazione della locale sezione, viene percorsa da centinaia di appassionati ogni settimana e rappresenta una delle vie ferrate più frequentate di Lombardia. La ferrata è stata quasi completamente ridisegnata nel 2008: il tracciato originale percorreva, nel tratto intermedio, l’ampio zoccolo che taglia orizzontalmente il Corno, mentre nella nuova versione compie un lungo traverso in piena parete, aggiungendo notevole difficoltà tecnica, e interesse alpinistico, all’itinerario.

Fin qui la storia. Tornando alla “falesia”, le cronache raccontano di una scoperta quasi casuale di quel settore di parete, grazie al rinvenimento di chiodi lasciati da qualcuno durante precedenti tentativi di apertura delle vie. Ma questo è alla base del gioco dell’arrampicata: da sempre, come diceva qualcuno, “le montagne sono lì”, è l’uomo che le vede con occhi diversi, non più come grossi sassi inerti ma come mondi inesplorati da conoscere e sui quali provare a divertirsi. Logico quindi che qualcuno abbia pensato di salirci senza farsi troppe domande, tanto più che su quel sasso in particolare c’era già una via ferrata molto conosciuta.

E così che ha sempre funzionato l’arrampicata in ambiente: si trova una bella parete e ci si prova a salire, esprimendo così la propria libertà creativa. Semplice.

Detto fatto, i Ragni hanno iniziato ad attrezzare una via lungo la parete, proprio sopra la via ferrata, come primo itinerario della futura falesia, che stando ai programmi avrebbe dovuto arrivare a 15-17 tiri in totale, di difficoltà crescente. Fin qui, niente di diverso dal solito, si è sempre fatto così.

Invece, qualcosa di diverso c’è: ci sono delle tutele che riguardano l’interesse di tutti.

Anzitutto, c’è una considerazione da fare sulla proprietà: un conto è aprire una via come libera espressione della propria libertà, un “atto unico” conseguenza di un momento di creatività, un altro è pianificare e realizzare una serie di vie, magari attrezzandole dall’alto, creando una struttura permanente destinata ad un uso collettivo. E’ la stessa differenza che c’è fra salire un giorno su un albero e realizzare nel bosco un jungle-rider park. In questo secondo caso, è difficile pensare di non dover chiedere il permesso al proprietario dell’albero. Specialmente se l’albero, pardon, la parete, come tutto il versante sud del Corno occidentale, è proprietà di Regione Lombardia, cioè di tutti noi.

Altra considerazione: l’intera foresta regionale, compresa quindi la parete del Corno, appartiene alla rete europea Natura 2000 in quanto ZPS – Zona di Protezione Speciale – “Triangolo Lariano”, cioè è tutelata come zona importante per l’avifauna. Nella vicina foresta e sulle pareti sono infatti stati segnalati falco pecchiaiolo e pellegrino, nibbio bruno, allocco e picchio muraiolo, oltre al rarissimo succiacapre. E sicuramente la frequentazione della parete da parte degli alpinisti, compresi i fruitori della ferrata, può dar fastidio ai rapaci e agli altri uccelli che vivono nell’area. Gli alpinisti sanno che su un’altra parete della zona, quella del Buco del Piombo sopra Erba, l’arrampicata viene vietata nel periodo di nidificazione del falco pellegrino.

Ancora: le rocce calcaree ospitano un tipo di vegetazione particolare, ricca di specie rare ed endemiche quali la peonia, la primula di Lombardia, l’erba regina, che nel loro insieme costituiscono un habitat piuttosto delicato e raro, che va giustamente tutelato e protetto. E ancora una volta, il ripetuto passaggio di persone in ambienti così fragili può rappresentare una seria minaccia per la sopravvivenza di queste specie.

Infine, esiste un imprescindibile tutela, quella della sicurezza e incolumità delle persone che frequentano la montagna: le vie in progetto dovrebbero tutte attraversare – e letteralmente incrociano – l’esistente traverso della via ferrata, creando potenziale pericolo per caduta di sassi, oggetti e magari persone che volano sulla testa dei passanti, ma soprattutto inediti grovigli fra corde di alpinisti e imbraghi di ferratisti, con conseguenze facili da immaginare. Una cosa tecnicamente improponibile, mai vista finora su nessuna parete, e vista come molto negativa dalle scuole di arrampicata delle sezioni CAI della zona.

Tutte le considerazioni esposte sopra valgono anche per la ferrata, che anzi porta in parete molte più persone all’anno rispetto alle poche decine in grado di salire le difficilissime vie d’arrampicata. Ma la ferrata c’è dal 1972, esisteva già da trent’anni quando la foresta venne dichiarata ZPS nei primi anni 2000, quindi non si può pensare di chiuderla: è arrivata prima della tutela. AI limite, si potrebbe pensare ad una sua regolamentazione, almeno nel periodo di nidificazione – tipo Buco del Piombo – non certo ad una chiusura. Sembra corretto dunque non aggiungere disturbo a disturbo, evitando di realizzare una nuova falesia che fatalmente aumenterebbe la frequentazione dell’area.

Anche il CAI nazionale in diversi documenti (dal Bidecalogo in poi) scoraggia la proliferazione delle vie ferrate, imponendo un’attenta manutenzione di quelle già esistenti, sia in termini di sicurezza che di inserimento ambientale. Insomma, le ferrate sono tollerate, ma non certo caldeggiate. E non si può che essere d’accordo con questa visione: forse le ferrate hanno fatto il loro tempo.

La vicenda della ipotizzata falesia sul Corno offre lo spunto per una riflessione moderna sul rapporto uomo / montagna, alla luce di un nuovo modo di vedere il territorio montano: non più esclusivo terreno di gioco per pochi, ma prezioso angolo di tutela della natura per tutti. Ci auguriamo che i Ragni di Lecco, con il grande prestigio e autorità di cui sono eredi, siano i primi a rendersene conto.

[Tramonto d’inverno nella suggestiva solitudine serale del Corno Occidentale (2013). La famosa falesia avrebbe dovuto sorgere sulla piccola parete sotto questa pianta. Non serve forare la roccia se davvero si desidera arrampicare su quella parete. Serve pazienza, amore e rispetto. La bellezza non esige rumore. Davide Birillo Valsecchi

Giuseppe Verderio

Giuseppe Verderio

La sera del 27 dicembre 1968 la passiamo al Rifugio Medale in compagnia del buon Zaccheo. Fuori fa un freddo boia. Un ultimo bicchiere e poi si va a dormire nella tendina che abbiamo piantato a poca distanza dall’attacco della Cassin. Anche il giorno dopo il freddo è carogna – e il Beppe pagherà caro l’essersi dimenticato di mettere l’antigelo nel radiatore della sua Seicento! In parete, non molto lontano da noi c’è baraonda: Tiziano Nardella e soci stanno finendo la Taveggia. Ma in quanti sono? Da quanto urlano, si direbbero una metà di mille. Anche noi oggi siamo qui per assaggiare una via nuova. Attacco per la Cassin. Alla sua prima sosta prendo a destra e salgo tre tiri gnecchi fin sotto gli strapiombi. Tutto in libera: giusto un paio di chiodi di sicurezza e quelli per le doppie. Per oggi ci basta, la via ci pare possibile. Ritorneremo in primavera, quando il caldo avrà sciolto i ghiaccioli che penzolano sopra le nostre teste. Il 2 marzo del 1969 ritorniamo sulla Cassin alla Medale per fotografare di profilo la “nostra” futura via. Il Beppe assicura la new-entry, Diego Pellacini, io salgo in libera fino al primo diedro. Qui mi unisco alla loro corda e portiamo a termine l’ascensione. La Cassin non sbuca in vetta, ma esce sulla destra seguendo una cengetta, prima della quale ci si slega. Parto io, mi segue Diego, chiude il Beppe. Subito sento un rumore sordo, una botta attutita. Mi giro: siamo in due, il Beppe non c’é. Scendiamo a rompicollo. Dico a Diego di andare da Zaccheo per dare l’allarme mentre io perlustro il ghiaione al piede della Medale. Lo trovo quasi subito. Giuseppe Verderio, classe 1944, da allora riposa nel cimitero di Vimercate.

Bruna è sdraiata al sole sul terrazzo, si sente “strana” in questi giorni. Così, per lasciarla tranquilla, il week-end lo passo oziando a casa con lei invece che a zonzo per l’Isola. Tuttavia, quando apro la posta elettronica, resto sorpreso: inaspettatamente è come se fosse l’Isola stessa a scrivermi.

Giancarlo Mauri, grazie a Pietro Corti, ha da poco scoperto l’esistenza di questo piccolo blog ed ha deciso di scrivermi. Quel poco che so’ di lui l’ho letto sul libro L’Isola Senza Nome, dai suoi racconti sulle pareti dei Corni di Canzo. Racconti che fanno parte ormai del folklore e delle leggende che permeano le nostre montagne. Racconti che devono accompagnare le nuove generazioni nei loro gesti sul calcare liscio dei Corni, nel loro tramandare la tradizione dell’Isola. La “Via Elvezio”, la “Dell’Oro-Maggi”, la “Città di Cantù”, la “Via Pozzi” ed infine anche la “Giuseppe Verderio”, la linea verticale che affronta e rimonta la “Grande Onda” del Corno Orientale. Una via dedicata ad un amico scomparso, un ricordo nella roccia.

Giancarlo mi ha inviato un link ad un pdf, una nuova versione, arricchita di nuove immagini, del suo lungo ed intenso racconto “Arrampicare ai Corni di Canzo”. Il ricordo iniziale, qui riportato, è un passaggio di quel lungo racconto. Nella foto proprio Giuseppe Verderio, che come avrete ormai compreso, cadde il 2 Marzo del 1969. Leggendo il racconto di Giancarlo si scopre molto di più sul “Beppe”, sulla loro amicizia e sulle loro avventure.

“Arrampicare ai Corni di Canzo”, nella sua nuova edizione, è disponibile gratuitamente on line a questo indirizzo: Arrampicare ai Corni di Giancarlo Mauri (2014 riedizione academia.edu). Chi abbia arrampicato ai Corni di Canzo, o sia semplicemente affascinato da queste grandi e solitarie pareti, non potrà che rimanere coinvolto, rapito dalle nuove immagini quasi inedite che ora accompagnano questa storia.

Ancora una volta ringrazio Giancarlo per aver condiviso le sue avventure, a tratti dolorose, con noi. Avventure che hanno dato forma alle nostre fantasie, ai nostri sogni su quelle pareti. Avventure, grandiose e terribili, che hanno spalancato le porte di un mondo nuovo, di una visione delle nostre montagne tanto antica quanto moderna. Grazie: fino a quando questo spirito animerà gli arrampicatori dell’Isola il ricordo di Beppe non andrà perduto.

Davide “Birillo” Valsecchi

Giancarlo Mauri attraverso la grande “Onda” del Corno Orientale

Vergine d’oriente

Vergine d’oriente

 

Sabato mattina sguscio fuori dal letto e guardo attraverso le finestre: prima a sud e poi a nord. La neve è arrivata sull’Isola Senza Nome a metà settimana, ma la pioggia a bassa quota mi aveva sempre scoraggiato dall’andare a curiosare tra le nuvole. Ma oggi non piove, forse è la volta buona! La neve sull’Isola è qualcosa di speciale, un evento che accade due o tre volte l’anno e che svanisce in fretta. Così, nel nuovo millennio, apro Internet e do un’occhiata alle webcam e agli “inviati speciali”. Da quando vivo sul versante Sud gli amici del versante nord mi fregano sempre: da Valmadrera salire ai Corni è più lunga che da Valbrona e sul lato nord, specie in val Cerrina, c’è sempre un sacco di neve in più. Qui al sud la neve inizia sempre molto in alto e per raggiungerla tocca affrontare lunghi tratti spesso sotto la pioggia. Questo lo so perchè sono nato e cresciuto al Nord, qui a Sud mi godo il sole ed il caldo  ma durante l’inverno pago pegno agli amici sull’altro versante.

Su Facebook ecco puntuali le foto di Ivano: caminetto, corno Occidentale e poi via, traversata verso il corno Centrale. Doppietta. Stefano invece pubblica una foto del crocifisso di legno: probabilmente affronterà la ferrata del venticinquennale e poi risalirà la cresta superando il Passo della Vacca. Andata anche questa! Resta forse la cresta integrale del Moregallo, forse… Per me è tardi: la “vergine bianca” sulle cime se la sono già presa tutta!

Come maschio adulto posso dirvi che una “vergine” è letteralmente il peggior guaio in cui abbia cercato di infilarmi da giovane: fortunatamente alla mia età simili rischi sono ormai scongiurati! Se devo essere onesto quella cosa del “paradiso con 70 vergini” mi pare più una spaventosa minaccia che un’invitante premio. Tuttavia se parliamo di roccia o neve incontaminata ed intatta, vergine appunto, è tutta un’altra questione! Alla mia età addentrarsi per primi in un universo bianco di morbide e vellutate linee è ancora un’eccitante attrazione!

Certo, ma in questo assalto generale dove cercare la propria vergine bianca? Così ho svegliato Bruna, che è astrologicamente vergine: “Hey Bru! Vieni a fare due passi nella neve?” Due ore più tardi, dopo brontolii ed interminabili preparativi, riusciamo ad uscire di casa. Ormai sono le undici, decisamente tardi, ma il cielo è coperto di nuvole: l’unico pericolo è che la neve si sciolga prima di riuscire a raggiungerla!

Da Piazza Fontana a Sambrosera il nostro è un piccolo intenso calvario: “Io non ci volevo venire!” “E allora perchè  mi hai detto sì?” “Perchè volevo fare qualcosa con te!” “Tipo brontolarmi contro tutto il tempo?” “Maledetto #$£*! Spero che nella prossima vita tu ti reincarni in una donna costantemente travolta dagli sbalzi ormonali!!” “Curioso… sai che una maga una volta mi ha detto che nella vita precedente ero una prostituta inglese che scriveva poesie… guarda, credo che con un paio di tette sarei irresistibile anche senza scrivere sonetti!” “AAAAARRRGH!!!” Fino a quando le endorfine non le hanno dato un po’ di gratificazione non c’è stato modo di vederla sorridere!!

Tuttavia io un’idea su dove trovare la mia vergine ce l’avevo! Da Sambrosera rimontiamo verso la cresta che dal Corno Rat risale al Corno Orientale. Sulla traccia ci sono già due piste: una persona con scarpe leggere è scesa ed un’altra, indossando degli scarponi, è risalita. Tuttavia sono abbastanza confidente: vanno e vengono dal Fo, il grande faggio ai limiti del val Ravella, non sembra gente che punti alla cima lungo la cresta!

Al bivio la mia teoria trova conferma: la cresta è vergine! Piano piano inizio a fare le traccia risalendo attraverso il bosco. La neve trasfigura ciò che ci circonda rendendo luoghi familiari quasi sconosciuti. Copre ogni cosa ma è ancora poca, non offre appoggio ma nasconde i sassi e le insidie. Sui lati della cresta il bosco precipita ripido e profondo, suggestivo ed inquietante: scivolare di sotto significa mettersi in guai davvero seri.

Per Bruna è dura, nei passaggi più complessi, attraverso le rocce ed i passaggi obbligati, devi infilare le mani sotto la neve, cercare qualche buona presa e piazzare bene i piedi cogliendo appoggi ricoperti di bianco. Dopo l’incidente non si fida ancora della roccia, ha sempre paura che crolli di colpo e di certo le mani intorpidite dal freddo non la aiutano. “Accidenti, che freddo alla mani! Ma perchè dovevo sposare un dannato alpinista! Perchè ti ho dato retta!”

Lungo la cresta ci sono un paio di lunghi passaggi attrezzati con le catene: possono essere aggirati ed evitati seguendo il sentiero ma con la neve quelle deviazioni, a sbalzo sul bosco verticale, mi sembravano persino più esposti e pericolosi del tratto attrezzato. “Te la senti di passar su di qui?” “Quanto è lungo” “Trenta metri, massimo quaranta” “Okay, proviamo!”. In realtà c’è gran poco da provare, la parete sale quasi verticale e se piombi arrivi a terra.

Le catene sono incrostate di neve ma non c’è ghiaccio, non fa abbastanza freddo. Tuttavia la placca è bagnata ed ogni appiglio è coperto e nascosto dalla neve. Parto per primo e cerco di fare pulizia, con la catena la difficoltà è azzerata …ma solo se hai forza e metodo per restarci aggrappato. Bruna mi segue, spinge e tira, ma a metà si blocca. Nonostante i guanti la catena è molto fredda ed anche infilare le mani nella neve non aiuta. Io sono tranquillo senza guanti, ho dovuto arrampicare spesso al freddo, ma lei non c’è abituata: il dolore alle mani la sorprende e la spaventa. Appesi a metà parete cerchiamo di risolvere la questione: un pezzo di corda mi avrebbe fatto decisamente comodo! Poi, ritrovato coraggio e determinazione, rimontiamo l’ultimo tratto della parete. Il resto della cresta ha ancora tratti esposti ma nessuno così continuo e lungo.

Giunto sotto lo sperone dell’anticima ci accolgono un paio di curiosi uccelli che paiono banchettare con i ciuffi d’erba che spuntano tra la roccia innevata. Un ultimo tratto di catene rimonta l’anticima portando direttamente alla Croce del Corno Orientale. Le catene rimontano una placca inclinata non particolarmente difficile, tuttavia rimonta verso il lato sud dell’anticima puntando alla parete aperta: dove la catena curva per piegare ad ovest ci si trova a sbalzo su un vuoto di quaranta metri che precipita verticale sulle piante. In estate, con la roccia asciutta, è un passaggio capace di mettere una certa inquietudine se affrontato senza lounge di sicurezza. Pensare a Bruna in quel passaggio slegata e con la neve mi metteva i brividi: così ho preferito aggirare per il bosco.

Quando siamo arrivati in cima al Corno Orientale sopra di noi si è aperto l’azzurro e le nuvole hanno reso surreale lo scorcio verso il Corno Centrale ed il pilastrello: un piccolo premio finale per la nostra piccola avventura prima di ripiegare verso la SEV in cerca di pastasciutta e vino rosso!

Davide “Birillo” Valsecchi

Feliz Navidad

Feliz Navidad

“Ma la batteria? Dove è finita la batteria?” Fino a Lunedì l’operazione “Luce ai Corni” sembrava essere destinata all’annullamento. Lo scorso anno, la notte del 23 dicembre, avevamo acceso una striscia di led usando una pesante batteria da 12kg recuperata da una vecchia sedia a rotelle: portarla fino in cima al Corno Occidentale era stata una vera mazzata piombata direttamente sulle mie spalle. Ora però nessuno sapeva più dove fosse finita e non avevamo neppure idea di come sostituirla. Per di più Andrea e Mav erano arruolati per la fiaccolata al Palanzone mentre Simone aveva il turno in Croce Rossa: la squadra Badgers partiva già dimezzata, disorganizzata e senza adeguato equipaggiamento.

“Dai, ti accompagno io: alla peggio andiamo su solo noi due” Lo slancio di mio fratello Keko era assolutamente imprevisto, ma era la spinta che mi serviva per onorare una tradizione ancora fragile e tutta da costruire. “Bene, allora diamoci da fare!”. Così abbiamo saccheggiato la moto di Bruna (…sì, la bergamasca possiede una vecchia Hornet che non mi lascia guidare) ed abbiamo ricostruito l’impianto a led con l’aiuto di Andrea: “Ma posso prendere la scossa se metto la batteria nello zaino?” “Birillo! Accidenti, sono 12volt! Non la puoi prendere la scossa!!”. Bha …io sono dell’idea che sia sempre meglio chiedere, non si sa mai con la corrente…

Venerdì 23 Dicembre c’è mezzo mondo in giro per le montagne. Fiaccolata al Cornizzolo, a Megna, al Palanzone, al San Martino, al Regismondo, sulla Crestina Osa, sul Corno Rat e persino sulla Cassin al Medale. Fiumane di gente ovunque, ma ai Corni di Canzo solo due piccole squadre si preparano a salire verso il punto più alto dell’Isola Senza Nome: il Corno Occidentale.

Io, Bruna e Kekko siamo i primi a partire. TeoBrex e gli altri ci raggiungeranno più tardi uscendo dal lavoro. In un oretta e mezza risaliamo da Oneda al Corno. Nel caminetto, che è un rispettabile secondo grado da affrontare al buio, piazzo una corda fissa per andar sul sicuro. La maggior parte dei Tassi ha un addestramento speleo ma conviene essere prudenti per la discesa da fare disarrampicando al buio ed al freddo.

In cima allestiamo le luci giusto in tempo per la partenza della fiaccolata al Cornizzolo. Quest’anno i nostri led sono nuovi ed hanno la capacità di cambiare colore: una tamarrata incredibile dotata persino di telecomando per programmare i colori!! A dare supporto abbiamo anche un faro “artigianale” sottratto a mio padre: un occhio di bue degno di una contraerea e capace di illuminare da un corno all’altro. “Tutto pronto! Bene, ora non resta che aspettare gli altri” Già, peccato che faccia un freddo becco e che da nord la cima sia spazzata da un arietta tesa e gelida che piomba direttamente dal lago. Inutilmente cerchiamo di nasconderci accovacciandoci dietro la croce. “Che disagio! Siam messi peggio dei barboni in centrale!” Kekko accende le musichette natalizie sul cellulare mentre ammassati cerchiamo di tenerci caldo stringendoci l’un l’altro. “Bagai che freddo!!”

Così, spinti dall’istinto di sopravvivenza, cominciamo a fare l’unica cosa sensata per scaldarci: “tu scendi delle stelle” a palla ed iniziamo a ballare e saltare in cima ai Corni mentre la Croce di vetta, in modalità stroboscopica, lampeggia di mille colori stile discoteca! Qualcosa di assolutamente improponibile ed al contempo magnifico!

Dopo un’ora intensa trascorsa in cima “all’agghiaccio” dimenandosi al ritmo furioso e trascinante di “Feliz Navidad” finalmente appaiono nuove luci alla base del caminetto: TeoBrex, Krulak, Veronica, Giusy e Maurizio. Finalmente le due squadre sono finalmente riunite nel freddo abbraccio dei Corni. Zaini a terra, si fa festa: vin brulè caldo e dolcetti fatti in casa! Stretti in cerchio tutti insieme  a festeggiare fa già meno freddo!

Per un’altra ora restiamo lassù ad ammirare il panorama ed ingollare dolcetti riempiendo di vino caldo le ciotole. Poi spenta la croce, scendiamo di nuovo tutti insieme lungo il caminetto riparando nel Bivacco invernale della Sev. Finalmente a riparo si apre lo spumante e si scarta il panettone! Anche quest’anno è fatta: i Corni hanno avuto la loro luce! Buon Natale gente, tanti Auguri!

Davide “Birillo” Valsecchi

Corno Occidentale: Giorgio e Renzo

Corno Occidentale: Giorgio e Renzo

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Era da un po’ che Mattia ed io non arrampicavamo più insieme, dai tempi della Gary Hemming ad Aprile. Nel frattempo è nato il piccolo Ivan, Bruna si è tirata un sasso su un piede ed un sacco di altri imprevisti hanno tenuto diviso il duo assese dei Corni di Canzo: bisognava per forza rimediare!

Così, nonostante le difficoltà logistiche, alle quattro del pomeriggio ci siamo finalmente ritrovati al crocefisso di legno sotto il versante ovest del Corno Occidentale. L’ora era alquanto tarda per attaccare una via ed un vento intenso presagiva qualcosa di oscuro nonostante il sole splendente in un cielo terso. Il vento rimontava gelido da Sud mentre nuvoloni bianchi rimontavano le Grigne dalle spalle coprendole dal Rosalba in sù. Le nuvole da nord spingevano l’aria fredda giù lungo il lago verso la pianura dove, per effetto del caldo, rimbalzava nuovamente verso nord attraverso l’Isola Senza Nome come vento gelido: “Amico mio sta girando: diamoci da fare!”

Quello che dovevamo affrontare era la prima ripetizione della nuova via di Giorgio Farina e Renzo Zappa, due veterani del Soccorso Alpino e dei Corni di Canzo. Qualche anno fa, già sessantenni, avevano aperto “Attenti a quei Due” sempre sul Corno Occidentale. Mattia e Serena avevano effettuato la prima ripetizione mentre Mattia ed Io avevamo fatto la prima invernale (…due asini a testa bassa su placca bagnata con neve tutto intorno!!). Quindi era obbligo rispettare la tradizione e scoprire dove, con caparbia tenacia, si erano nuovamente avventurati i nostri due beniamini.

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Era un po’ che non toccavo la roccia dei Corni e, nonostante l’esperienza maturata nel tempo, resta sempre tra le più impegnative che mi sia capitato di incontrare. Un colore grigio intenso costellato da piccole chiazze bianche, un dalmata smussato e sfuggente costellato da asperità quasi mai vive. “Accidenti, non si scherza con la roccia dei Corni! Davvero diversa da quella su cui arrampico in questo periodo!”

Giorgio e Renzo hanno trovato un passaggio molto logico attraverso un settore del Corno Occidentale in cui sembra improbabile trovare roccia buona: un buon compromesso tra difficoltà e solidità. La via è facile da leggere, aperta prevalentemente a chiodi e rinforzata con qualche spit piantato a mano laddove ci sono passaggi erbosi e roccia incollata da capire. Il primo ed il secondo tiro hanno bei passaggi su roccia lavorata ma da valutare, il terzo è un allungo sulla cengia erbosa ed il quarto è un bel diedro verticale abbastanza tecnico e protetto tutto a chiodi. Le soste sono tutte a catena tranne quella sull’albero.

Al primo tiro, facendo lo spiritoso da secondo, mi è saltata una presa su uno spostamento e quasi sbandiero passando di sotto: probabilmente i Corni ci tenevano a rimettermi in riga! Questo solo per dirvi come, nonostante il gran lavoro fatto dai nostri due, sia importante non sottovalutare un itinerario che, nonostante alcune protezioni a spit, conserva un carattere alpinistico. A differenza di “Attenti a quei due” non ci sono tiri esageratamente tecnici (come la bella placca a gocce) o troppo “ravanosi” (come l’attacco iniziale alla nicchia o l’uscita sui terrazzi erbosi). Nella cengia erbosa hanno piazzato un paio di fittoni proteggendo un passaggio spesso godibile solo agli “amanti del genere”.

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 Un po’ di placca “cornica”, un mezzo strapiombo obliquo non proprio semplice, un po’ di prato, un po’ di roccia non proprio compatta, un bel diedrino da spaccata, il tutto ben protetto ma in buona parte a chiodi. Con un po’ di attenzione, ma con facilità, si riesce a comprendere come gli apritori hanno salito la via e le scelte che hanno effettuato. Probabilmente questa via (di cui ancora non conosco il nome) può divenire il giusto compromesso per permettere a chi ha già un po’ di esperienza di approcciarsi ai Corni prima di affrontare le grandi classiche dell’Isola. Rispetto ad una “Cris” sulla parte Fasana questa è decisamente meno inquietante e più godibile per cominciare. Il diedrino finale è molto bello, non altissimo ma protetto a tre chiodi con un passaggio d’uscita su prato molto istruttivo: attenzione che la roccia incastrata nella terra non sempre tiene, mi raccomando!

Io e Mattia l’abbiamo trovata molto bella e, sicuri di guadagnarci qualche imprecazione dai futuri esploratori dei Corni, ci sentiamo di dire una frase quasi leggendaria da queste parti: “Ripetuta e consigliabile”.

Ovviamente, come è ormai tradizione da un po’, all’uscita dell’ultimo tiro ci è piombata addosso una nebbia scura e gelida che ci ha messo in fuga dall’imminente acquazzone. Detto questo questo non resta che aggiungere un’ultima cosa: Bravo Giorgio! Bravo Renzo!

Davide “Birillo” Valsecchi

Normale Dotazione Alpinistica, martello e qualche chiodo scaramantico attaccato all’imbrago, fettucce per allungare, un paio di friend piccoli per l’ansia. Ad eccezione dell’albero, dove la sosta va attrezzata, le altre fermate permettono la calata.  Una via dei Corni di Canzo, ben protetta ma da non prendere sottogamba.

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