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Tronc Feuillu

Tronc Feuillu

«Sette anni in Tibet» è un film del 1997 diretto da Jean-Jacques Annaud, ispirato ad un libro autobiografico scritto da Heinrich Harrer e pubblicato nel 1953. Il film dura circa due ore e tre quarti, ma più o meno dopo un’ora e venti c’è quello che mi è sempre parso il passaggio principale di tutta la faccenda. In quella sequenza Brad Pit, nei panni di Harrer, fornisce una dimostrazione pratica di come si scende in corda doppia e mostra, giggioneggiando compiaciuto con la compagna tibetana del suo amico, i ritagli di giornale in cui compare per la sua salita alla Nord Dell’Eiger e per la medaglia olimpica. La ragazza, contrariamente alle aspettative, guarda Brad Pit più come un’idiota da aiutare anzichè come un incontrastato sex-symbol hollywoodiano. Il nostro beneamato Tyler Durden in versione alpinistica riceve quindi un romboante “due di picche” accompagnato da una “fatality” senza scampo: “Questa è un’altra grande differenza tra la nostra civiltà e la tua. Ammiri l’uomo che si fa strada verso l’alto in ogni ambito della vita. Mentre noi ammiriamo l’uomo che abbandona il suo ego. Un tibetano non penserebbe di mettersi in mostra in questo modo”.

Non so se questo passaggio compaia nel libro di Harrer, per cui provo una trasversale antipatia, o se rispecchi davvero il pensiero tibetano. Non credo neppure che i tibetani abbiano una superiorità culturale o spirituale, sebbene il loro mondo, fatto in passato di grandi privazioni e ristrettezze, sia stato certamente un indiscutibile grande maestro. Detto questo, quel passaggio del film, quella frase, ha vibrato nella mia mente fin da quando l’ho sentita la prima volta ed è andato in risonanza con le parole di Funakoshi tramandate attraverso Matsumura: “La vanità è solo ostacolo alla vita. La materia è vuota”. Una vibrazione che ha il suo apice in quell’enigmatico passaggio di Bernard Amy pubblicato poi da Gianni Mandelli sull’Isola Senza Nome: «Scarpe? Roccia? Finché si ha bisogno di scarpe e di roccia per salire, non si conosce nulla di quest’arte. Il vero arrampicatore non ha bisogno di artifici, nemmeno di roccia.»

Dall’alto delle montagne questo “vuoto” si fa ancora più evidente: chissà, forse finalmente inzio ad intravvedere davvero il senso delle cose. Sarebbe anche ora, forse…

Davide Birillo Valsecchi

A spasso con la Nana

A spasso con la Nana

«Oggi sono un uomo più saggio di quanto fossi ieri. Sono un essere umano, ed un essere umano è una creatura vulnerabile, che non può assolutamente essere perfetta. Dopo la morte, ritorna agli elementi, alla terra, all’acqua, al fuoco, al vento, all’aria. La materia è vuota. Tutto è vanità. Noi siamo come fili d’erba o alberi della foresta, creature dell’universo, dello spirito dell’universo, e lo spirito dell’universo non ha né vita né morte. La vanità è solo ostacolo alla vita»
Sōkon “Bushi” Matsumura

Corni: Antivigilia 2018

Corni: Antivigilia 2018

Bruna, ora che è mamma, ha venduto la “Hornet600” e questo ha privato la nostra sconclusionata compagine della batteria da moto con cui alimentare i nostri tamarrissimi led per la tradizionale fiaccolata dell’antivigilia alla Croce del Corno Occidentale dei Corni di Canzo. Invero avevamo anche trovato una batteria sostitutiva ma, ahimè, qualcuno dei Tassi l’ha dimenticata in ufficio. Quindi nulla, quest’anno la si è combinata al buio con le frontali da 4 eruo comprate all’OBI.

In realtà la faccenda non si dimostra un gran problema per due motivi. Il primo è che, essendo l’antivigilia di domenica, il rifugio SEV è eccezionalmente aperto per la serata. Una fiaccolata di volontari è partita da Oneda e sulla terrazza del rifugio si è festeggiato con vin brulè e panettone. La seconda ragione è che, come sempre accade, “l’uso e l’abuso del buso porta al disuso del buso stesso”. Illuminare le cime la notte dell’antivigilia era inizialmente una tradizione discreta, un piccolo gesto simbolico. Oggi è diventato un “happening” e, come sempre accade, è scattata sulle montagne una competizione a chi ha le luminarie più grosse e a chi tira più gente. Quindi, visto che noi non abbiamo manco la batteria per quei quattro led tamarri comprati sempre all’OBI, abbiamo festeggiato piacevolmente al buio. “esserci più che apparire, invisibili ma radicalmente presenti”, ecco la riflessione e la missione per il prossimo anno.

Il rifugio era gremito di gente e la tentazione di non salire sulla cima mi ha sfiorato: questa volta sono stati i Tassi, e non il Nostromo, ad impegnarsi per proteggere la tradizione. Mav e Ruggero hanno risalito la ferrata del Venticinquennale mentre il resto della piccola compagine ha raggiunto la cima lungo il Caminetto. Strette di mano, abbracci e foto di rito. Poi tutti di nuovo al rifugio.

“Il mio galletto. Sì l’ha un bel becco. Tutte le donne lo voglion nel letto. Galletto qui, galletto là. E il mio galletto l’è mai a ca’. E muoio, muoio, muoio per te mio galletto. Evviva l’amor, evviva l’amor e chi lo sa fare.” Nella sala grande della SEV è un tripudio di scodelle di trippa, caraffe di rosso e canzoni sberciate battendo il ritmo sul tavolo. Magnifico!

Davide “Birillo” Valsecchi

Corni: Antivigilia 2017

Feliz Navidad

Anche i Corni brillano!

Una luce anche ai Corni

GeoTecnica Non Inclusa

GeoTecnica Non Inclusa

Per me, che sono del Versante Nord, il Corno Orientale è sempre stato il corno piccolo: questo perchè, arrivando da Pianezzo, appare più basso degli altri due. In realtà, sul versante che scende verso Valmadrera, il Corno Orientale custodisce, quasi nascosta, la parete di roccia più imponente di tutto il gruppo, persino della maestosa Parete Fasana. Trovarsi ai piedi del Corno Orientale all’alba di una mattina d’estate è un emozione trascinante. Il sole, che sorge lento affacciandosi tra il Due Mani ed il Resegone, illumina la “grande onda” di una luce ambrata, viva, che risplendere su quella roccia grigia. Poi il sole inizia la sua corsa inseguendo il giorno ed in un istante, quel trionfo di luce, sprofonda nell’ombra fino al mattino successivo. Ritrovarsi sulla parete nord del Corno Orientale è come cadere in acqua in mezzo ad un oceano grigio. Le prospettive, in quelle onde di roccia, si confondono ed il mondo verticale diventa misteriosamente orizzontale: smetti di arrampicare ed inizi a nuotare, ti aggrappi ai fluttui mentre la gravità diventa semplicemente una corrente che ti respinge giù,  verso la riva, che ti allontana da quella immensa onda che sovrasta tutto e che nasconde alle sue spalle un ignoto ancora più grande. Mi ero spinto lassù per ripetere la via dedicata a mio Nonno, per un omaggio a mia madre scomparsa, ma mi ero ritrovato in un mondo sconosciuto: ricordo la paura, a tratti il terrore, il freddo, ma anche il curioso canto di un uccellino e quell’incredibile gioco di riflessi che nella luce del tramonto, senza alcuna logica per una parete ad est, creava una macchia di luce ad indicare l’uscita dell’ultimo tiro. Il Corno Orientale è un luogo strano, uno di quei luoghi in cui ti addentri pronto ad abbandonare tutto e torni al mondo come una persona diversa. Per me, ma non solo per me, è stato così.

Mi hanno chiesto cosa penso della nuova via al Corno Orientale. Onestamente la domanda è semplice, ma la risposta è complicata. Il nome non mi piace, ma questo è soggettivo, è una via “prevalentemente tradizionale” ma “moderna”, nel senso che si spazzolano le prese appesi con le fisse, nel senso che il trapano è stato usato solo per piantare otto fix, di cui quattro per due soste. Ora non saprei dirvi se su duecento metri di via sia tanto o poco: qui non siamo in Wenden ed io capisco poco la modernità, resto aggrappato – spesso anche appeso – alla “moda vecchia”. Curiosamente sotto il naso mi è capitato uno strano passo dal Vangelo di Luca: “Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto (Lc 16,9-13)”. Ma se comprendere “tanto o poco” è un guaio, tentare la sorte con “fedele o disonesto” è quasi dissennato. Una cosa però la so per certo: “La legge che guida le stelle è la stessa che guida le formiche, impara dalle formiche e conoscerai le stelle”. Il problema è che alla fine del viaggio, quando conosci le stelle, scopri con stupore che spesso sono molto meno interessanti e meno divertenti delle formiche.

Quindi non vi dirò la mia su GeoTecnica, ma vi racconterò quello che in cinque lunghi anni ho imparato su tutte le altre vie del Corno Orientale. Magari riflettendo soprattutto sulla Don Arturo Pozzi con cui GeoTecnica sembra purtroppo intersecarsi spesso:

Sulla Parete Nord Est del Corno Orientale esistono solo cinque vie immortali ed indipendenti nelle loro linee: il “Diedro Dell’Oro” (1939), la “Pino Dell’Oro” (1976), la “Don Arturo Pozzi” (1964), la “Luigi Paredi” (1969), “Stella Alpina” (1963). Una menzione particolare va alla “Giuseppe Verderio” (1969). Il Diedro Dell’Oro è la più antica, aperta da Darvini e Pierino dell’Oro, capostipiti della tradizione del ValleMadre. La Don Arturo Pozzi è la prima ad affrontare la grande parete per tutta la sua lunghezza, nella sua parte centrale. Ma la storia della Don Arturo ha probabilmente inizio sul Corno Centrale, sulla Torre Desio. Qui Eugenio Fasana, nel 1931, ha risalito il difficile camino, ma è stato un ragazzo di 16 anni, la leggenda vuole scalzo, che nel 1946 traccia un’incredibile linea sullo spigolo del torrione: Carlo Rusconi e lo Spigolo Palferi. Il talento del giovane continua a crescere. Nel 1954, con Alfredo Villa, apre una nuova via sul Pilastro Maggiore, una via che è considerata un esempio di “itinerario sportivo” dei Corni: ovviamente a vecchi chiodi e clessidre. Solo successivamente alcuni ripetitori hanno messo dei chiodi a pressione nel passaggio di VII+ sul secondo tiro, passaggio che prima di allora era superato probabilmente con una piramide umana. Sempre nel 1954 Carlo Rusconi riuscì nella prima ripetizione della temutissima via di Ercole “Ruchin” Esposito allo Spedone. Una via del 1942 ripetuta per la prima volta nel 54 e che, nel 2018, conta solo altre 6 ripetizioni. Una piccola impresa che ancora oggi lega in un vincolo di amicizia e rispetto la tradizione di Calolzicorte a quella di Valmadrera e dell’Isola. Purtroppo nel 1955 il talento di Carlo Rusconi si spense sulla Grignetta: “Claudio Corti arrampica con Carlo Mauri e Carlo Rusconi sulla via Ruchin ai Torrioni Magnaghi, e Carlo Rusconi è capocordata, seguito da Carlo Mauri. Claudio Corti è in basso, fermo, in attesa che i compagni vadano in sosta. Carlo Rusconi manca un appiglio e precipita.” Carlo era il più anziano di otto fratelli. Pochi anni dopo, nel 1958, un’altro campione dell’Isola, Elvezio dell’Oro, perde la vita sulla lontana Torre Trieste: “L’epilogo delle avventure di Elvezio è tristemente noto: la sua morte, a poca distanza da quella di Carlo Rusconi, segnò gli ultimi anni cinquanta. La scomparsa di due figure diventate carismatiche nell’universo alpinistico locale lasciò un segno così profondo da provocare un periodo di stasi e di ripensamento.” Tutto si ferma, l’Isola trattiene il respiro e forse le lacrime, poi riparte. Nel 1963 Giuseppe Crippa e Giuseppe Arosio tracciano Stella Alpina, ma gli indigeni sono ancora immobili. Il primo successo della emergente generazione avviene nel 1964: Giorgio Tessari e Antonio Rusconi, non ancora ventenne e fratello di Carlo, tracciarono sulla parete Nord Est del Corno Orientale la via Don Arturo Pozzi, allora Parroco di Valmadrera. Ora dovrebbe essere più facile comprendere il valore tecnico, ma anche simbolico, di questa via. L’anno successivo, nel 1965, è la volta della “Via O.S.A.”, sulla selvaggia parete Nord del Moregallo, aperta in due giorni di arrampicata e con un bivacco in parete, sempre da Antonio insieme a Giorgio Tessari, Castino Canali e Pietro Paredi. L’Isola è di nuovo in movimento ed i suoi alpinisti si spingeranno ben oltre i suoi confini. Nel 1969 Pietro Paredi traccia la sua via in ricordo di mio nonno Luigi Paredi. Nello stesso anno Giancarlo Mauri traccia una nuova via, un’artificiale estrema che si conclude in solitaria, per ricordare l’amico Giuseppe Verderio, caduto dal Medale all’uscita della Cassin. Nel 1976 Romano Corti e Gian Maria Mandelli tracciano la Pino Dell’Oro: una delle espressioni migliori e più complete dell’arrampicata libera sull’Isola. 190 metri di via, solo 25 chiodi tradizionali, niente incastri, nessuna perforazione: una via che ha la mia età e che nel 2018 vanta ancora meno di 10 ripetizioni. Poi, nel 1997, compare il trapano tentando di dire la sua tra le onde del Corno Orientale: Nido di comete, Aresen Lupen. Oggi quelle piastrine tra le onde sembrano sirene che, cariche di lussuriose lusinghe, cercano di trarre in inganno i marinai nel periglio delle antiche rotte degli uomini. L’esperienza mostra che sull’Isola le vie a spit,  quando sormontano o competono da vicino con le classiche, sono destinate all’oblio ed al rimorso: non c’è grado che superi il rispetto per la tradizione. Nel 2012 Fabio Valseschini ripete tutte le classiche del Corno Orientale, in solitaria, in inverno. Francamente credo che Fabio sia un talentuoso stramboide: è impossibile non sia piaciuto agli spiriti dei Corni, che i fantasmi tra le onde del Corno Orientale non si siano rallegrati della sua compagnia nelle brevi giornate d’inverno. Nel 2015 Mattia ed io abbiamo aperto “Stellina”, una via di 30 metri, dicono di VI+, sul piccolo monolite alla base della parete. Eravamo due quarantenni infreddoliti, prostrati alla grandezza della parete e grati a coloro che ci avevano preceduto. Niente di eccezionale probabilmente, ma l’abbiamo aperta con mezzi leali: otto chiodi che abbiamo rimosso con attenzione, perchè del nostro passaggio restasse il ricordo ma non il segno. Il 2018 è l’anno di “Geotecnica”: credo per il Corno Orientale sia la prima volta in cui un fotografo precede da vicino il primo di cordata…

Ora io non so bene cosa dire su questa GeoTecnica: troppi numeri e troppa poca storia per i miei gusti. Non so nemmeno se è chiaro ciò che ho cercato di spiegare in questo mio lungo raccontare. Quello che mi pare chiaro – a prescindere dallo specifico di questa nuova via – è  che i ragazzi di oggi, con il trapano all’imbrago, ci fanno davvero una magra figura rispetto ai coscritti di 60 anni fa, ragazzi come loro ma che davvero non avevano nulla salvo ragguardevoli “attributi” (ed un intuito incredibile). Nel 2018, sopratutto a certi livelli ed in certi ambienti, si dovrebbe almeno avere il buon senso di non bucare la roccia per passare a tutti i costi, per inseguire una “libera assistita”. Non fosse altro che per dare il buon esempio.

“…tuttavia, se vi troverete su quelle pareti appesi nel vuoto, a tenervi conforto ci sarà quella strana sensazione di essere parte di “qualcosa”, vi sentirete vicino quei pochi che prima di voi si sono avventurati nella vostra stessa ardimentosa ricerca attraverso quelle onde di roccia.” Io spero – ed in questo sono brutalmente onesto – che gli apritori di GeoTecnica comprendano questo “qualcosa” e che, ovviamente a modo loro, trovino la giusta via per farne parte. Detto questo credo di non aver altro da aggiungere sulla faccenda. Forse solo una frase di Carlo Mauri, compagno di cordata di Carlo “Palferi” Rusconi nel suo momento più terribile, ascoltata qualche giorno fa: “Noi di Lecco apriamo le vie che possiamo, non quelle che vogliamo”. Altri tempi, altri uomini, altra epoca. Forse anche io come il Bigio smetterò di arrampicare e me ne andrò in Africa, a trovare il vecchio Santos, a rivedere con lui il Tanganika in cerca di nuove e strambe avventure. O forse no… forse c’è ancora da fare qui, anche e sopratutto senza trapano.

Davide Birillo Valsecchi

Corno Orientale – La scelta è in effetti difficile – Africa

Senza Olio di Palma

Senza Olio di Palma

Storicamente, sull’Isola Senza Nome, le falesie di arrampicata sportiva hanno sempre avuto un ciclo vitale estremamente breve sebbene il loro impatto ambientale sia pressochè permanente. Al momento la Falesia del Pozzo, l’intramontabile Falesia Corna Rossa, la recente Falesia del Gavatoio e – forse – la Falesia di San Tomaso godono di una significativa frequentazione. Le altre dopo un iniziale periodo di notorietà – a volte anche lungo – stanno gradualmente sprofondando in un completo abbandono. Pensiamo alla Torre Marina o al Prasanto, ma anche alla Pala dell’Eretico, la Falesia dei Laghetti, il gruppo dei Pilastri e persino – incredibilmente – al Corno Rat. Stessa cosa sul versante nord dove a bordo strada, per la facilità d’accesso ed un controllo meno attento, le falesie fioriscono e sfioriscono divorate dal bosco a tempo di record. Oggi quelli che frequentano le “palestre outdoor” si definiscono “climber” e sono coloro che praticano l’arrampicata principalmente come passatempo ricreativo, spesso in alternativa alle “palestre indoor”: difficilmente sono interessati ad affrontare ciò che ritengono essere lunghi avvicinamenti, una rigogliosa vegetazione, un clima spesso sfavorevole (torrido d’estate, gelido d’inverno), una particolare tipologia di roccia e non ultima una significativa difficoltà. Per questo il destino delle falesie sportive sull’Isola appare decisamente chiaro.

Con il senno di poi, a distanza di qualche decennio e senza voler offendere nessuno, queste falesie appaiono come gesti invasivi, certamente figli della propria epoca, ma oggi senza risultato o scopo. Una realtà su cui siamo chiamati a riflettere per una futura e corretta gestione degli spazi. Differentemente le vie classiche, che non sono mai state riattrezzate ma solo costantemente e pazientemente restaurate, attirano sempre più spesso chi – con adeguata preparazione – vuole confrontarsi con difficoltà autentiche ed impegnative salite storiche (alcune ormai ultracentenarie). Anche il Boulder è silenziosamente molto attivo sui pendii dell’Isola, sul Moregallo è invece in atto un’intensa attività esplorativa con l’apertura di nuovi monotiri rigorosamente “Trad” e “Clean”. Molti giovani, riflettendo e confrontandosi con i Decani, stanno autonomamente adottano un codice di autoregolamentazione che sposa sia il Bidecalogo del Cai, sia il “By Fair Means” Inglese, sia il codice etico dello Yosemite Park. Una piccola comunità alpinistica in pieno fermento ed in costante evoluzione.

In questo scenario, più o meno un anno fa, fece il suo ingresso un famoso arrampicatore del Lecchese, celebre soprattutto per le proprie importanti imprese al Nibbio: Fabio Palma. In quei giorni di Novembre Palma si spese in conferenze stampa ed articoli di giornale per presentare una “nuova” falesia di arrampicata sportiva realizzata sulla sommità del Corno Occidentale, un omaggio ad uno sponsor per celebrarne un anniversario aziendale: “Senza soldi pubblici permettiamo a tutti di arrampicare”. Cinque tiri già realizzati, altri dieci pronti a breve per una falesia che, in modo sorprendente, avrebbe ricevuto come nome proprio quello dello sponsor. Nei fatti si trattò di due giorni di carpenteria con il trapano calandosi dal sentiero delle capre per dare vita a qualcosa che a tutti è subito apparso come assolutamente pretestuoso e privo di logica. Due giorni in cui la roccia di una singola parete fu insensatamente forata come mai l’intero gruppo montuoso nei precedenti 50 anni.

Al clamore mediatico fece però rapidamente seguito un assordante silenzio. Dopo i proclami e le pubblicità autocelebrative, seguirono infatti numerose lettere ufficiali di protesta inviate dalle associazioni alpinistiche locali, il parere negativo espresso dal Collegio delle Guide Alpine di Lombardia, le osservazioni sfavorevoli espresse dalla Commissione Centrale Tutela Ambiente Montano (TAM) del CAI. Non ultimo l’intervento dell’ERSAF, l’ente regionale che salvaguarda la Zona Protezione Speciale (ZPS) della Foresta dei Corni di Canzo. Sempre in quei giorni di Novembre ebbi modo di scoprire come Palma abbia anche la manzoniana abitudine di fare la voce grossa nascondendosi tra le sottane degli azzeccagarbugli: fui infatti “diffidato” dal diffamare o vandalizzare il suo operato ai Corni. Curiosamente io ero stato uno dei pochissimi ad esporsi per intavolare sulla questione una discussione ferma ma aperta ed alla luce del sole. Tuttavia il karma possiede un’ironia straordinaria: il suo progetto, sbandierato ai quattro venti ma privo di qualsiasi autorizzazione, oltre all’etica, alla tradizione ed alla mia fiducia, violava infatti i dettami di una ben precisa e rigorosa Norma Europea in vigore ai Corni di Canzo a tutela dell’ambiente, Rete Natura 2000. L’autorizzazione, per un progetto che era incompatibile ed alieno tanto alla storia quanto all’ecosistema naturale, è stata inequivocabilmente negata. Anzi, gli enti preposti hanno espresso una chiara ed esplicita richiesta di ripristino e pulizia della parete. Lo stesso consiglio dei Maglioni Rossi ha recentemente disconosciuto il progetto come “iniziativa personale dell’Ex-Presidente”.

Solo la buona volontà di un giovane Ragno, ravvedutosi dell’errore, ha ora finalmente permesso di iniziare i lavori di pulizia. Un gesto per cui esprimo la mia sincera gratitudine e verso cui, anche a nome di altri alpinisti dell’Isola Senza Nome, offro la massima collaborazione: “Hai fatto la scelta giusta. Ma intascarsi le piastrine non basta: il lavoro va finito e finito bene. Se ti serve aiuto non esitare: ti diamo una mano, facciamo pulizia, chiudiamo la questione ed andiamo a bere tutti insieme alla SEV. Questo è stato solo un incidente, un errore, ma bisogna risolverlo al meglio perchè sia lasciato alle spalle.”

Cos’altro aggiungere per concludere? Fabio Palma è un personaggio pubblico, considerato uno tra i “grandi arrampicatori contemporanei” al mondo, uno che scrive cose intelligenti per pubblicazioni prestigiose ed internazionali, uno che favorisce il progresso e l’evoluzione dell’arrampicata. Purtroppo, ai Corni di Canzo, pare sia stato “pesato e trovato manchevole”: succede, alle volte sono montagne terribili, non guardano in faccia a nessuno e non prestano attenzione alle chiacchiere. Tuttavia è interessante come, contro ogni statistica, sia riuscito a sbagliarle davvero tutte dando vita ad un glorioso esempio di tutto ciò che NON dovrebbe far parte né dell’alpinismo né dell’arrampicata. Chapeau: una vera conquista dell’Impossibile…

“Mi dispiace Fabio, l’ultima volta che si siamo incontrati ti ho stretto la mano con amicizia. Poi chissà cosa ti è successo. Ci hai provato con il trapano, e non ha funzionato. Ci hai provato con l’avvocato, e non ha funzionato. Io da indigeno, nonostante tutto, ho anche cercato di avvisarti su cosa sarebbe accaduto, ma tu niente. Vabbè, ormai è andata come doveva andare. Ora, se vuoi, posso prestarti la carta dei sentieri e magari, cominciando con un po’ di trekking leggero, finalmente capirai che aria tira qui sull’Isola Senza Nome…”

Davide Birillo Valsecchi
Il più scarso alpinista nei primi 100 anni di storia dell’Isola Senza Nome.


“Salviamo dunque il drago; e, in avvenire, proseguiamo sulla via indicataci dagli uomini del passato: io sono convinto che sia ancora quella giusta! Calza gli scarponi e parti. Se hai un compagno, porta con te la corda e un paio di chiodi per i punti di sosta, ma nulla di più. Io sono già in cammino, preparato a tutto: anche a tornare indietro, nel caso che io m’incontri con l’impossibile. Non ucciderò il drago; ma se qualcuno vorrà venire con me, proseguiremo assieme verso la vetta, sulle vie che ci sarà dato di percorrere senza macchiarci d’assassinio.”
Reinhold Messner – L’Assassinio dell’Impossibile 1968

“Sono arrivato come in tanti altri posti, per una serata. Ma solo qua – dice, e nel raccontare sorride – non m’è più riuscito di ripartire: ho conosciuto gente speciale, un ambiente speciale. Grande amore per la montagna, ma anche grande disponibilità e apertura. E poi valori precisi ed in qualche modo omogenei in tutto l’ambiente di là dalle identità e dalle personalità individuali: coerenza, rifiuto di certi compromessi purtroppo molto di moda per quanto sviliscano il senso vero dell’alpinismo. Io ho scoperto tutte queste cose qui ed è per questo che scappo a Valmadrera, quando e appena riesco: per stare con gli amici, per andare con loro in montagna, per chiacchierare di cose qualunque.”
Walter Bonatti – intervista per Vertice 1988

“Well,Yippie-Ki-Yay MotherFucker!”
John Mcclane – Nakatomi Tower – Festa di Natale 1988

In ricordo di Luigi Paredi

In ricordo di Luigi Paredi

Nel parlar di Lui, sempre mi viene in mente quel lontano giorno del 1947 – una domenica mattina – in cui incontrai Luigi; era con Sandro, Gianpietro e Felicetto. Io ed altri giovanetti eravamo seduti fiaccamente sul sagrato della Chiesa ad oziare ed i tre si fermarono con noi per dirci del loro progetto di costituire a Canzo una Sezione del C.A.I.

Accettammo con entusiasmo la proposta di unirci a loro; con un entusiasmo forse più maturo del consueto entusiasmo giovanile e così da quel giorno ebbe inizio la mia amicizia con Luigi. Un’amicizia che mi ha insegnato a conoscere, ma soprattutto ad amare la montagna, proprio come Lui la amava.

Quando noi giovani acquistammo col tempo una buona esperienza in montagna, era Lui che riusciva a frenare le nostre irruenze, dettate da una esuberanza giovanile. Luigi anche in questi casi ci dava sempre un insegnamento: come amare veramente la montagna anche nei suoi aspetti più semplici, come saperla conoscere, affrontare ed intendere in ogni sua manifestazione.

Lui, l’amava in modo vero! In un modo che pochi hanno compreso veramente e chi, come Lui, considerava una conquista anche l’arrivare în vetta ai Corni, capiva veramente che cosa fosse la montagna, che cosa significava amarla anche nelle sue manifestazioni che potevano apparire meno grandiose agli occhi superficiali di molti. Lui, aveva capito che non è la grande vetta che fa l’alpinista, ma è l’amore che si nutre per la montagna, che diventa allora la nostra « maestra di vita » nel superamento delle nostre prove.

Chi di noi non ricorda — dopo un lungo periodo di inattività — l’entusiasmo di Luigi nella sua ultima ascensione invernale al Canalone Comera? Giunti in vetta Egli gioiva come un bambino che ha ritrovato la vera gioia; quella stessa gioia che irradiava dal Suo volto il giorno in cui la montagna lo richiamò a sé, silenziosamente morendo tra i Suoi monti che tanto aveva amato.

Lascia un immenso vuoto in tutti coloro che lo hanno amato e stimato, perché al di là di ogni ragionamento, sentiamo che in quell’attimo Egli scalava la Vetta più altà, che Lo apriva alla visione del grande Mistero.

Testo di Franco Redaelli – Pubblicato sull’Annuario celebrativo del CAI Canzo, all’epoca Sottosezion del CAI Lecco, in occasione del venticinquennale della Sottosezione (!947-1972).

Io non ho mai conosciuto il mio nonno materno, Luigi Paredi. Morì in montagna quando mia madre era ancora adolescente. Non sapevo nulla della sua passione per i Corni di Canzo, e l’ho scoperta solo dopo aver approfondito la mia per la sua stessa montagna. Senza possibilità di imitazione siamo diventati, inconsapevolmente, molto simili. Qualcosa di assolutamente curioso e che rende il mio legame con l’Isola ancora più indecifrabile: avevo tutto il mondo a disposizione e mi sono fermato tra queste quattro “piccole” montagne, all’epoca per me quasi ignote, ora radicate nella mia conoscenza. Siamo il nostro passato, siamo i testimoni per il futuro.

  

Corni Yosemite Style

Corni Yosemite Style

A Finale Ligure c’è un bel po’ di maretta recentemente: numerose associazioni locali hanno dato vita ad una sentita protesta contro l’apertura di nuove vie di arrampicata sportiva. In un’area dove esistono già oltre 3000 vie si contesta l’uso eccessivo del trapano e la volontà, ormai dichiarata, di trasformare tutta l’area in un “Parco Outdoor”, in un’attrazione turistica sportiva dotata di parcheggi interrati ed amenità simili. Onestamente non sono mai stato a Finale e non mi esprimerò su qualcosa che non conosco, specie laddove non sono indigeno.

Tuttavia la vicenda di Finale, per alcuni aspetti, ricorda quanto accaduto ai Corni di Canzo alla fine del 2017. Un improvviso ed invasivo “progetto” di chiodatura sportiva sul Corno Occidentale: quindici nuove vie, annunciate sui giornali, per un’estemporanea falesia realizzata al fine di celebrare l’anniversario di uno sponsor. Anche nel nostro caso le Associazioni locali si sono riunite, si sono confrontate ed hanno espresso nero su bianco le proprie osservazioni contrarie. Le autorità che presidiano la ZPS dei Corni (Zona Protezione Speciale), anche a seguito delle osservazioni raccolte, hanno bocciato il progetto: oggi non resta che decidere come comportarsi con le vie già realizzate prima che esso fosse reso pubblico. In particolare quelle linee che tagliano pericolosamente il traverso della ferrata del Venticinquennale. 

Incontrarsi è stata sopratutto l’occasione per valutare l’approccio migliore per l’Isola Senza Nome, per garantire la libertà di arrampicare nel rispetto della tradizione e dell’ambiente.  Sul Bidecalogo del CAI, ad esempio, è riportato chiaramente un principio di condotta per la realizzazione di nuove vie: “La costruzione artificiale di itinerari di arrampicata mediante perforazione della roccia sarà limitata alle pareti che già si sono prestate naturalmente, in passato, all’esercizio dell’arrampicata sportiva perché situate in prossimità di punti d’appoggio, pur appartenendo a strutture della cresta alpina.[…] L’apertura di nuovi itinerari di scalata dovrà basarsi sulla struttura naturale della montagna e sul rispetto delle vie logiche di salita. L’uso dei mezzi artificiali che comportano la perforazione della roccia dovrà essere evitato o limitato a casi straordinari, simili a quelli in cui essi sono stati tradizionalmente tollerati, ossia ai casi in cui essi consentono il superamento di brevissime interruzioni della linea di salita naturale, e ai casi di emergenza.” Un discorso sensato e che per questo ha portato anche la Commissione Centrale del CAI per la Tutela Ambiente Montano (TAM) ad esprimersi sulla questione dei Corni.

Da molti il Bidecalogo è considerato un’anacronistica presa di posizione dei cosiddetti “Caiani”, tuttavia queste persone dovrebbero visionare il regolamento dello Yosemite Park: uno dei templi dell’arrampicata nella terra della libertà.

Yosemite, politica di chiodatura (bolt) e nuove vie (Link): «le perforazioni per il posizionamento di protezioni per l’arrampicata sono permesse in Yosemite, purché siano fatte a mano. Perforazioni realizzate con il trapano sono proibite. Il National Park Service non ispeziona, non effettua manutenzione o riparazioni alle protezioni o alle altre attrezzature da arrampicata all’interno del Parco. Al di là di questa semplice regola, c’è una forte etica nella comunità in Yosemite. Se hai intenzione di effettuare perforazioni per una nuova via o di alterarne una esistente, parla con gli scalatori locali che hanno familiarità con la storia e le tradizioni di percorsi in Yosemite prima di alterare definitivamente la parete rocciosa. Nessuno vuole vedere la roccia danneggiata da protezioni posizionate e tagliate. Il “Giardinaggio” (il nome dato alla rimozione della vita vegetale nelle fessure) non è permesso in Yosemite. Molti alpinisti rimuovono occasionalmente erba o foglie per posizionare una protezione o trovare una presa, ma questo non è nulla in confronto al danno grave che si provoca creando una nuova via. Il danno causato dalla creazione di una nuova via è di gran lunga superiore a quello causato da ogni ripetizione successiva. Se stai pensando di crearne una nuova, chiediti: “Questa via vale il danno che provocherà?” “È una linea classica che gli altri apprezzeranno arrampicare, oppure sono semplicemente interessato a realizzare la mia via?” “Cosa penseranno gli scalatori da qui a cinquant’anni di questa via o di questo fittone?” “Ci sono già migliaia di percorsi in Yosemite, forse conviene provarne qualcuno prima di lasciare un nuovo segno nella natura selvaggia dello Yosemite”. Le ragioni: la maggior parte delle aree di arrampicata dello Yosemite si trovano in aree desolate e in queste aree non sono ammessi oggetti motorizzati, inclusi i trapani. Oltre a questo mandato del Congresso, il parco ha interesse a limitare gli impatti dall’arrampicata consentendo agli scalatori di godersi il parco. La regola risultante consente agli scalatori l’insolito privilegio di modificare permanentemente le scogliere di granito di Yosemite aggiungendo “spit” nel luogo prescelto, ma limita intrinsecamente il numero di tali “spit” richiedendo che vengano forati a mano.»

Idee semplici, ma efficaci: “SenzaTrapano”. L’Isola Senza Nome, negli ultimi dieci anni, ha rimarcato la propria natura consolidando una consuetudine che l’ha sempre caratterizzata e che oggi è ampiamente accettata e rispettata. L’ultima via con protezioni fisse realizzata sul Corno Occidentale è stata aperta rigorosamente dal basso, con spit a mano e realizzata da due veterani, all’epoca sessantenni, appesi in parete sui cliff e staffe. Tutte le altre vie recenti sono state aperte, sempre dal basso, senza lasciare traccia permanente.

Credo sia una piccola grande soddisfazione sapere che sull’Isola vigano le stesse regole etiche della Yosemite Valley e che allo stesso modo esista una comunità locale, agguerrita ed indomita, capace di esporsi a tutela del proprio territorio.

Purtroppo questa consapevolezza non si è ancora diffusa in tutto Triangolo Lariano. Oggi, approfittando della giornata piovosa, ho portato i Tassi a vedere la via “Molteni Valsecchi” ed il “Diedro Scarabelli” alla muraglia del Buco del Piombo. Nella Yosemite Valley, da regolamento, le corde fisse sono da considerarsi “abbandonate” se lasciate incustodite per più di 24 ore, i Ranger sono autorizzati a rimuoverle e sequestrarle. Nel Parco della Valle Bova c’è ormai un fiorire di ghirlande e piastrine: “cantieri” che saranno forse un giorno “liberati”. Da quando l’accesso al pubblico è stato interdetto anche la grande volta del Buco del Piombo, carica di storia e valore naturalistico, ancora ufficialmente inaccessibile persino agli speleo, è ormai sempre più tempestata di piastrine e rinvii appesi: tutto questo mentre le grandi classiche sono sempre più abbandonate a se stesse. 

Il diffondersi di una cultura richiede tempo mentre il trapano a batteria consuma spazi con ritmi incredibilmente incalzanti, spesso in modo irreversibile. Tuttavia possiamo e dobbiamo vigilare esprimendo, a volte anche con una punta di coraggio, il giusto disappunto affinché attecchisca un’etica moderna nell’utilizzo delle risorse naturali del nostro territorio.

Davide “Birillo” Valsecchi

Most of Yosemite’s climbing areas are in designated Wilderness and must remain “without permanent improvements or human habitation… with the imprint of man’s work substantially unnoticeable.” Wilderness, and climbing in particular, is not intended to be convenient or easy (ironically that’s why many are drawn to it). Please do your part to maintain Yosemite’s wildness. In 2001 volunteers and rangers removed over four thousand feet of trash rope from Yosemite’s walls, not including a few thousand feet of junk rope from the Heart Ledge rappels by conscientious climbers.

Wiki: IsolaSenzaNome.it

Wiki: IsolaSenzaNome.it

Cima-Asso.it, questo sgangherato blog che è diventato il diario dei Tassi del Moregallo, compie ora 10 anni di vita. Dieci lunghi anni, più di 1700 articoli pubblicati: racconti che spaziano in quattro continenti per aggrapparsi poi alle selvagge pendici dell’Isola Senza Nome. Nel 2008 i Social Network quasi non esistevano, i cellulari non avevano una connessione ad internet e la gente si scambiava ancora SMS a pagamento. Aprire un blog, pubblicare racconti con un telefono satellitare ed un pannello solare quando nelle case entravano le prime ADSL, è stata  un’avventura nell’avventura. Non esistevano “Influencer”, “Youtuber”, “Follower” o “Marchettari”: Internet era ancora una frontiera libera, “scrivere” significava lanciare un messaggio in una bottiglia ed affidarsi alle onde. Oggi le barriere sono cadute, i limiti e le difficoltà sono svaniti, il “canale” si è riempito di rumore, di sciocchi che strillano compiacendo ego e tornaconto: gli unici a prestare davvero ascolto sono i “robot” che ci spiano e profilano a scopo di lucro. La ragnatela, che brillava come un sogno nella rugiada del mattino, ha mostrato ora il volto del ragno famelico. Sono passati dieci anni, tutto è cambiato, anche io: ma non nei sogni nè negli ideali. Non mi interessa inseguire un pubblico, dare la caccia ai “like”, procacciarmi contatti e aderenze: tutto questo mi disgusta. Una parte di me è stanca e stufa, non vuole quasi più scrivere. Ma un’altra ancora crede nel sogno delle origini: un giorno, in un futuro lontano, le storie di “cima” sopravviveranno come graffiti analogici sulle pareti di un bunker post-atomico popolato da ribelli sopravvissuti. Quello che raccontiamo oggi vivrà nel futuro, nel cuore del “domani-domani”. Tutto il resto non importa, basta questo sogno per continuare. Così, più o meno una decina di mesi fa, più o meno a Luglio, ho deciso che era tempo di fare “ordine”, di dare forma e strutture a dieci anni di esplorazione, di rispolverare uno dei sogni più potenti che nei primi anni 2000 scuotevano Internet: la wikipedia. Già, la grande enciclopedia libera, la piccola rivoluzione di Jimmy “Jimbo” Wales che ha cambiato il mondo e che oggi diamo troppo spesso per scontata. Così nel cuore di “Cima”, pasticciando con il codice e la valanga di fotografie del mio HardDisk, ho tirato in piedi una piccola enciclopedia collaborativa interamente dedicata all’Isola Senza Nome. Uno spin-off della grande enciclopedia universale che sappia raccogliere ed organizzare la “conoscenza” del nostro territorio. Sulle pareti del Bunker ora tutte le tribù potranno scrivere e narrare la propria storia. Dopo dieci anni pianto un nuovo seme, con la speranza che anche altri mi aiuteranno a farlo diventare l’albero del mondo, del nostro mondo.

“L’Isola è la nostra casa, la pianura ed i laghi segnano i suoi confini. Ragazzo guarda all’orizzonte, ad oriente verso il grigio abbagliante delle Grigne, ad occidente verso la splendente muraglia bianca del Monte Rosa. A sud le punte del Resegone ed il miraggio delle Città. A Nord, oltre il culmine del Lario, la grandezza delle Alpi. Noi non siamo circondati, no, noi siamo al centro di ogni cosa. Qui, sull’Isola, viviamo in un mondo speciale, intriso di mistero e avventura. Ed ora, ragazzo, vieni con me. C’è ancora molto da fare: dobbiamo riunire le Tribù, fondare una Nazione…” – Il viaggio del Nostromo

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Davide “Birillo” Valsecchi

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