Category: IsolaSenzaNome

CIMA-ASSO.it > IsolaSenzaNome
Giuseppe Verderio

Giuseppe Verderio

La sera del 27 dicembre 1968 la passiamo al Rifugio Medale in compagnia del buon Zaccheo. Fuori fa un freddo boia. Un ultimo bicchiere e poi si va a dormire nella tendina che abbiamo piantato a poca distanza dall’attacco della Cassin. Anche il giorno dopo il freddo è carogna – e il Beppe pagherà caro l’essersi dimenticato di mettere l’antigelo nel radiatore della sua Seicento! In parete, non molto lontano da noi c’è baraonda: Tiziano Nardella e soci stanno finendo la Taveggia. Ma in quanti sono? Da quanto urlano, si direbbero una metà di mille. Anche noi oggi siamo qui per assaggiare una via nuova. Attacco per la Cassin. Alla sua prima sosta prendo a destra e salgo tre tiri gnecchi fin sotto gli strapiombi. Tutto in libera: giusto un paio di chiodi di sicurezza e quelli per le doppie. Per oggi ci basta, la via ci pare possibile. Ritorneremo in primavera, quando il caldo avrà sciolto i ghiaccioli che penzolano sopra le nostre teste. Il 2 marzo del 1969 ritorniamo sulla Cassin alla Medale per fotografare di profilo la “nostra” futura via. Il Beppe assicura la new-entry, Diego Pellacini, io salgo in libera fino al primo diedro. Qui mi unisco alla loro corda e portiamo a termine l’ascensione. La Cassin non sbuca in vetta, ma esce sulla destra seguendo una cengetta, prima della quale ci si slega. Parto io, mi segue Diego, chiude il Beppe. Subito sento un rumore sordo, una botta attutita. Mi giro: siamo in due, il Beppe non c’é. Scendiamo a rompicollo. Dico a Diego di andare da Zaccheo per dare l’allarme mentre io perlustro il ghiaione al piede della Medale. Lo trovo quasi subito. Giuseppe Verderio, classe 1944, da allora riposa nel cimitero di Vimercate.

Bruna è sdraiata al sole sul terrazzo, si sente “strana” in questi giorni. Così, per lasciarla tranquilla, il week-end lo passo oziando a casa con lei invece che a zonzo per l’Isola. Tuttavia, quando apro la posta elettronica, resto sorpreso: inaspettatamente è come se fosse l’Isola stessa a scrivermi.

Giancarlo Mauri, grazie a Pietro Corti, ha da poco scoperto l’esistenza di questo piccolo blog ed ha deciso di scrivermi. Quel poco che so’ di lui l’ho letto sul libro L’Isola Senza Nome, dai suoi racconti sulle pareti dei Corni di Canzo. Racconti che fanno parte ormai del folklore e delle leggende che permeano le nostre montagne. Racconti che devono accompagnare le nuove generazioni nei loro gesti sul calcare liscio dei Corni, nel loro tramandare la tradizione dell’Isola. La “Via Elvezio”, la “Dell’Oro-Maggi”, la “Città di Cantù”, la “Via Pozzi” ed infine anche la “Giuseppe Verderio”, la linea verticale che affronta e rimonta la “Grande Onda” del Corno Orientale. Una via dedicata ad un amico scomparso, un ricordo nella roccia.

Giancarlo mi ha inviato un link ad un pdf, una nuova versione, arricchita di nuove immagini, del suo lungo ed intenso racconto “Arrampicare ai Corni di Canzo”. Il ricordo iniziale, qui riportato, è un passaggio di quel lungo racconto. Nella foto proprio Giuseppe Verderio, che come avrete ormai compreso, cadde il 2 Marzo del 1969. Leggendo il racconto di Giancarlo si scopre molto di più sul “Beppe”, sulla loro amicizia e sulle loro avventure.

“Arrampicare ai Corni di Canzo”, nella sua nuova edizione, è disponibile gratuitamente on line a questo indirizzo: Arrampicare ai Corni di Giancarlo Mauri (2014 riedizione academia.edu). Chi abbia arrampicato ai Corni di Canzo, o sia semplicemente affascinato da queste grandi e solitarie pareti, non potrà che rimanere coinvolto, rapito dalle nuove immagini quasi inedite che ora accompagnano questa storia.

Ancora una volta ringrazio Giancarlo per aver condiviso le sue avventure, a tratti dolorose, con noi. Avventure che hanno dato forma alle nostre fantasie, ai nostri sogni su quelle pareti. Avventure, grandiose e terribili, che hanno spalancato le porte di un mondo nuovo, di una visione delle nostre montagne tanto antica quanto moderna. Grazie: fino a quando questo spirito animerà gli arrampicatori dell’Isola il ricordo di Beppe non andrà perduto.

Davide “Birillo” Valsecchi

Giancarlo Mauri attraverso la grande “Onda” del Corno Orientale

Il suo nome è Robert Paulsen

Il suo nome è Robert Paulsen

“Questa è una persona! Un mio amico! Voi non lo seppellirete in giardino!” Tayler Durden, quello sfigato, era fuori di sé mentre osservava il corpo esanime di Bob, steso sul tavolo della cucina con la testa ridotta ad un cratere. ”Signore, è stato ucciso mentre serviva il progetto Mayhem.” Le scimmie spaziali, i suoi dissennati accoliti, i disperati che lo avevo eretto a leader, sembravano non capire la follia di quel momento. “Questo è Bob!” Urlò sconsolato Tayler alla folla di squilibrati che lo circondava e che egli stesso aveva raccolto tra le mura della sua fatiscente casa occupata. “Signore, nel progetto Mayhem non abbiamo nomi.” Uno dei suoi soldati si fece avanti rispondendo come se quello fosse un test. Gli occhi di Tayler si sgranarono in un furia disperata. “Ora ascoltatemi bene! Questo è un uomo, e ha un nome, e il suo nome è Robert Paulsen, ok?! Robert Paulsen. E’ un uomo ed ora è morto per tutti noi. Capite?!” Per un attimo tutti rimasero in silenzio, osservando il loro leader prostrato sul cadavere del loro compagno. “Io capisco.” Si fece avanti uno dei presenti: ”Nella morte, un membro del Progetto Mayhem ha un nome e quel nome è Robert Paulsen”. Tayler, travolto dall’incubo a cui aveva dato forma, si mise le mani tra i capelli mentre i suoi soldati iniziarono a ripetere ossessivamente all’unisono: ”Il suo nome Robert Paulsen”.

Stavo arrampicando sulle spalle dei “due troll”, due fatiscenti e friabili speroni di calcare a poca distanza dalle più solide e splendenti “rocce degli elfi”. Ero ad un paio di metri d’altezza, in equilibrio sui piedi mentre con le mani sondavo la resistenza delle prese. I due Troll sono roccia “marcia” avvolta dal muschio e dalle piante, spesso nemmeno la vegetazione sembra riuscire a tenere insieme quel cumulo di sassi che si alza per quasi cinque metri dal fondo del bosco. Un tempo, qualche millennio fa, dovevano essere massi spettacolare, ma ora le intemperie ed il mondo vegetale si sono infiltrati tra le pieghe dei suoi strati trascinando verso il basso i suoi fianchi rocciosi. Tuttavia mi piace arrampicarci sopra: restare immobile, mantenere posizioni scomode e valutare con attenzione ogni gesto nel mondo che lo accoglie. Non puoi arrampicare di forza, devi distribuire il peso, scivolare leggero sul ogni passaggio. Poi, sopra o sotto, qualcosa si stacca comunque: tloch! tlach! Ma se sei stato furbo, se hai ponderato bene la tua strategia, riesci a cavartela comunque. L’equilibrio nella follia: padroni del proprio destino in un mondo fragilmente in trasformazione. Una sensazione che vale la pena sperimentare.

Arrampicavo, in salita ed in discesa, sul crinale destro. Poi con un lungo traverso in discesa verso sinistra sono sceso dal piccolo tetto fin dentro lo stretto camino di sassi incastrati. In opposizione rimonto, poi allungo un braccio appoggiando il fianco ad uno delle pareti, afferro qualcosa di solido e risalgo verso l’alto avvitandomi tra i massi. Se qualcuno mi avesse visto in quel momento sarebbe rimasto stupito nel veder fare qualcosa di tanto inutilmente strano in mezzo ad un cumulo di sassi.

Oltre il camino una sorpresa, una profonda grotta si inabissa tra i sassi incastrati stringendosi fino a diventare poco più di un piccolo buco. Ci infilo la testa dentro ed inizio a curiosare in quella che è evidentemente diventata una tana. Poi, in mezzo al fogliame depositatosi sui lati, trovo un cranio. “Oilà! E’ tu chi sei?”

Non ne avevo mai visto uno e ci sono voluti un paio di giorni per avere la conferma che quello sconosciuto munito di zanne è in realtà un tasso: la cresta ossea, tra tutti i dettagli, ne è la prova più evidente. “Un teschio di Tasso…”. La cosa mi dava molto da riflettere: ogni volta che girovago tra i sassi erratici della valle mi imbatto in una tana di Tasso e questo consolida la scelta di aver chiamato il nostro gruppo “Tassi del Moregallo”. Imbattersi nei resti di un tasso morto non è quindi qualcosa da prendere alla leggera. “No, questo non è un semplice tasso: è un Tasso del Moregallo. Il destino ci ha fatto incontrare: il suo nome è Robert Paulsen!”

Davide “Birillo” Valsecchi

Eccovi alcune foto di “Bob”:

Le Mura del Funzi

Le Mura del Funzi

Quando ero molto piccolo i miei genitori, dopo l’asilo, mi portavano spesso al cinema teatro di Canzo dove, il pomeriggio, venivano proiettati i primi film della Walt Disney. Era un’epoca in cui le televisioni erano gusci di vivace plastica colorata su cui apparivano immagini in bianco e nero. Uno dei film proiettati era “La bella addormentata nel bosco”. La storia era assolutamente noiosa e petulante: le fatine qui, quo e qua, il fuso, la tipa che si addormenta, tutti che piangono eccetera, eccetera… Poi, finalmente, arrivava il principe sul cavallo, con tanto di spada e di scudo, e la noia esplodeva diventando una vera battaglia epica. “La tua tomba sarà una foresta di rovi, folta ed intricata che nessuno la scovi!” Urlava la strega malvagia avvolgendo di spine il castello prima di trasformarsi essa stessa in uno spaventoso Drago. Tre minuti e mezzo di pura azione, uno scontro tra i rovi e le rocce contro il possente drago che culmina in un crescendo: “Spada di verità, vola diritta, provoca del male la sconfitta!” E BANG! Giù il drago, applausi in sala e limonata finale con la belloccia addormentata! Ecco, a cinque anni questa era la mia visione perfetta del mondo! Probabilmente è per questo che ancora oggi mi aggiro trasognante inseguendo il drago nel nostro comune reame di rovi e rocce.

In queste settimane ho iniziato un nuovo lavoro e per questo sono chiuso in un ufficio nel centro di Lecco. Quando la sera emergo da quelle mura infilo i calzoncini corti e mi lancio sui sentieri dietro casa in cerca di avventura prima del tramonto. Senza meta mi sono infilato in un sentiero che, curiosamente, non aveva mai percorso imbattendomi in qualcosa di assolutamente inatteso: il Crotto di Funzi!!

La stalla, ricavata dalle cavità della roccia sotto un grande tetto, è stata recentemente sistemata dai Volontari da Valmadrera ed è certamente uno dei luoghi più caratteristici ed interessanti da visitare nella zona di San Tomaso. Qualcosa però non mi convinceva. Avevo giocato su una breve placca all’inizio del sentiero ed uno strano “vuoto” oltre le piante sembrava chiamare la mia attenzione. Aggrappato alle piante mi sono sporto oltre: “Accidenti, ma qui sotto c’è un’altra parete ed un’altro tetto!! Bio, tocca andare a vedere.” Così sono sceso nuovamente alla base del sentiero cercando una via d’accesso che mi portasse ai piedi di quella parete.

Mi sono caparbiamente infilato tra la roccia ed i rovi ma ho guadagnato a fatica davvero poca strada. Riuscivo a vedere la roccia oltre l’intricato groviglio di spine ed alberi abbattuti ma non c’era modo di riuscire a passare. Non riuscendo a proseguire ho cercato di uscire da quella trappola puntando dritto verso l’alto, sfruttando una spaccatura nella parete. Così mi sono ritrovato aggrappato all’edera ed alla roccia marcia guadagnando però il filo di cresta e l’accesso ad un delicato diedro di grossi massi incastrati. Superato il diedro potevo vedere la base della parete oltre i rovi ma avrei avuto bisogno di una corda per calarmi di sotto, oltre il tetto. Così ho ripiegato verso il crinale raggiungendo nuovamente il sentiero: “Sabato! Se Sabato mattina non piove torniamo a vedere!”Ed eccomi qui, Sabato mattina, con un paio di guanti di cuoio ed un coltellino a serramanico. Volevo provare a passare attraverso i rovi ma non volevo aprire la strada a chiunque, non sapevo cosa ci fosse laddietro e non volevo creare un facile accesso ad un potenziale mondo di guai. Testa bassa, pazienza e sano spargimento di sangue (il mio) ho arrancato tra i rovi e le rocce cercando di allargare l’evidente “corridoio tra gli spini” tracciato da un animale selvatico. Solo poi, alla base della parete, ho avuto la conferma dell’esistenza di una lussuosa tana di Tasso (poteva essere diversamente?). Dopo quasi mezz’ora di ravanata ho potuto finalmente raggiungere la base della parete, delle “Mura del Funzi”.

Nonostante la fitta vegetazione che ricopre ogni cosa i segni mostrano come un tempo i contadini o i pastori frequentassero quel luogo. La scatoletta di metallo può essere stata lanciata dall’alto ma qualcuno deve aver per forza segato i vecchi rami di una pianta ancora viva. A differenza del Crotto del Funzi, che è letteralmente sopra, non ci sono muretti o strutture per il ricovero degli animali.La parete ricorda quella della falesia di Santumas, che non è poi troppo distante, anche se la roccia è inevitabilmente meno pulita e certamente meno compatta. Ovviamente la roccia, dopo gli intensi acquazzoni della settimana trascorsa, era fradicia ma non è detto sia la consuetudine. Una grossa spaccatura rimonta un tetto piuttosto inquietante. Sembra possibile arrampicare, la qualità della roccia sembra buona ma ci sono molti grossi massi incastrati sotto il tetto la cui tenuta non sembra incoraggiante. Tutto il tetto, nonostante la muraglia che lo sovrasta, è una spessa fetta di roccia, uno strato calcareo obliquo, che si è staccato dalla parete. In quello spazio sono attecchite grosse piante e scorre la pioggia che filtra poi nella fessura sottostante. In pratica il tetto sta lentamente crollando, tuttavia se questo avvenga domani o tra mille anni non mi è dato saperlo.

Io sono prudenzialmente portato a spingere la roccia piuttosto che tirarla. Per questo ad interessarmi maggiormente è stato il secondo tetto, quello più a destra. Una rampa compatta, ma lavorata, porta alla base di un secco tetto obliquo. La roccia sembra decisamente più compatta e la possibile salita più lineare. Si tratta di rimontare la rampa, proteggere la base del tetto prima di sporgersi in fuori cercando di raggiungerne l’estremità. Qui capire come e se proteggere prima tentare il passaggio. Una bella pianticella sopra il tetto sembra incoraggiare promettendo una buona protezione prima di affrontare il restante muretto. Sebbene di dimensioni quasi da boulder è un passaggio atletico che richiede ingegno per essere risolto.

Visto che affrontare nuovamente i rovi non mi allettava ho affrontato di petto una porzione di parete non strapiombate. Mi sono alzato di tre o quattro metri in una spaccatura, IV° grado scarso + rovi, fino a raggiungere le radici di una grossa pianta su cui mi sono issato a forza guadagnando l’uscita.

Quindi, sebbene di modeste dimensioni, posso dire di aver aperto in libera due vie sule Mura del Funzi. Niente di speciale, certo, poco più che una verticale ravanta, sicuro, ma abbastanza per reclamare le Mura del Funzi come NoSpitZone!!

Bisogna ancora fare qualche valutazione sulla roccia, su quello che si muove e quello che rischia di crollare, ma tutto sommato è un bello spazio, anche abbastanza vicino da raggiungere. Credo possa valere la pena dare una pulita ai rovi, sistemare e prendersi cura delle piante buone (magari a settembre/ottobre). Purtroppo ogni volta che qualcuno apre una nuova falesia sembra sia esplosa una bomba: piante segate o spezzate, roccia rotta ovunque: questo non fa affatto parte della mia filosofia. Pulire significa prendersi cura, togliere i rovi perchè il bosco e le piante possano respirare, così come spostare i sassi instabili non significa demolire la parete. Un tempo i contadini si prendevano cura di quell’angolo di montagna, credo si potrebbe riprendere questa tradizione e vedere, magari senza troppe pretese, se quella piccola parete di roccia può regalare emozioni agli arrampicatori o ai boulderisti.

Se qualcuno vuole andare a curiosare e tentare i tetti può farlo liberamente, non sono né geloso né possessivo, ma deve tenere a mente tre cose: a) Non fatevi male b) Non fate cadere sassi sulla mulattiera sottostante c) siete sull’Isola quindi rispettate le regole della casa: niente trapano, niente demolizioni, niente deforestazione (…e niente magnesite che è roba da fighetti). Le piante, in questo piccolo gioco, sono le migliori alleate: quindi rispettatele!

Davide “Birillo” Valsecchi

Note a margine:
il Vecchiaccio mi scrive via What’sUp: “Cosa fai di bello?”. Visto che da mesi siamo “litigati” gli rispondo sdegnoso solo con un immagine del tetto delle Mura del Funzi che più mi piace. “Ma c’è una baita li vicino?”. Sospiro e gli mando una foto del Crotto di Funzi. “Sì, ho fatto il tetto sulla sinistra anni fa, tornando dal pilastro a sinistra del Ratt”.  Ed anche questa volta Sguero ci ha messo lo zampino… Comunque sia questo vuol dire che le Mura del Funzi sono arrampicabili, che il primo tetto è fattibile (tenendo presente il soggetto che l’ha risalito) e che il secondo è ancora vergine. Quindi posso serenamente affermare che le Mura del Funzi sono decisamente NoSpitZone 😉 

Bru Na: Il Ritorno

Bru Na: Il Ritorno

Sabato io e Bruna siamo andati ad un matrimonio: lei con i tacchi alti, io con i calzoni corti. Arrivati in municipio ci siamo accorti che l’ingresso era sull’altro lato del palazzo e che si accedeva alla sala della cerimonia solo attraverso un piccolo ponticello sospeso: noi, ovviamente, eravamo alla base del muro di cinque o sei metri sopra cui correva il ponte. “Che si fa? Facciamo il giro?” “Nope, siamo in ritardo. Te la senti se prendiamo la dritta!”. Mi sono sfilato le scarpe da trekking e le ho allungate a Bruna. Lei mi ha guardato un istante ed ha sfilato i tacchi infilando le mie scarpe: poi abbiamo iniziato ad arrampicare su per il muro. “Non le volevo le tue scarpe! Volevo anche io arrampicare a piedi nudi!”

La concitazione e la complicità del momento hanno lasciato in secondo piano l’incidente al piede e gli acciacchi che ancora fastidiano il dito di Bruna. “Come è andata?” “Bene, mi è venuto spontaneo arrampicare! Mi sono anche divertita!”. Così, mentre Luigi ed Erika si scambiavano le promesse matrimoniali, io ordivo il mio piano per rimettere in pista Bruna l’indomani: “Ti va se domani facciamo un giretto dietro casa?”

Se fosse stato meno caldo avrei puntato alla Crestina Osa, ma non potevo azzardare di ritrovarmi in pareti con il dito dolorante, le scarpette strette ed un afa asfissiante. Quindi ho optato per un lungo giro che da Valmadrera saliva fino al Cornizzolo passando da San Tomaso e San Pietro. Purtroppo giunto all’imbocco del sentiero del “Luisin” ho trovato la strada sbarrata dalla gara di tiro al volo per il 50° dei Cacciatori di Valmadrera. “Mi spiace, ma non si può passare. Il sentiero è sulla linea di tiro”.

“Il momento presente è adesso: significa prepararsi costantemente all’imprevisto.” Ai piedi delle bastionate minori del Corno Birone non mi restava che tornare sui miei passi o inventarmi un’alternativa intrigante. “Saliamo su per il fiume?” Tornati ai grandi massi segati del Taja-Sass ci siamo infilati tra le rocce e l’acqua cristallina. “Mettiamo le scarpe nel mio zaino, a piedi nudi si rischia meno di cadere”. Così, immersi nell’acqua gelida ma corroborante, abbiamo iniziato ad arrampicare sul granito e serpentino in una specie di “Sentiero delle Vasche – Extended Version”.Bruna si diverte, le piace arrampicare scalza, senza corda. Si muove e segue i miei spostamenti tra i sassi e l’acqua: gesti fluidi, atletici ma tutt’altro che banali. Il caldo ed il male al dito sembrano solo un piacevole ricordo lontano. Il fiume è un misterioso incrocio tra una giungla ed un crinale di alta montagna. Bruna si diverte, finalmente può muoversi come più le piace, e forse anche io ne avevo bisogno, avevo bisogno di mettere fine a questo capitolo, all’incidente. Forse avevo bisogno di averla di nuovo vicino nelle mie scorribande. Una placca ad incastro ci riporta ai tempi di “Cuori infrangibili”, mentre a sbalzo le indico prese ed appoggi: “Vieni su ma non cadere!”

Il sole dell’Estate che avanza irrompe nei colori nascosti dell’Isola Senza Nome. Forse sono solo uno sciocco, un bambino che fantastica mentre gioca nel giardino di casa, ma ci sono angoli, luoghi sconosciuti ai più, la cui misteriosa bellezza non smette di attrarmi e conquistarmi. “Ma sai dove siamo?” “Non sono mai stato qui, ma so dove siamo”. Nella mia mente, come un puzzle, prende vita la mappa di ciò che mi circonda. Salgo in cima ad un sasso più alto ed indico un punto nel bosco, oltre il fiume, nel fitto della vegetazione. “Credo che il sentiero passi laggiù”. Bruna fa un’espressione scettica. “Naa, non ci credo. Stai inventando!”. Proprio in quel mentre un corridore, indossando vestiti fosforescenti e con passo pesante, passa di corsa sul sentiero oltre la vegetazione in lontananza. Sogghigno con aria compiaciuta “Mmm sei ancora convinta sia in errore?” Bruna sbuffa indispettita: “Bhe, se non era per il senso dell’orientamento non ti venivo dietro in questi posti!”.

Il fiume è ormai un rigagnolo stretto tra le piante. Così lo abbandoniamo prendendo di petto i grandi e ripidi prati che salgono alla cresta del Bevesco. Raggiunto il crinale ci si inoltra in uno dei luoghi più ampi meno frequentati del corno Birone, una ripida ed erbosa valle ad imbuto che si tuffa verso il basso slanciando oltre le vertiginosi muraglie. Ci si può addentrare solo in discesa, avendo costantemente davanti agli occhi il grande vuoto sulla città di Valmadrera. E’ un posto che scuote ed inquieta.”Non voglio scendere. Questo posto mi da strane sensazioni.” La prima volta che mi sono avventurato in questa valle da solo ero quasi terrorizzato, ad ogni passo temevo di scivolare sull’erba precipitando nell’abisso: sempre in discesa, sempre senza vedere bene dove stai andando mentre le prospettive ti disorientano. Non è per certo un posto facile. (Ma questa placca, battezzata “Placca delle Industrie”, merita una visista accurata)

“Okay, allora andiamo in sù e poi facciamo il giro attorno ai campi solcati”. Continuiamo nell’erba alta fino a raggiungere il sentiero che porta alla “Cascina Rotta” e da lì quadagnamo la colettetta del Pra Santo. Per cambiare un po’ scendiamo verso la val Ravella, spingendoci verso l’Alpetto Alto. Poco più sotto prendiamo sentiero che, con un lungo traverso, ci porta fino al Fo, il grande faggio oltre il Colmo della Ravella. Da qui, seguendo il Sentiero Carlo scendiamo di nuovo verso la Val Molinata, l’Acqua del Tufo e San Tomaso. Dopo una birra ed un ghiacciolo al ristoro dell’Osa abbiamo fatto rotta verso casa.

Dodici chilometri, mille metri di dislivello per un’escursione fatta di bouldering, canyoning ed esplorazione: non male per un “giardino di casa”.

Davide “Birillo” ValsecchiTracciato
[map id=”itinerario” w=”640″ h=”530″ maptype=”SATELLITE” kml=”https://www.cima-asso.it/kml/isn003.kml” ] 

La Bigiata

La Bigiata

“A vent’anni hai fatto le vacanze in autostop, un anno di studio all’estero, hai cambiato più ragazze che scarpe. Ora ne hai quaranta: comprati una poltrona!” La pubblicità alla radio mi lascia spiazzato. Una volta cercavano di intortati con le tette della Ferilli, ora invece ci vanno diretti: “Hai quarant’anni? Rassegnati, mettiti comodo…” Fanculo al Sofà …e a chi se lo fà!! Il suono del citofono arriva come la campanella sul ring: “Fuori i secondi!!!”

In strada mi aspetta Josef: un anno fa aprivamo vie dietro casa, eravamo in gran forma. Ora sembriamo due profughi sfuggiti a stento dalla centrifuga della lavatrice. Le mie ginocchia sono a pezzi, sbuffo e mi trascino. “Ahhh… Povero me!” Così, quasi per consolarci della nostra cattiva forma, ci siamo presi la giornata per andare semplicemente a zonzo.

Da GianVacca a Sambrosera passando dalle rocce degli elfi e dal granito delle “Colonne”. Poi su, sul crinale che dall’uscita della Ferrata porta alla cima del Corno Orientale, poi giù alle moregge e su in cresta fino alla cima del Moregallo. Girovaghiamo agganciando ogni masso che ci capita sotto mano, uno strano incrocio tra trekking e bouldering. Andiamo a zonzo senza meta: “Sembriamo due ragazzini che hanno bigiato scuola per arrampicare dietro casa”. Beh, l’idea era esattamente quella!

Sulla cima del Moregallo ci siamo seduti a sbalzo nel vuoto per osservare le linee sullo scoglio dei Tassi e sull’antecima, i diedri e le fessure, i segni del fuoco e della pioggia sugli zoccoli d’accesso. “Il fuoco ha distrutto ogni cosa, ma l’erba e le piante stanno ricrescendo verdi coma mai prima. La natura è un susseguirsi di drammi e trionfi.”.

Quasi senza volerlo scivolano nella mia testa le parole del Maestro Vedovati. Roberto, era allievo del Maestro Fassi e del Maestro Shirai, 7° Dan o giù di lì… Io, Dario, Iceman, avevamo l’aspetto di tipacci da strada, orgogliosi e poco raccomandabili, Roberto invece aveva il classico aspetto del vecchietto gentile, assolutamente inoffensivo …almeno finchè non avevi imparato a riconoscere la temibile “scintilla” che albergava in quegli occhi quieti.

Una volta mi disse: “Invecchiando ogni anno il mio corpo cambia, ogni anno devo insegnargli nuovamente karate, ogni anno devo ricominciare con pazienza dalle basi ed imparare nuovamente ogni cosa. ” – Poi aveva sorriso felice – “Fortunatamente ogni anno ci sono nuove cinture bianche, fortunatamente ogni anno posso ricominciare insieme con loro”.

Roberto non è più con noi, quindi tocca mettersi nuovamente in forma: alzarsi di nuovo in piedi con l’orgoglio di un guerriero ed l’umiltà di un saggio. Sdraiato sull’erba del Moregallo, guradando il cielo, ero di nuovo consapevole: “Bigiare fa un gran bene!”

Per chiudere la giornata abbiamo radunato la banda per ingollare birra all’Amarillo Brillo: TeoBrex, Bruna, Gaetano ed Astrid, Mav, Andrea e Daniela. “Well, I was born To have adventure, So I just followed up the steps Right past her fuming incense stencher To where she hung her castanets…” (Camarillo Brillo – Frank Zappa)

Davide “Birillo” Valsecchi
Nostromo dei Tassi del Moregallo

Inseguendo le Capre

Inseguendo le Capre

Ieri ero a Bolzano, alla fiera ProWinter 2017, invitato da Giovanni e dal negozio Sherpa di Ronco Briantino. La mia avventura con i chiodi, il progetto RockHound, mi sta conducendo attraverso mondi a me sconosciuti e spesso decisamente affascinanti… anche senza menzionare le prosperose cameriere bolzanine che nei loro stretti abiti tradizionali mi hanno servito birra a boccali!

Così questa mattina, per sgranchirmi un po’, ho deciso di fare una salita veloce al Corno Rat. Le ferrate sono pericolose tanto nell’ideologia quanto nella pratica. Pensare di “arrampicare” su una ferrata è un’ idea sciocca e pericolosa: ci si trova ad affrontare passaggi difficili, movimenti sbagliati, roccia unta e non ultimo un’illusoria protezione che, con il fattore 6 di caduta, vi garantisce unicamente di non arrivare a terra (ma probabilmente di sbattere ovunque e scassarvi completamente!).

A volte lo trovo divertente, un buon esercizio, una piacevole ginnastica, altre volte invece la vivo come la cosa più insopportabile, deprimente e svilente che possa aver deciso di impormi. Oggi, purtroppo era il secondo caso. Dopo il primo tratto ero già assolutamente annoiato e fastidiato da quel tipo di arrampicata, insicura ed inappagante.

Sono stato tentato di infilarmi nell’Anfiteatro, tuttavia l’ultima volta a metà del canale d’accesso erano venuti a basso un paio di grossi “frigoriferi“ e non volevo che la mia noia potesse rovinare la giornata (o peggio) a qualche innocente turista in gita al Corno. Così ho preferito curiosare alla base dello sperone roccioso che fronteggia il Corno Rat. Mesi fa, credo prima dell’inverno, avevo tagliato dalla cresta raggiungendolo a mezza altezza per poi risalirne la parte alta. Roccia buona avvolta nella vegetazione custodiscono una vecchia via d’arrampicata ormai quasi perduta.

Tra le piante una marcata traccia di capre sembrava invitarmi: indossando ancora il casco, l’imbrago ed il set da ferrata ho cominciato a curiosare lontano dalle catene. In un canale di roccia buona (coperta da rovi) credo di aver trovato l’attacco della via originale allo sperone. Osservando le solide piante su cui fare sosta fantasticavo l’idea di tornare armato di rastrello e cesoie per tentare la ripetizione in solitaria. Anzi, tutta quella zona poteva essere interessante e mi ricordava i giorni felici di “cuori Infrangibili”: chissà, forse tenendosi lontani dalla roccia marcia e dai crolli si poteva trovare qualche bella linea di roccia e piante al sole.

Qualche indigeno doveva aver avuto la mia stessa intuizione perchè, poco più avanti, ho trovato un cordino in una clessidra alla base di un diedro: “Chissà chissà a chi appartiene questo cordino qua?!” In realtà credo di sapere la risposta…

Il sentiero della capre però non si arrende neppure davanti ad una poco rassicurante placca sul vuoto. Già, perchè addentrandomi nel bosco ero finito sul crinale del grande salto roccioso che prende il nome di “Giardini Pensili”: Roberto e Gianni Mandelli (due alla cui capacità nemmeno mi ci avvicino!), dal basso hanno aperto diverse vie di arrampicata in quella zona. Linee naturali prive di spit che superano passaggi aerei di VI+. Il sentiero delle indomite capre sembrava lanciarsi in parete, incurante della vertigine o del vuoto sottostante.

“Birillo, no! Birillo, non andare oltre!”. Seguire alla cieca un sentiero di capre in parete è per certo una delle cose più stupide e pericolose che possiate decidere fare. Il fatto che io continui a farlo con preoccupante costanza dovrebbe farvi comprendere come io sia un pessimo alpinista ed un pessimo arrampicatore. Come più in generale io sia una brutta persona ed un esempio negativo per tutta la comunità della montagna. Bambini: don’t try this at home!

Le capre, in modo assolutamente stupefacente, hanno tracciato un tortuosa linea che, quasi con genialità alpinistica, discende e risale la parte alta dei Giardini Pensili. Confesso che, addentrandomi nella parete, ero decisamente combattuto ed intimorito: “Birillo, indossi l’imbrago ed il set da ferrata. Quando e se ritroveranno il tuo cadavere, prima di riconoscerti, penseranno ad uno milanese tanto stupido da riuscire a perdersi la ferrata!”. La linea della capre è però assolutamente geniale e spalanca l’accesso a gioielli di roccia assolutamente inaspettati!

Il sentiero è però un sentiero da capre: ci sono passaggi da brivido sul vuoto, terra smossa ovunque e movimenti su roccia tutt’altro che banali. La prima parte è in discesa tra rocce instabili e l’ultima affronta una rampa su placca che sembra ricorda il Canalone Porta in Grignetta (però sotto c’è il vuoto!). Confidavo che le capre avessero trovato una via d’uscita e che non si fossero lanciate di sotto come dei lemmings …tuttavia non avevo nessuna certezza e, senza corda, non mi sentivo troppo a mio agio “spalmato” là in alto. Quando finalmente sono riuscito a vedere l’uscita sui prati oltre la cresta mi sono rassicurato un po’: “Dannazione! Quante ne sanno le capre! Guarda che via di III° grado hanno pennellato in questi luoghi impossibili!”. Impressionate: il Piolet D’Oro quest’anno lo vincono le capre di San Tommaso!

Ero galvanizzato dalla scoperta di quella linea: finalmente posso curiosare nei giardini pensili con la certezza di avere una possibile “via di fuga” a mezza altezza! Stregato dalla creatività delle capre ho continuato a seguirne la linea ritrovandomi in luoghi di cui non avevo mai sospettato neppure l’esistenza. Ho trovato una grotta “abitabile”, una falesia nascosta nel bosco ed una cascata arrampicabile. Le capre sanno, non ci sono chiacchiere! “Perché la capra è il migliore animale che c’è, dopo la donna…”

Davide “Birillo” Valsecchi

Il dono del tempo

Il dono del tempo

La versatilità è la capacità di applicarsi a diversi campi d’interesse: credo che, insieme alla capacità di adattamento e ad una buona dose di caparbietà, sia la dote principale con cui ho raggiunto la maggior parte degli obiettivi che mi sono prefisso. Non sono bravo, non sono il migliore, ma me la cavo (male) un po’ in tutto. Forse è proprio per questo che mi sento bene in montagna, dove versatilità, adattamento e caparbietà sono requisiti fondamentali. L’arrampicata, nel panorama più ampio dell’alpinismo, è una forma di specializzazione, un ambito ben preciso. Non necessariamente un buon alpinista deve essere un buon arrampicatore e di contro essere un buon arrampicatore non rende alpinista. Grazie alla mia versatilità ho avuto il piacere di unirmi in cordata a grandi arrampicatori e, spremendo a fondo le mie risorse, il privilegio di vederli in azione.

La versatilità, così come la dedizione e l’abnegazione, ha però i suoi limiti: per spingersi oltre si deve sconfinare nel talento. In nessun ambito o attività ho visto brillare il talento in modo tanto evidente quanto nell’arrampicata. Lo vedi subito quando qualcuno ce l’ha ed è palese come sia innato. Chissà, forse è la mia versatilità il talento che mi permette di riconoscere il talento altrui. Di certo è la versatilità che mi aiuta ad apprezzare ed ammirare in modo spontaneo le manifestazioni di talenti e di capacità che probabilmente non padroneggerò mai.

Questa riflessione mi è nata spontanea leggendo un articolo di Gianni Mandelli sull’annuario Vertice 2016. Gianni descrive la sua più recente salita della Via Osa sulla parete Nord del Moregallo. Quella parete è una delle più severe tra le severe pareti dell’Isola senza Nome, un luogo capace di incutere timore e rispetto anche negli arrampicatori più forti. Su quella parete ci ho messo il naso solo una volta, accompagnato da Gianni, ed ho preso una sonora batosta!

Ho ammirato, anche con una punta di invidia, la salita di “Tode”, un giovane lecchese degli AsenPark, un talento mosso da una grande intelligenza e da una straordinaria condizione fisica. Tode, chiacchierando, mi aveva raccontato di come quella salita, in quell’ambiente, fosse stata soprattutto un impegnativo sforzo mentale. Allo stesso modo ho ammirato la salita in solitaria del giovane “Scienza”, anche lui talentuoso, giovane e ben preparato.

La gioventù è però un “potere” che ci viene concesso una volta nella vita, una capacità a cui aggrapparsi per superare e vincere imprese spesso titaniche. Gioventù e talento sono un mix dirompente, ma è impressionante come, tolta la gioventù, il talento autentico riesca ancora a brillare, spesso in modo inarrivabile per chi non lo possiede.

Eccovi uno scorcio nel talento:

Agosto 2016 – Il 23 Agosto ho avuto la fortuna di ripercorrere (per la terza volta) la via OSA sulla parete Nord del Moregallo. Questa volta però avevo come compagno Giorgio Tessari, uno degli apritori di questa via, colui che con Castino Canali, Pietro Paredi e Antonio Rusconi, aveva chiodato quei famigerati diedri strapiombanti, nel 1965.

Da qualche tempo Giorgio covava il desiderio di tornare su quella parete, e quando mi ha rivolto la sua richiesta sono stato ben felice di accontentarlo. Anche il fratello Franco scalpitava e non vedeva l’ora di ritornare su quella parete, dopo otto anni di sofferenze per un ginocchio aggiustato male. La cordata così assortita non era proprio di primo pelo avendo Giorgio settantaquattro anni, Franco sessantotto, ed io sessantadue, così abbiamo pensato di coinvolgere un giovane (si fa per dire) come Mauro Farina che di anni ne fa solo sessanta.

Vista così potrebbe sembrare una tranquilla scampagnata di quattro pensionati, ma chi conosce la OSA sa che non è così. Scalare su una parete strapiombante dall’inizio alla fine logora anche alpinisti ben più giovani, e ritrovarsi spesso con chiodi vecchi, che in alcuni casi tentano di uscire dalla sede dove sono stati piantati, fa sicuramente aumentare la dose di apprensione a chi sta appeso.

Dopo cinque ore e mezzo abbiamo raggiunto la grande cengia sulla quale terminano le difficoltà, e ci siamo calati sui comodi ancoraggi delle nuove vie come “Rondini sul filo” e “Tempo rubato”, senza affrontare l’intrigante sezione finale composta da rocce e prati verticali.

Giorgio era raggiante e noi con lui, perchè ripetere a 74 anni compiuti una via del genere è sicuramente un avvenimento importante, ma come tutte le prestazioni fatte su queste montagne (che forse sono destinate a vedere la luce solo sul nostro annuario), probabilmente passerà inosservata. – Gianni Mandelli – Vertice 2017


“Il talento è dote. Se ne è naturalmente provvisti, e se non c’è non si può imparare – inclinazione troppo più profonda di una capacità, troppo più radicata di una passione, troppo più caratterizzante di un volto o di una maniera, per poter essere riprodotta o finta. È un taglio del sé.”

L’Isola senza nome è un luogo strano, misterioso, basta girare l’angolo per ritrovarsi un mondo indipendente, capace di inghiottirti, di ingoiarti e catturarti. Per riemergere dagli abissi dell’Isola si è costretti a scoprire i lati più profondi di noi stessi, a confrontarsi con le nostre paure, ad esprimere la nostra forza. L’Isola ha conservato intatta la propria capacità simbolica: è ancora una montagna capace di trasformare chi vi sale. Non elargisce premi o riconoscimenti, i suoi doni sono il risveglio di talenti che ci accompagneranno per tutta la vita.

Bisogna essere pronti a rischiare, a cambiare, ad ammettere i propri limiti, a trasformarsi: questa è la fortuna dell’Isola, la magia per cui in molti la temono preferendo ignorarla. Al contrario, chi con coraggio vi si immerge, riscopre se stesso e raccoglie nuove e straordinarie amicizie. Questa è la natura dell’Isola senza Nome, il legame che ci unisce.

Davide “Birillo” Valsecchi

La Montagna Nascosta

La Montagna Nascosta

DSCF1508Il mio primo incontro con Gian Maria Mandelli rischiò di trasformarsi in uno scontro: per un incomprensione, frutto soprattutto della mia inesperienza, lo apostrofai malamente “eroica cariatide”. Se un simile imperdonabile errore lo avessi fatto con altri di Valmadrera di certo non me la sarei cavata così a buon mercato!! Fortunatamente Gianni comprese che, per quanto fossi un casinista disorganizzato del versante nord, ero animato da buone intenzioni e da allora è nata una grande amicizia. (Ancora mi scuso per la mia tracotanza ribelle).

Gianni è un Alpinista di grandissima esperienza, membro del gruppo Accademico e Direttore del Corso per Istruttori Nazionali CAI nel ‘98. Gianni è soprattutto uno dei principali esploratori contemporanei dei Corni di Canzo ed è il loro custode. Tra le numerose vie che ha aperto, tutte in stile tradizionale, vi è anche la famosissima Crestina Osa al Moregallo, tappa nota e quasi obligatoria di chi inizi ad arrampicare nella nostra zona. Senza Gianni e la passione che ha saputo trasmettermi attraverso i suoi libri (“L’isola senza Nome” soprattutto) non avrei forse mai intrappreso questa lunga ed affascinante avventura sulle nostre montagne di casa: non posso che essergliene grato!

Un mesetto fa avevo incontrato Gianni ai Corni insieme a Josef, tuttavia io e lui non avevamo mai fatto un uscita o una salita insieme. Domenica, finalmente, si è presentata l’occasione. “…vale la pena addentrarsi nei canali del Monte Rai: una zona dove in pochi vanno, o hanno il coraggio di andare. Io la conosco da quando avevo vent’anni e da allora sono poche le persone che sono passate tra quelle creste e quei canali. Se ti va domenica possiamo andarci a fare un giro: ti assicuro che non ti annoierai.” Questo è stato il suo invito: non potevo rifiutare!

Il monte Rai è davvero una montagna particolare: il Corno Birone, con la sua imponente sagoma a pala rovesciata, è solo la struttura rocciosa più evidente ma, addentrandosi nella val Molinata, si scroprono canali, creste e muraglie assolutamente selvagge …ed avventurose!

DSCF1322

Partendo dal Santuario di San Martino risaliamo per il sentiero delle vasche. Io, come uno scolaretto, sgambetto tra i sassi seguendolo passo passo. Poi, lasciando il fiume, iniziamo a risalire per un canale che via via si fa sempre più stretto, più ripido e più complesso.

La zona è costantemente in ombra ed umida. La roccia, qua e là coperta ghiaccio, è a volte liscia e compatta, a volte quasi si sgretola al tatto. Con gli scarponi da trekking arrampichiamo sciolti: nonostante i mei 80kg di peso essere leggero sulla roccia fragile è un mio vanto, tuttavia dovevo darmi da fare per stare dietro a Gianni che, con assoluta semplicità e disinvoltura, rimonta passaggi tutt’altro che banali senza mai distrarsi dai suoi racconti o dalle sue spiegazioni.

Il canale è selvaggio, avventuroso e coinvolgente. Mi guardo intorno cercando le prese giuste mentre dubito della punta dei miei scarponi sulla roccia bagnata: ribaltare tra i sassi è davvero sconsigliabile!!

Il canale, infine, sembra morire all’interno di una grotta: “…la ciliegina sulla torta” ride Gianni. Già, per uscire dal canale il passo si fa infatti acrobatico: si deve infatti entrare nella grotta, alzarsi verso la volta in una mezza dulfer prima di aprirsi in spaccata ed infilarsi in un buco che, come una botola verso il solaio, ci permette di riemergere sui prati sommitali. In dulfer, appeso alla volta, ho guardato verso il basso: “Se piombo da qui faccio tre metri di volo secco, poi rotolo giù a Valmadrera fino alla porta di casa!!”. Il panorama, però, era davvero mozzafiato!

Dal parcheggio alla cima ci siamo fatti 1000 metri ininterrotti di canale, tutto a due passi dietro casa. Senza Gianni, senza il suo esempio e la sua guida, probabilmente non avrei mai compreso quanto siamo fortunati noi dell’Isola Senza Nome!! Grazie!

Davide “Birillo” Valsecchi

DSCF1512

Theme: Overlay by Kaira