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La Temibile

La Temibile

[Giuseppe.D.] Partiamo da lontano: nel 2009 ho fatto la mia prima escursione, ai Pizzetti, non avendo mai sentito parlare prima di “escursioni”. Fino ad allora, io avrei detto “andare in montagna”, che per me in pratica significava prendere la bici e farsi un giro di un centinaio di km: Penice, valle Imagna, Campo dei fiori, Sestriere, a seconda di dove abitavo..

Da bambino avevo fatto qualche passeggiata sul Vesuvio, e questa era l’idea più vicina al trekking che mi ero fatto: “vai un po’ dove te pare…”. Quando poi mi sono trovato su un sentiero con bolli e cartelli, mi è sembrata una cosa strana. Un po’ alla volta ho cercato di re-interpretare tutti questi segni e di intenderli solo come dei consigli, ma anche così, mancava qualcosa di fondamentale, che Messner chiamerebbe “la libertà di andare dove voglio”.

Come diceva un tale:«Ci sono dei luoghi, credo ce ne siano diversi, che non appartengono proprio del tutto alla geografia fisica; sono dentro la carta geografica ma la topografia dice molto poco di loro. Sono i luoghi dell’ “altrove”, e i chilometri non rendono giustizia della loro distanza: sono molto più lontani della strada che bisogna fare per arrivarci. Appartengono appunto ad un altrove, e quando ci arrivi percepisci tattilmente la loro singolarità: devi adattare il tuo sguardo, la tua mente, le tue attese non semplicemente ad un paesaggio inatteso, ma a un’inattesa realtà. Ci arrivi per caso, o ci arrivi perchè quel luogo ti chiama, assai raramente perchè lo trovi su una guida turistica.» O un altro tale un po’ più conciso: «C’è ancora terreno d’avventura..». E potremmo citarne tanti altri… Perché altrimenti dovrebbe venirci in mente di andare in questi posti?

Ho visto “la temibile” pochi mesi dopo i Pizzetti, cercando una spiaggia dove nuotare lungo il lago: un posto spettacolare. Ma chi se ne intendeva mi aveva detto: “mica si può salire da lì!..”.

Poi è venuto il 50° OSA, poi il lungo periodo della valle Moregge …e poi, una cartina Kompass su cui trovo la traccia che cercavo. A ottobre 2013 ci proviamo un paio di volte, l’ultima anche da solo: le tracce degli animali in realtà sono tante, e fanno tutte paura: si arriva intorno ai 700m ma poi non si capisce dove andare. Si potrebbe salire a caso, ma senza segni “umani” e senza nessuna sicurezza di uscirne in alto, mi sembra troppo difficile…

Passa un altro anno, prima di conoscere “ItinerAlp”, un marziano che fa tranquillamente Manduino e pizzo di Prata in un fine settimana, ed organizziamo un altro tentativo: per lui è solo una variante di un giro già fatto, e con il suo aiuto salgo “facilmente”. Il Moregallo però per me rimane misterioso: ci ho capito ben poco, e tutto quello che ho visto sul lato Est rimane ancora frammentario. Faccio altre esplorazioni dall’alto, arrivo da Preguda alla casetta di “Argo”, da “Argo” scendo alla scalinata della temibile, da “Passo400” a “Preguda”, da “Argo” in traverso verso Nord… ma ogni volta la domanda è “dove diavolo sono??!”

Poi passa il tempo e un po’ alla volta non me la sento più di rifare tutto il giro partendo dal lago; fin quando Davide non arriva lì con il suo omonimo: allora decidiamo di sentirci per la prossima volta… 4 anni e 4 giorni dopo il primo tentativo!

Giuseppe.D.

Moregallo: Via Buontempo

Moregallo: Via Buontempo

“The climb is going where no man has gone before” Questa frase, pronunciata dal leggendario Capitano Kirk interpretato dallo storico William Shatner, mi ronzava nella testa sotto forma di un buffo video musicale. “Andare là dove nessun uomo è mai stato prima”: questo era il motto di StarTrek, una scheggia d’infanzia davanti alla televisione aspettando l’ora di cena. Forse anche per questo il Moregallo, con i suoi grandi spazi ancora sconosciuti, è per me la grande frontiera, il confine oltre cui spingersi.

Da anni, con una birra in mano al Rapanui, sognavo ad occhi aperti osservando la grande parete Nord e il suo “zoccolo” verde: una muraglia verticale di roccia infida ed erba, un dedalo, un rebus da risolvere. Solo la via “Gioventù 77” si era avvicinata zoccolo rimontando però sullo spigolo della parete Nord. Io invece volevo arrivare lassù, sopra lo zoccolo dove si innalza la seconda grande parete Nord, dove la montagna sembra prendere respiro arrestando il proprio impeto in un piccolo pianoro verde.

Quella roccia fragile, spazzata dall’acqua ed immersa nella vegetazione, aveva tenuto lontano tutti, anche i “grandi” che hanno conquistato la Nord. Serviva scaltrezza e metodo per fare ciò che nessuno ha mai (ragionevolmente) fatto. Per questo la mia mente vagava in quel mondo verticale che ho catturato in mille foto, in mille diverse inquadrature.

Il grande zoccolo è attraversato da due evidenti canali che lo attraversano in obliquo raccogliendo l’acqua che precipita dall’alto. Il primo, quello più basso, scende quasi tutta la lunghezza dello zoccolo. Il secondo, il più alto, lo attraversa più di taglio, quasi nascosto osservandolo dalla base, e precipita verticale in un salto ciclopico quando tocca i margini della grande parete Nord. Bal basso quel canale sembrava irraggiungibile, protetto da un’invincibile cascata strapiombante al cui centro una nera cavità osserva minacciosa, il grande occhio.

Ma io sono un pessimo arrampicatore e questo ha reso la mia mente allenata alle soluzioni alternative. Spingendomi alla base del grande canale avevo scoperto il “Trucco” con cui tentare di ingannare il gigante. Alla base della cascata una rampa erbosa si innalza su uno sperone di roccia, qui una spaccatura, una piccola e bassa grotta taglia la parete raggiungendo la rampa erbosa che obliqua risale fino alla sommità della cascata. Una mossa a cavatappi dal sapore speleo per raggiungere il grande canale. Ero già stato in quel punto, avevo tentato il passo verso la rampa in solitaria ma mi ero arreso davanti all’evidenza. Quello è un viaggio senza ritorno, superata la grotta si può solo uscire seicento metri più in alto, quando finisce la montagna: niente che potessi affrontare da solo.

I sogni sembravano coprirsi di polvere finché Mattia non se ne esce con una cosa delle sue  “Facciamo la via dei Panda?”, un’altra storica ed irripetuta via del Moregallo oltre “il grande buio” nel cuore della Nord. “Naaa… se dobbiamo metterci nei guai scegliamo noi la nostra strada, andiamo dove nessuno è mai stato prima!”.

Durante la notte un violento temporale aveva investito il lago e le sue montagne. Fulmini, vento, ed acqua a secchiate: la mattina, seduto su un muretto aspettando Mattia, osservavo sconsolato le grande pozzanghere sull’asfalto. “Oggi non è giornata”. Mattia, binocolo alla mano, invece se la ride:  “Ma no, vedrai che asciuga”. Sappiamo entrambi che non è vero, ma ora non c’è modo di arrestare ciò che ho messo in moto.

Due corde da 60, vasto assortimento di friend, fettucce e cordini in abbondanza, quindici chiodi, compresi i chiodoni ad u ormai fuori produzione. Completano l’equipaggiamento due fittoni da 40 cm realizzati con i pioli di una scala in alluminio e due picozze da ghiaccio, qualora l’arma bianca si riveli l’ultima possibilità nel corpo a corpo contro i prati verticali.    

“Fai le cose difficili quando sono facili, e inizia le grandi cose quando sono piccole. Un viaggio di mille miglia deve iniziare con un singolo passo. (Lao Tzu)” Risaliamo la piccola rampa erbosa e, legati, ci sdraiamo strisciando nella stretta grotta raggiungendo la base della rampa erbosa. Il viaggio ha inizio. Due tiri da 30 e siamo in cima al canale e, con un passo piuttosto ardito, ci infiliamo al suo interno dove una grossa clessidra sembra accoglierci come solida sosta.

Ma il canale non è pronto a concedersi: grandi cascate sbarrano la strada costringendoci ad aggirarle sui lati quando affrontarle frontalmente non è possibile. Il nostro viaggio è scandito dal suono del martello sui chiodi, chiodi buoni su cui però non cadere, chiodi che quando non escono a mano cedono con qualche martellata. Indietro non si torna, l’unica possibilità è verso l’alto, attraverso l’erba, le cascate, le placche compatte e bagnate, la roccia marcia. Indietro non si torna.

L’esplorazione diventa un viaggio totale, un’immersione completa. Mi sforzo di scattare qualche foto, di documentare, ma fatico a contare i tiri, tutto quello che importa è salire, superare il tiro, scoprire quello successivo, lavorare bene, lavorare in fretta, non sbagliare. Mattia, come un trattore guida la nostra cordata, mentre io, immobile nelle silenziose angosce del secondo, manovro le corde studiando la situazione.

Verso mezzo giorno ci sediamo a mangiare un po’ di frutta secca. Sono ormai tre ore che affrontiamo il canale ma ancora non cede, prima o poi dovrebbe abbattersi, perdere inclinazione, ma i tiri si fanno sempre più impegnativi ed intensi. Ogni mia previsione è sovvertita e distorta: il Moregallo è la montagna dei grandi inganni, dove le prospettive vengono puntualmente imbrogliate. Con un avversario tanto temibile nessuno stratega può spuntarla senza uno slancio di coraggio. Come disse qualcuno “Il Moregallo non ti regala niente”.

Ripartiamo, un tiro alla volta, mentre la nostra determinazione assume le sfumature della rassegnazione sfiorando l’autoironia. Su un traverso, dove la roccia è il trionfo dell’inconsistenza,  Mattia si diverte a sfottermi: “Devi fonderti con il marcio! ..stai li che ti faccio una foto!”. Ho i piedi su dei detriti e le mie prese ballano verso l’alto, se piombo faccio cinque metri di pendolo nel canale, eppure riesce a rubarmi un sorriso anche nel momento di massima concentrazione.

Il tiro successivo è un’altra rogna, poi qualcosa cambia. Il canale sembra abbattersi e la corda scorre veloce per sessanta metri prima di chiamare la sosta. Forse si esce, forse il canale è finito! Ma quando arrivo alla sosta, quasi camminando, mi trovo davanti il nuovo ostacolo: una grande cascata che sembra chiudere la testa del canale. Mattia parte, pianta una fila di chiodi, nessuno su cui sia possibile azzerare, si gira, si torce in opposizione, aggrappato come può e finalmente supera la cascata. Quando lo raggiungo in sosta sono le quattro e mezza, siamo stati nel canale quasi sette ore e mezza ma ora sembra sembra concluso e lo scenario attorno a noi cambia radicalmente.

Siamo alla “Piazza grande”, ci aggiriamo quasi spaesati nel centro del mondo ignoto, nel punto in cui tutte le linee si uniscono. Sopra di noi svetta la grande parete nascosta: spaventosa e bellissima è un susseguirsi di tetti strapiombanti e fessure oblique. Quella parete è il futuro dell’Isola Senza Nome: la progenie dell’Isola, i testimoni della tradizione, un giorno verranno qui e scriveranno nuove e meravigliose storie  …e dovranno essere davvero fortissimi per farlo!

 Ci sediamo a mangiare quello che è rimasto nel sacco razionando l’acqua a disposizione. Poi alle mie spalle un boato distante. Nella mia mente una domanda senza senso “Il sabato sparano le mine nella cava di Lecco?”. Ma la risposta è davanti ai miei occhi: le Grigne sono coperte di nero e lampeggiano di fulmini. Chiusi nel canale non avevamo visto il cambiamento del tempo. Osservo quella massa nera che brilla di viola quasi sconsolato. Il nostro piano non cambia, possiamo solo sperare di uscire verso l’alto ed ora dobbiamo farlo prima che quell’inferno ci si schianti addosso.

Abbiamo davanti a noi solo due soluzioni. La terza, quella più ambiziosa ed esplorativa, va purtroppo scartata a priori. Possiamo puntare sul canale di destra cercando di intercettare l’uscita delle vie sulla Parete Nord oppure puntare sul canale di sinistra e cercare di guadagnare l’uscita. Non esistono informazioni sul canale di sinistra, tutto quello che sappiamo sono le foto scattate dall’alto la scorsa estate con mio fratello e quelle fatte la scorsa settimana dal battello. Forse si passa, ma di sicuro c’è un grande salto prima della valle erbosa. Puntiamo a sinistra con la possibilità di rimontare la cresta centrale qualora servisse un “Piano B”.

I tuoni si fanno sempre più forti ma nel canale, sotto i grandi tetti della Parete Nascosta, non abbiamo idea se abbia già iniziato a piovere. Dobbiamo muoverci in fretta, ma non sbagliare. Spingere e trattenere: il temporale all’orizzonte batte il suo ritmo come un tamburo ma noi dobbiamo tenere il nostro.

Il primo tiro nel canale è poco incoraggiante. Ciò che sembrava facile si dimostra difficile e ci fa tribolare, ci ruba tempo. Poi la situazione cambia, il canale si allarga, compare qualche pianta e salvo qualche salto roccioso superiamo due tiri da sessanta quasi camminando.   Poi il canale reclama e si oppone con una piccola cascata fatta di lame oblique che rimontiamo con un friend e un chiodo “simbolista”. Forse ce la si fa, il temporale incalza ma la montagna sembra finire. Se riusciamo a raggiungere il bosco in cima possiamo giocare a carte con Noè sotto la pioggia, ma dobbiamo uscire.

Due grandi grotte segnano il nostro cammino prima che questo si infranga contro l’ultima colossale muraglia: il muro dei sogni rubati. Il canale è bloccato da una cascata di roccia inchiodabile e coperta di melma. Proviamo un attacco frontale ma appare subito disumana.

A sinistra la grande parete nascosta mentre a destra roccia fragile che rimonta la cresta centrale. “Piantiamo tutti i chiodi che abbiamo, ma dobbiamo rimontare quello schifo sulla destra”. Attraversiamo il canale mentre il temporale ringhia minaccioso. Mattia si alza, pianta un chiodo il cui suono è una promessa, poi si alza e gira lo spigolo: “No! Non è così male come sembra, si passa bene di qui!!” La corda inizia a scorrere, Mattia si muove veloce. “Trenta!” urlo quando passa il segno della mezza corda. “Dieci!”. “Cinque!”. La corda scarseggia tra le mie mani. “Mi servono cinque metri per raggiungere una pianta!” Mi urla Mattia dell’alto. I tuoni ridono di noi, smonto la mia sosta e parto verso il primo chiodo. “Vengo!”. Sono scocciato, quasi arrabbiato, niente e nessuno dovrebbe provare a fermarmi quando sono in quello stato mentale. Raggiungo il chiodo e mi alzo finchè ancora mi è ancora possibile schiodarlo. “Sono alla pianta! Stai fermo che faccio sosta!” mi urla Mattia. Lascio che si leghi e riparto, ha bisogno di altra corda per mettermi in sicura. ”Okay, ora sei dentro! Vieni!” Il tiro scorre veloce tra roccia ed erba, altri sessanti metri che ci portano finalmente tra le grandi piante. Il temporale si è spostato verso sud, non ha attraversato il lago, non ci ha preso.

Siamo fuori, tra le piante, le Grigne sono limpide ed un tramonto rosso illumina il Lario e la punta di Bellagio. La “pace” è una gioia che scoppia all’improvviso. Siamo fuori: abbiamo attraversato la frontiera e fatto ritorno. 

Ci stringiamo la mano riempiendoci di pacche prima di crollare seduti sull’erba. Lui chiama Serena, io Bruna: è tempo di rassicurarle. “Siamo fuori, tutto bene”. Bruna ride, mi racconta che a Varenna è da poco finita una terribile grandinata. Quando lo racconto a Mattia restiamo un attimo in silenzio osservando il lago: “Varenna è là davanti…”.

Poi Mattia si fa avanti. “Hai già un nome? Io ne ho pensato uno poco fa.” “Spara!” “C’è la Parete del Tempo Perduto, la via del Tempo Rubato, la via Tempo al Tempo. Potremmo mantenere la tradizione e chiamarla via ‘Buontempo’, tutto attaccato: sia per celebrare il brutto tempo sfiorato che per rimarcare il ‘buontempo’ che devi avere per una ravanata simile!” “Mi piace! Approvata!”.

La via esplorativa “Buontempo” si innalza per oltre seicento metri, con uno sviluppo a zig-zag piuttosto difficile da valutare. Non sono in grado di ricordare il numero esatto di tiri, credo siano attorno ai quindici: la maggior parte sui trenta/quaranta metri ma tre o quattro anche sul sessanta pieno. Abbiamo impiegato poco più di dieci ore dall’attacco all’uscita. Il grado massimo, con la dovuta furbizia, è un V+ …ma nella gradazione dei Corni di Canzo con l’aggiunta di un tocco speleo. Nessun chiodo è stato lasciato in via. La roccia è terribile, l’erba spaventosa, l’esposizione agghiacciante appena metti il naso fuori dal canale. No, non abbiamo mai usato le picozza ma, con quello che l’ho pagata, era un piacere sentirsela addosso. Il triangolo nelle foto indica il punto denominato “Piazza Grande”.

Mattia si conferma uno straordinario chiodatore, un caparbio lottatore capace di mantenere il sangue freddo nelle difficoltà. Uno dei migliori con cui abbia mai arrampicato, uno dei più “solidi”, probabilmente l’unico con cui affrontare una “ravanta” tanto incerta e scomoda quando la tempesta incalza. Negli annali dell’Isola Senza Nome la nostra cordata non sarà ricordata come la più forte, nè la più furba o saggia, ma per certo come una delle più coriacee e selvagge che abbiano attraversato con coraggio i territori dell’Isola. Grazie per essere stato mio compagno in questa nostra ennesima avventura.

Davide “Birillo” Valsecchi 

Pace in tempo di Guerra

Pace in tempo di Guerra

La sveglia suona alle sei e mezza ma ci metto un’ora intera prima di uscire di casa. Bruna dorme, io mi faccio un caffè, una doccia e mi aggiro per il salotto dando un’occhiata ad Internet mentre coccolo i gatti. Cerco il giusto stato mentale, diversamente conviene me ne torni nel letto. Poi, finalmente, esco e lascio che ogni passo aggiusti e riassetti il mio corpo.

Quando arrivo a Passo400 soffia un vento forte da nord, supero il crinale a sbalzo sul lago e mi ritrovo davanti il regno selvaggio del Moregallo Orientale mentre il sole del mattino ne illumina le forme. Per un istante tentenno, mi siedo e scatto qualche foto mentre studio ancora il canale che intendo salire. Se mi fermo troppo a lungo il coraggio verrà meno: respiro, mi alzo e riparto.

Alla base del canale sono sovrastato dalle pareti ritorte e la mia unica possibilità verso l’alto è quella ruga nella montagna, scavata dall’acqua e dall’ignoto. Mi aspettavo un canale detritico a blocchi ma il primo rialzo è di roccia compatta, quasi placca: bene e male. L’attacco sembra parlare chiaro: qui si arrampica o non si passa. Supero il primo salto ed affronto il successivo. Nello zaino ho trenta metri di corda, la mia sola possibilità di fuga. Ad ogni salto di roccia mi guardo in giro cercando dove giocarmela con una doppia. Poi i salti rocciosi diventano quattro, cinque, sei: sempre più sostenuti, sempre più impossibili da affrontare in discesa.

“Con doppie da 15 diventa un inferno scendere da qui”. Rimonto il salto successivo ed ormai mi è chiaro che indietro non si torna più: ho mollato gli ormeggi, non resta che navigare nell’ignoto e trovare un’uscita. “Io ho fatto la mia scelta, ora tocca alla montagna non essere troppo cattiva”. La solitudine avvolge i miei pensieri mentre le mie percezioni si dilatano: la mia vita è ora nelle mie scelte. Sembra spaventoso ma è qualcosa di piacevole.

Il canale si abbatte un poco e la vegetazione ne approfitta per invaderlo. Senza la gravità a lavorare in verticale il fondo si riempie di detriti e sassi instabili. Sembra meno difficile, ma devo fare più attenzione. Mentre avanzo trovo qualcosa di inaspettato: un vaso di plastica per fiori! Sorrido e gli scatto una foto: sopra di me, sulla sinistra orografica c’è il Sasso Preguda e la sua chiesetta: quel vaso è finito di sotto spinto dal vento.

Proseguo ma il canale sembra chiudersi morendo in pareti verticali, quindi mi sposto sulla destra cercando di guadagnare il crinale che separa il mio canale da quello affianco. Raggiungo la cresta ed inizio a salire aggirando i grossi sassi di calcare e le piante che segnano il confine tra i due “vuoti”. L’esposizione è ragguardevole ma le difficoltà sono accettabili: ora tornare indietro è davvero impossibile. Seguo linee invisibili accarezzando la roccia, ma la vegetazione mi nasconde il resto della mia storia: non posso far altro che credere e dubitare.

La cresta obliqua ancora verso sinistra, verso il mio canale. Rientro nel fossato di roccia e faccio una nuova sorpresa: un teschio di tasso dai ragguardevoli denti. L’incontro in parte mi inquieta: un tasso morto, disperso in un canale sconosciuto, non è un bel presagio per il Nostromo dei Tassi del Moregallo. Mi fermo a studiarlo, scatto qualche foto. Mi sfiora l’idea di infilarlo nello zaino ma subito desisto. Con quei denti era un’animale forte ed orgoglioso, ha trovato la morte cadendo dall’alto, vinto dalla montagna, forse al buio, forse nella pioggia. Meritava di più che finire nei miei trofei, così l’ho appoggiato su una bella roccia salutandolo: “Augurami sorte migliore, fratello tasso”.

Il canale diventava uno stretto diedrino erboso tra una placca compatta ed un muretto a salire. Mi alzo nel diedro ma davanti a me, oltre la vegetazione vedo solo la roccia ed i caratteristici prati verticali sotto Preguda. Mi alzo ancora ma devo cambiare strategia, in quella direzione non si può proseguire. Così rimonto sul muretto ed inizio un traverso su roccia verso destra cercando di guadagnare nuovamente il crinale. Ormai sono fuori, sono in parete, l’esposizione è ormai irrilevante: arrampico slegato su passaggi di IV. La cosa, curiosamente, non mi disturba: è l’unica opzione razionalmente possibile e la roccia è stupenda. Rimonto il crinale per poi abbassarmi nel canale di destra, dentro cui guadagno ancora quota.

Qui faccio un errore di valutazione che comprenderò solo più tardi. Un’esile traccia di muflone sembra alzarsi ancora verso destra attraverso una cengia di detriti. Le piante mi impediscono di vedere bene ma mi alzo seguendo quella linea che punta a rimontare sulla spalla destra del secondo canale. La roccia si fa però friabile e poco convincente: quel “sentiero da capre” potrebbe essere la soluzione più logica ma anche una pericolosa trappola. Non mi fido, rientro nel canale e lo riattraverso riguadagnando il crinale sfilando dentro una roccia spaccata.

Davanti a me ho uno strano mosaico di prati verticali e roccia bianca costellata da piccole ma apparentemente solide piante. Punto dritto per dritto arrampicando nel misto. Poi prendo, mi alzo sopra un diedro roccioso e mi ritrovo davanti una pancia di rocca. Per rimontarla devo alzarmi oltre lo strapiombo su prese piccole e riposizionarmi su fessure, oppure tirare un metro di dulfer orizzontale su lama buona e placca liscia prima di rimontare su una pianta. In entrambi i casi, se nel momento di massimo sforzo non mi bastano le braccia o mi partono i piedi, passo di sotto senza scampo. “Gli equilibristi muoiono credendo che l’esercizio sia finito”. Un pensiero che abbozza la frase di Philippe Petit, di cui ricordo il senso ma non le parole esatte.

Al primo movimento mi accorgo che è troppo, che mi sto giocando il jolly quando forse manca poco ad uscire. Mi fermo, mi guardo in giro e di lato, scendendo e compiendo un piccolo traverso, vedo una soluzione più abbordabile. Forse anche più esposta ma gestibile e frazionabile in più movimenti. Mi abbasso, mi incastro in una nicchia, mi sfilo e con una “mastrufolata imperiosa” raggiungo una pianta e finalmente il bosco di betulle.

Faccio due passi, mi allontano dal vuoto, ed inizio a respirare a pieni polmoni. Altri due passi ed i miei respiri si fanno ancora più intensi e rumorosi. “Fuori, sono fuori!”. Ormai sto iperventilando e mi siedo a terra sul prato. Dallo zaino prendo la bottiglia dell’acqua e bevo avido. Respiro e prendo il cellulare: “Sono fuori. Canale fatto, Birillo vivo” scrivo a Bruna. Poi mi alzo e guardo di nuovo di sotto: senza sporgermi troppo perchè mi fa un po’ paura…

Sull’altro lato del canale la cengia delle capre appare ora come una buona soluzione percorribile ma, in fondo, era stato figo anche chiudere con una bella serie di placche intense! Mi siedo di nuovo ed dallo zaino estraggo una busta di fette di mela essiccate. Le mani non tremano ma si muovono in modo strano, mi sento una scimmia goffa che tenta di infilarsi in bocca patatine sbriciolate. Il mio corpo ha staccato la spina e la mente ha mollato il colpo: improvvisamente mi sento un vecchio pieno di dolori. Ma il sentiero è venti metri alle mie spalle, mi godo il momento.

Davanti a me, sul lato opposto del lago, fa mostra di sè il Forcellino. E’ da questa mattina che ripenso a Dean Potter ed alle sue parole raccontate da Luca Calvi: «Una delle espressioni che maggiormente lo infastidiva era sentirsi accusare di essere un adrenaline-addicted, adrenalina-dipendente. “No, Luca, per favore, aiutami a spiegare che la mia non è ricerca dell’adrenalina, è esattamente il contrario. Fin da piccolo mia madre mi ha insegnato l’arte dello yoga, il sapermi concentrare e controllare. L’adrenalina è l’esatto contrario di quello che cerco io. Io spingo le difficoltà al massimo, salgo una via in free-solo oppure cammino sulla slack senza cordino di sicurezza perché così mi concentro al massimo, mi avvicino maggiormente a quello stato di benessere con me stesso e col mondo che è l’esatto contrario delle sensazioni di chi va a drogarsi di adrenalina. Per loro l’adrenalina arriva dal gioco quasi inconscio con il rischio semisconosciuto, una sorta di roulette russa. Per me no, non c’è nulla di non calcolato, è un percorso che mi porta a salire, ad elevarmi, a camminare con vuoto tra le gambe ed infine a poter volare… So che mi capisci, scrivilo tu…”». Curiosamente le parole di Dean mi ricordano quelle di Ivan e quelle apprese studiando “la via della mano vuota” (Karate-Do). L’ignoto è la mia difficoltà massima, la posta in gioco la stessa: con una punta di egocentrismo avevo quasi sperato fosse lui uno dei due corvi che avevano vegliato la mia salita nel canale. Sull’altro non ho dubbi, mi segue ormai da anni su queste montagne. 

Ieri, Bruna ed io, eravamo ad Esino Lario: Davide Castelnovo era il tracciatore della prima edizione del EsinoBlockRock, una gara di Street Boulder tra le vie del paese. Oltre a Davide e suo papà Pier abbiamo incontrato anche il Guerra e gli altri ragazzi di Valmadrera: tutti veterani dell’Isola Senza Nome. “Serve la testa per le vie dei Corni” chiacchieravamo insieme “Senza il giusto stato mentale al secondo tiro cerchi la fuga in doppia anche se hai già ripetuto la via più volte”.

Come spesso accade ero affascinato dalle straordinarie capacità dei boulderisti, dal modo in cui riuscivano a risolvere movimenti tanto complessi con apparente semplicità e leggerezza. Probabilmente non riuscirò mai ad arrampicare come loro, così come non sarò forse mai al livello di Mattia, di Josef, Ivan o Gianni. Ma in fondo è giusto così: nelle mie “cose”, nella mia “dimensione”, nel mondo che ho scelto di sentire mio, credo di essere diventato piuttosto bravo …e forse mi basta questo per apprezzare il giusto equilibrio. Quella di oggi è stata una bella salita, completa in tutti gli aspetti che mi appartengono.

Davide “Birillo” Valsecchi

Non credo che il canale sia mai stato salito o che possieda un nome. Ho pensato a tanti nomi ma nessuno mi sembrava appropriato, così mi piacerebbe chiamarlo “Canale del Nostromo”: ma è giusto un vezzo, non è fondamentale. La salita non scende mai sotto il secondo/terzo grado ed è da considerarsi prevalentemente di “misto-verde”. Serve intuito e capacità nel tracciare la rotta, bisogna saper mitigare le difficoltà ma anche essere consapevoli che molte situazioni vanno risolte di petto con passaggi, anche lunghi, di IV tendente al IV+ (La roccia è buona quindi è possibile che il grado sia più alto e che semplicemente non l’abbia sentito). Di questi passaggi, ahimè, non ci sono foto perchè ero troppo impegnato a cercare di sopravvivere anzichè fotografare 😉 Il punto d’uscita l’ho segnato con un adesivo vinilico su una betulla. Due ore e quaranta nel canale. E’ una ravanata intensa di quasi quattrocento metri di dislivello senza via di fuga: mi raccomando, non mettetevi in testa idee stupide se non è il pane vostro.

La “Direttissima” del Moregallo

La “Direttissima” del Moregallo

Domenica mattina di luglio: un caldo terribile. Il paradosso è vivere ad un chilometro in linea d’aria dal Lago e tecnicamente non riuscire a sfruttarlo. La costa che risale da Parè, frazione di Valmadrera, fino ad Onno, frazione di Oliveto Lario, è infatti “logisticamente” un problema su cui continuo ad “incartarmi”. Il tratto di strada, la provinciale SP583, che collega le due frazioni è lungo 11 chilometri ed attraversa due nuove e lunghe gallerie. La prima di 1,7 chilometri, la seconda di 2.3 chilometri. La vecchia strada statale, che correva lungo la riva del lago, è oggi chiusa e quasi completamente impraticabile, nel senso che il primo tratto di strada è diventato privato ed è solidamente recintato. Neppure “ravanando” è possibile aggirare questo blocco lungo la riva: forse solo a nuoto, tenendosi ben lontani dal cantiere navale, si riesce a passare!

Curiosamente la parte “insensatamente” privatizzata appartiene al comune di Valmadrera mentre il resto della vecchia strada, oggi in abbandono ma praticabile a piedi, appartiene al comune di Mandello del Lario che, sebbene sulla riva opposta del lago, vanta storici diritti sui territori del Moregallo.

Le due nuove gallerie impongono quindi di accedere alla sponda orientale solo a Parè, prima della prima galleria; in località Moregallo, tra le due gallerie; alla spiaggia delle Moregge, dopo la seconda galleria. Purtroppo a queste limitazioni se ne devono aggiungere altre due: la prima è un cronico affollamento estivo di tutta la zona, la seconda è la scarsa possibilità di parcheggio, oggi anche a pagamento. Anche volendo affrontare due chilometri di provinciale chiusi dentro una trafficata galleria, una camera a gas, sarebbe comunque impossibile: la galleria, per problemi all’impianto di illuminazione, è interdetta tanto ai pedoni quanto alle biciclette. Quindi la macchina ed il parcheggio a pagamento sono l’unica soluzione diretta.

Tutto il versante Est del Moregallo è caratterizzato da grandi pareti verticali e, come se questo non bastasse, ci sono ben quattro cave che “aranano” i già difficili fianchi della montagna. Per questo motivo non vi è un sentiero che corre a mezza costa da sud a nord. Al momento l’unica soluzione possibile e ufficiale è il sentiero 50° Osa che dalla bocchetta di Sambrosera, a 1192m di quota sulla cresta del Moregallo, compie una lunga discesa superando la Parete Nord e raggiungendo il lago tra il Rapanui e l’Avalon. Quindi, solo andata, sono oltre 1000 metri di dislivello ed oltre 6 km di sviluppo per ovviare ad un impraticabile strada di 2 chilometri pianeggiante a bordo lago!

Inevitabilmente tutta quella zona, osservabile solo dall’altra sponda del lago e quindi lontana da occhi indiscreti, è territorio di “saccheggio”: quando in cava, il 6 marzo 2015 si sono lasciati prendere la mano con le mine, per il boato che ne è derivato se la sono fatta sotto anche a Lecco. Così, giusto per dire… (LeccoNotizie: Boato sul lago, tanta paura)

Le alternative al 50° sono poche, selvatiche e spesso non offrono alcun vantaggio se non quello di “pericolare” negli angoli più fieri del Moregallo. C’è infatti il “Sentiero della Teleferica” (un’avventura!), quello “del casotto dal lago” (un’altra avventura!) e più a nord tracciati dei mufloni e dimenticati sentieri sulla sinistra orografica della valle delle Moregge. In ogni caso è necessario raggiungere la cresta del Moregallo oltre i 900 metri per poi poter scendere.

Nello scorso inverno, agli inizi di Dicembre, mi sono avventurato ad esplorare una possibile soluzione che, più o meno a quota 400, riuscisse a vincere gli ostacoli attraversando orizzontalmente tutto il versante. La prima parte della mia esplorazione è stata vertiginosa ma di successo: molti “sentieri” tracciati dagli animali attraversano orizzontalmente fino a raggiungere la cresta a quota 400: il sasso Preguda è a quota 630, quindi questa linea è decisamente “bassa” ma sufficientemente alta per accedere all’anfiteatro roccioso che “ospita” la cava al di sopra della sua linea di scavi.

Quella zona è bellissima e probabilmente, al di sopra della cava, è assolutamente “vergine” del tocco umano. Ci sono un paio di linee che, attraverso la roccia a strati ed i prati strapiombanti, può essere inseguita per raggiungere la cresta opposta, dove corre il sentiero del casotto. Il prossimo autunno, quando l’erba sarà seccata ed i serpenti avranno smesso di pascolare per prati, ho intenzione di continuare la mia esplorazione. Ovviamente serviranno corde e chiodi per riuscire a raggiungere l’altro lato ma, se mai ci riusciremo, avremo superato i primi due grossi ostacoli: la prima cava e la prima galleria. Da quel punto, attraverso il sentiero del Casotto e quello della Teleferica si potrebbe proseguire orizzontalmente fino al grande (e temibile) canalone che scende a valle a sinistra della parete del Tempo Perduto. Se anche questo secondo “problema” fosse risolto il nostro viaggio potrebbe continuare in orizzontale fino alla base della Parte Nord.

Mentre rifletto sulle possibilità e sulle difficoltà non posso che pensare ad Eugenio Fasana, il grande alpinista che stato il capostipite degli arrampicatori dell’Isola Senza Nome. Sua è infatti la prima storica via d’arrampicata sull’omonima parete del Corno Centrale realizzata il 30 Giugno del 1910. Pensavo a Fasana perchè fu sempre lui, nell’Ottobre del 1911 , a tracciare l’avventurosa linea su cui oggi corre la celebre Direttissima che in Grignetta collega i Resinelli con il rifugio Rosalba. Quella linea avveniristica, tra canali repulsivi ed allora inesplorati, oggi è uno dei sentieri più noti e frequentati della Grignetta. Certo, oggi ci sono cavi in metallo, pioli, scale e probabilmente ben pochi si rendono conto di cosa possa significare affrontare quel percorso senza tutte quelle “correzioni” umane che furono introdotte dal Cai Milano nel 1923.

La direttissima di Fasana e la mia esplorazione attraverso il Moregallo per certi versi si assomigliano molto: un’avventura ed un’esplorazione “diversamente” alpinistica. Ma quale potrebbe essere il suo futuro? Per quanto io sia contrario ai cavi metallici, alle catene ed al trapano non è possibile negare il ruolo dell’attuale direttissima nello scenario della Grignetta. Il Moregallo però è aggredito da quattro cave, qualcosa che ha decisamente un impatto esponenzialmente più violento delle mie consuete remore etiche. Un sentiero attrezzato, fosse anche con passaggi da vera e propria ferrata, segnerebbe un limite invalicabile alla salita della cave ed una maggiore frequentazione permetterebbe una maggiore vigilanza. Spalancare le porte di un mondo segreto o lasciare che sia consumato in silenzio? Forse il compromesso è accettabile, di certo avrebbe un senso ed uno scopo forse più nobile di molte altre ferrate “ludiche” del territorio lariano. (A partire da Gamma1 fino alle nostrane Belasa, Venticiquennale Canzo e Trentesimo Osa…)

Così, mentre attendo il ritorno dell’autunno, fantastico su cosa potrebbe essere fatto. Cosa accadrebbe se le avventate esplorazioni dei Tassi del Moregallo riuscissero a raccogliere il sostegno delle storiche realtà dell’Isola: la OSA, la SEV, il Cai di Valmadrera così come quello di Canzo ed Asso. Forse persino i Corvi di Mandello, a cui appartiene ufficialmente quella zona, potremmo esserne interessati. Chissà, forse unendo tutte le forze e tutti i talenti, si potrebbe creare la nostra direttissima, chiudere il cerchio attorno al Moregallo e presidiare una parte del nostro territorio spesso abbandonato.

Davide “Birillo” Valsecchi

Fiamme al Moregallo

Fiamme al Moregallo

Se ti chiami Birillo e giudi una brigata che porta il nome di “Tassi del Moregallo” non puoi tollerare che l’ignoranza abbia portato fiamme e cenere tra le tue valli: questo non è solo un incendio doloso, questa è una faccenda personale.

Ieri sera la sirena dei pompieri, poi oltre il profilo della Forcellina la notte si illumina di rosso: brucia la valle Due Pile, brucia il versante sud Moregallo. Dal terrazzo scatto qualche foto mentre su internet leggo che fino al mattino non sarà possibile intervenire. Alle quattro mi alzo in mutande e torno sul terrazzo: le fiamme, nonostante la foschia, sembrano essersi allargate inghiottendo tutte le creste.

Al mattino l’elicottero inizia il suo “vai e vieni” gettando acqua sui focolai che ancora fumano alti sulla cima del Moregallo: il fuoco, incastrato tra le pareti di roccia, ha consumato ogni cosa, non ha quasi più nulla da bruciare e sembra morire di di fare sotto i colpi dell’elicottero. Non posso che aspettare cercando di capire quale disastro nasconda la foschia. Poi l’elicottero smette di volare, il fumo sembra cessato: infilo gli scarponi e vado a vedere.

Incontro le squadre dell’antincendio che scendono lungo il sentiero “Paolo ed Eliana”. Chiedo loro come sia la situazione. L’incendio è spento, qua e là fuma ancora ma solo all’interno del perimetro già bruciato. Li saluto e li ringrazio per quello che hanno fatto: “Grazie? Siamo di Valmadrera, queste sono le nostre montagne: non potevamo fare diversamente!” Sorridono e scendono a valle: ancora grazie!

Incontro una coppia di carabinieri. Giacche grigie e scarponi ricordano la forestale: forse sono i primi “carabinieri di montagna” dopo l’accorpamento dei due corpi. Chiedo loro qualche informazione e racconto quello che so della valle e quello che ho visto durante la notte. “Posso fare qualche foto e guardare un po’ in giro?” Avevo paura di dare fastidio ai loro rilievi ma non hanno nulla in contrario se curioso in giro: le operazioni di spegnimento sono ormai concluse. Così li seguo sul sentiero che dal Forcellino taglia verso Sambrosera e poi, spinto da un richiamo a cui non riesco a resistere, mi infilo nella valle due pile e rimonto del mio adorato “ignoto” ormai in cenere.

Il fuoco sembra essere sceso dall’alto, scavalcando tutte le tre grandi creste che sulla sinistra scendono nella valle: è impressionante come abbia saputo salire per ridiscendere superando i salti rocciosi che si opponevano a barriera. Fortunatamente i due carabinieri/forestali non mi seguono: la valle è insidiosa normalmente, in quelle condizioni non ho idea di cosa mi attenda.

Supero il primo passaggio roccioso, il primo punto in cui tocca tenersi un po’, ed entro nella “piazza” dove i primi canali si incrociano. Il fuoco ha solo accarezzato le piante mentre correva furioso sul paglione consumandolo fino alle radici. In quel punto spesso cadono e muoiono molti mufloni ed il fuoco sembra aver scosso le piante che ne trattenevano i resti facendone rotolare a valle le ossa. Le fiamme hanno ingiallito quello che resta di un muflone maschio e più in alto di una femmina.

Devo fare attenzione a non muovere sassi in quella terra scossa e consumata dal calore. Le pietre ingiallite non sembrano dare alcun affidamento. Per essere più sicuro devo arrampicare quanto più possibile sulle placche e sui sassi più grandi ma la sensazione è strana ed inquietante. Con le dita scosto la cenere cercando appigli e appoggi in un silenzio surreale. I miei ricordi sono pieni di piante, a volte fastidiose, a volte amichevoli, che custodivano i segreti del cuore della valle: non c’è più nulla, solo cenere, spazi aperti e silenzio.

Mentre arrampico più o meno all’altezza dello “Zeppeling”, dove lo scorso gennaio abbiamo ripetuto la via “Biba e PoniPoni”, vedo affacciarsi sulla cresta una volpe. Ferma immobile lassù mi osserva per quasi venti minuti mentre salgo in silenzio. Immobile, arroccata sopra un’isola rocciosa circondata dalla cenere, uno scoglio sopra cui il fuoco non è riuscito a salire. Mi guarda ed io guardo lei: forse siamo i soli esseri viventi che si aggirano in quella desolazione. Ci guardiamo muti a lungo, quasi a cercare conforto e quel suo osservarmi impietrito senza riuscire a parlarmi: “Cosa è successo?” Mi piacerebbe dirle che mi dispiace, che quella è la nostra valle, ma lei domani dovrà andare altrove per sopravvivere. Forse non siamo stati in grado di proteggerla, di certo  daremo battaglia per vendicarla.

Birillo’s Crack è affumicata, lo stesso vale per lo Scoglio di Arianna e la cresta su cui corre Mozzo Fantasma. Il fuoco ha circondato la Pietra del Filosofo e lo Scoglio dei Tassi risalendo il verticale pendio erboso che avevo fantasticato di risalire con le picozze. Vorrei salire fino alla bocchetta di Sambrosera ma una strana inquietudine mi trattiene. Credo che il fuoco lo abbiano appiccato qui da qualche parte, lungo il sentiero che dalla palina della OSA risale verso la bocchetta. Probabilmente sono scesi da qualche parte nella valletta e poi hanno ripiegato in sicurezza oltre il crinale verso Sambrosera. Le creste hanno nascosto alla vista quello che accadeva fino a quando ormai è stato troppo tardi: “Figli di puttana…”

Mi guardo in giro ancora un po’. La terra è nuda e cotta, quando la pioggia pesante la colpirà in quelle condizioni non sarà affatto piacevole. Credo che molte cose cambieranno ancora: staremo a vedere. Quelle mezze seghe che hanno combinato questo casino forse pensano compiaciuti di aver abbrustolito la mia montagna, ma si sbagliano. Il Drago Verde ha sangue di fenice, risorgerà e sarà ancora più battagliero. Al contrario dovrebbero essere loro a preoccuparsi: i “duri della valle” non sono come gli altri, sono gente strana e toccargli la montagna è un’offesa imperdonabile. Tra i vecchi già gira insistente la voce, tra loro si domandano chi ha visto o sentito: è iniziata la caccia ed i pezzi vengono messi insieme. Il fuoco ha svegliato una rabbia bruciante che conveniva lasciare sopita.

San Primo, Palanzone, Pra Santo, Due Mani ed ora Moregallo: qualcuno pagherà e pagherà per tutto. Forse è meglio smettere di sentirsi intoccabili, smettere di comportarsi come degli idioti. Quello che accade nel bosco resta nel bosco: dio non voglia che qualcuno li colga sul fatto o tra la cenere non troveremo solo le ossa di muflone.

Davide “Birillo” Valsecchi

Ravano Jones 2017

Ravano Jones 2017

Quando è scoccata la mezzanotte Bruna dormiva accoccolata accanto a me sul divano, io invece stavo guardando il “Dottor Stranamore: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba” su Netflix. Quando fuori è partita la baraonda di botti ho capito che era scoccata l’ora “X” e che la guerra di fine anno era iniziata: “Ma non c’era il divieto? Fottute teste di cazzo, vi piace sparare petardi e lanciare lanterne incendiare? Beh, a me piacerebbe allinearvi in ginocchio e farvi saltare le cervella uno ad uno. Blam! Blam! Blam! Ogni dieci un coppa di spumante: questo sì che sarebbe benaugurante per il nuovo anno!”

Troppo diretto? Forse in effetti non era il più edificante dei pensieri con cui cominciare il nuovo anno… così, sopratutto per contenere il mio lato “ruvido”, ho svegliato Bruna (che riusciva a dormire nonostante il baccano!), recuperato i gatti da sotto il divano (dove si erano giustamente arroccati in assetto da combattimento!) ed aperto una bottiglia di champagne da quaranta euro: un botto tutto sommato accettabile. Un paio di bicchieri ed una fetta di panettone aspettando che “Beirut” si acquietasse: poi ci siamo infilati nel letto attendendo complici l’arrivo dell’alba del nuovo anno.

“Hey Bru! Non stare sotto!! Guardandola da qui non sono poi sicuro che questa torre regga!” Con il sole caldo siamo usciti a fare due passi puntando alla cima del Moregallo passando per il Canalone Belasa. Il piede di Bruna non è ancora guarito: l’unghia dell’alluce non è ancora cresciuta completamente ed il dito le fa male nelle lunghe camminate. Tuttavia nel Belasa ci sono molti tratti in cui si può arrampicare e questo poteva divertirla alleggerendo fatica e fastidi. Ovviamente, ogni dieci passi si fermava a fotografare un qualche fiorellino da inviare via WhatsUp al Guero, il suo complice preferito in queste cose. Così, mentre l’aspettavo, ho cominciato a guardarmi intorno ed alla fine, come forse era inevitabile, ho appoggiato le mani sulla roccia dando inizio al ravano del nuovo anno. Appena fuori dal sentiero uno diedro rimontava alle spalle di una torre, il centro del diedro era protetto da un grande albero dandomi la possibilità di alzarmi da terra senza essere troppo esposto nel vuoto pieno. “Quassù è uno spettacolo, si può continuare a salire lungo la cresta per uno o due tiri!” “Sì ma ora come scendi?” “Ovvio…da dove sono salito!” “Ma sei fuori!!” “Naaa… non c’è problema …ma lasciami concentrare!”.

La roccia qua e là è fragile ma anche “ricca”, con un po’ di pulizia possono uscire due o tre tiri di quarto piuttosto divertenti e facilmente proteggibili sulle piante e sulle fessure. “Ravano Jones ed il Belasa Perduto! Ecco la prima via dell’anno!”

Disarampico e raggiungo Bruna: per lei è la prima volta nel canalone e le piace arrampicare tra quelle rocce. “Fai quello che vuoi, ma tieni almeno una mano sulla catena! I piedi qui scivolano e tu non arrampichi da sei mesi!” Decisamente contrariata si è attenuta alle mie disposizioni “Però non mi piacciono le catene… io preferisco senza…” Poi, come da tradizione per il Belasa, l’ho accompagnata sulla paretina da cui anni fa sono piombato a terra arrampicando slegato. Un bel volo: tre passi in verticale, salto e capriola finale sui sassi. La cosa divertente è che quel giorno stavamo provando il cavalletto e la macchina fotografica nuova: quindi c’è anche il video!

“Accidenti, ma è alto! Sei caduto da lassù? Nel video non sembra così alto! Potevi spaccarti tutto!!” In effetti quel giorno presi una bella botta alla spalla, se non avessi speso tutti i sabati della mia infanzia esercitandomi nella caduta in avanti del Judo probabilmente le conseguenze sarebbero state terribilmente più gravi. Ma in fondo era per questo che Onorio ci insegnava a “cadere”: quelle tecniche gli avevano salvato la vita in moto ed anche con me avevano fatto lo stesso favore. “Bhe, tu al Pizzo Boga hai imparato a non tirarti sassi sui piedi, io qui a non cadere quando si arrampica…” Le ho risposto ridendo “…per questo mi piace venire qui e rinfrescarmi la memoria”.

Bruna si divertiva e così ho lasciato andasse avanti lei godendosi liberamente la salita. Purtroppo, lasciando a lei il comando, credo di essermi distratto un po’ troppo. “Sai Bruna che abbiamo sbagliato canale?!” Prima dell’uscita del Belasa c’è una biforcazione in cui il canale si divide: il sentiero attrezzato punta a sinistra, noi ovviamente eravamo finiti a destra. Niente di terribile, tuttavia non sapendo bene cosa ci fosse oltre ero preoccupato per Bruna. “Bruna, cosa facciamo? Torniamo indietro, attraversiamo verso sinistra o tiriamo la variante esplorativa?” Sciocco io a chiederlo: “Variante! Io non torno indietro! Però ora vai avanti tu!”. Un’evidente traccia dei Mufloni scarrocciava verso destra puntando verso la Crestina OSA, rendendo la nostra variante avventurosa ma non troppo complicata.

Giunti in cima non c’era nessuno e ci siamo goduti il sole e l’intimità del panorama. Non male come inizio: in bocca al lupo a tutti voi dai Tassi del Moregallo!

Davide “Birillo” Valsecchi

L’ultimo segreto dell’anno

L’ultimo segreto dell’anno

Bruna doveva uscire a bere un caffè con un’amica e così ho deciso di fare un giro dietro casa. In realtà volevo inseguire l’ultimo sole e salire in cima allo Scoglio dei Tassi prima del tramonto, tuttavia il sole sembrava correre molto più di me ed avevo bisogno di almeno un paio d’ore per salire fin lassù. Alla fine ho desistito, ho deviato ed ho trasformato una sgroppata violenta in una comoda passeggiata: l’ultima dell’anno.

Riflettevo sugli ultimi giorni, sugli ultimi anni. Sulla persona che sono, su quella che avrei voluto essere e quella che intendo diventare. Nel tramonto dell’ultimo sole dell’anno ero finalmente sereno: avevo lasciato che le emozioni mi travolgessero, che spezzassero gli argini inondando ogni cosa. Nel cuore dell’ultimo sole avevo abbandonato ogni certezza lasciando passione e speranza finalmente libere di guidare una volontà implacabile. Il tempo dell’uomo mite è finito, è tempo che Birillo riapra i suoi occhi, alzi la testa e faccia la sua “magia”. Coloro che mi amano soffrono la mia immobilità: non posso più inseguire l’equilibrio, devo tornare ad essere l’ago della bilancia. Tempo di riscrivere le regole.

Un tramonto rosso calava sul Resegone accarezzando i miei pensieri nella quiete che precede la furia dei giorni futuri. Che pace in questi prati silenziosi che precipitano nella notte. Senza meta ho ripreso a camminare, seguendo segni del tempo, tracce di animali, pieghe della terra. “Che bello sarebbe trovare un grande sasso, un luogo magico dove rifugiarsi…” La mia era una speranza vana, una silenziosa preghiera allo spirito della montagna. Quasi stentavo a crederci: forse i miei occhi hanno davvero ritrovato la luce, forse come un tempo torneranno davvero a brillare nelle tenebre mostrandomi il mondo invisibile. Davanti a me, inatteso, ecco il grande sasso, il ramingo di granito giunto al nostro appuntamento attraverso i millenni: “Ciao, amico mio, non pensavo di trovarti…”

Alla base del grande sasso un piccolo buco nascosto dalle foglie di pungitopo. “Sotto il granito il tasso del Moregallo fa la sua tana!”. I tassi sono l’animale totemico della nostra sgangherata squadra e non lo sono per caso. Nello zaino che Sguero ha regalato a Bruna avevo infilato la frontale, così mi sono steso a terra per curiosare meglio la tana del mio animaletto preferito. Il pungitopo però nascondeva una storia inaspettata: il buco era davvero piccolo ma al suo interno la luce illuminava uno spazio inspiegabilmente molto ampio “Hey Tassi, vi siete dati da fare nello scavare laddentro!” Facendo attenzione a non ritrovarmi faccia a faccia con gli inquilini mi sono infilato strisciando nel piccolo buco, ignorando le carezze del pungitopo. Disteso per terra, spingendomi in avanti sui gomiti e spingendo con i piedi, mi sono imbattuto in un nuovo segreto.

Oltre il piccolo ingresso vi era una camera decisamente più grande, molto larga ed alta abbastanza da raddrizzare la schiena stando in ginocchio. I lati di della “stanza” erano formati da un muro di sassi a secco, impilati con cura come nessun tasso saprebbe fare. “Il vagabondo nasconde una stanza segreta, che posto strano il Moregallo…”. Tra le tante casotte che ho incontrato quella era di certo la più misteriosa, forse quella più dimenticata, sicuramente quella più segreta anche se perfettamente conservata.

Strisciando fuori dal buco, lasciandomi alle spalle gli insetti ed i nidi di ragno di quel mondo nascosto, ero affascinato dalla strana scoperta fatta. Il grande sasso, poi, è lavorato e ricco di prese: il lato verso Est è un’intenso strapiombo, ma quello verso Ovest è arrampicabile. Sfruttando una pianta ed una bella lama obliqua ho tracciato la prima via attraverso un’avvincente passaggio in aderenza. L’ultimo giorno dell’anno mi aveva donato un’ultimo segreto, il fiocco con cui addobbare nuove speranze: il ritorno della Furia Azzurra è iniziato…

Davide “Birillo” Valsecchi

 

Moregallo Est: Costone del Casotto

Moregallo Est: Costone del Casotto

Il versante Est del Moregallo è uno dei territori più selvaggi, impervi e misteriosi dell’Isola Senza Nome. Dal Crinale del Sasso Preguda, sopra la frazione di Parè, si estende lungo il lago verso nord per sette chilometri, fino alle moregge della valle Inferno. Dai duecento metri delle sponde del lago si innalza massiccio fino a toccare i milleduecento metri di quota. Un imponente gigante di sette chilometri di estensione per oltre mille metri di altezza, uno spazio enorme che, ad oggi, conta un unico sentiero ufficiale: il Cinquantesimo Osa. Una traccia recuperata negli anni ‘80 che sfila verso nord sotto l’imponente parete Est. Nel cuore del versante Est, tra i suoi “ripidissimi prati innervati da costole rocciose e canali interrotti da balze verticali”, non ci sono bolli in minio rosso, paline o indicazioni. No, in quel mondo verticale e vertiginoso il tempo sembra essersi congelato e chiunque decida di avventurarsi da quelle parti deve essere pronto ad affrontare un’esperienza travolgente, intensa e terribilmente impegnativa.

Con l’aiuto del “Guerra” ho ripercorso una di delle vecchie e quasi perdute tracce realizzate dai “vecchi” che in passato si spingevano sulla montagna. Qui voglio raccontarvi la nostra salita, tuttavia voglio essere chiaro: il mio non è un invito, anzi, se possibile spero di scoraggiarvi dal fare altrettanto. Per quasi un anno mi sono documentato, ho studiato le foto ed osservato con il binocolo il Moregallo dal San Martino. Non voglio invitarvi a salire, voglio solo riordinare le informazioni che ho fin qui raccolto. I pochi che hanno ripercorso quest’antica traccia hanno valutato la difficoltà complessiva dell’itinerario come T5+ (notare il più)

T5 Itinerario alpino impegnativo
Percorso: spesso senza traccia e con problemi di individuazione (boschi con rare tracce, zone aperte con orografia articolata senza tracce) Terreno: impegnativo con tratti accidentati esposti (es: pendii scivolosi, forre, canaletti rocciosi, placche inclinate, creste con brevi risalti) Singoli passi d’arrampicata fino al II grado. Requisiti: ottime capacità d’orientamento e di progressione senza traccia, sicurezza nella valutazione del terreno, buone conoscenze dell’ambiente alpino e conoscenze di base dell’impiego di piccozza e corda

Io ed il Guerra abbiamo affrontato la salita in condizioni perfette: giornata luminosa, terreno assolutamente asciutto, temperatura gradevole, assenza di vento (che sul Moregallo non è trascurabile). Guerra aveva già percorso quest’itinerario ed anche lui si dedica da molto tempo all’esplorazione del Moregallo. Entrambi siamo eccellenti “ravanatori”, praticamente delle “capre”. Tuttavia, nonostante tutto questo, riuscire ad orientarsi non è stato facile e spesso le difficoltà da superare, soprattutto per l’esposizione nel vuoto, si sono fatte sentire anche a due come noi. Sono mille metri di ragguardevole avventura in cui non ci si può concedere il lusso di sbagliare.

Dopo un caffè al RapaNui ci siamo messi in marcia sfilando lungo il lago verso la vecchia galleria, quella dove solitamente conduciamo le esercitazioni speleo. La traccia inizialmente sembra molto battuta perchè porta fino agli armi di calata speleo, poi si perde nell’erba verticale. Il tratto iniziale, tra il paglione che sovrasta la cava, è subito impegnativo ed esposto. Bisogna navigare d’intuito cercando di alzarsi fino al crinale roccioso. Spesso in passato mi sono chiesto come fosse possibile superare quel tratto roccioso: finalmente ho scoperto, con grande sorpresa, quale fosse il trucco. I “vecchi”, con un lavoro enorme, hanno realizzato un muro a secco che argina il canale creando una scala di sassi che rimonta il tratto di canale altrimenti repulsivo. “In tutto il territorio lecchese questa è una delle cose più incredibili che abbia visto realizzate in montagna!” Guerra, in piedi su quei gradini rocciosi, era felice di mostrarmi quell’insospettabile segreto del versante Est.

Superate le scale la traccia torna a farsi flebile ed è necessario orientarsi con grande attenzione lungo i canali erbosi che risalgono sfilando le verticali costole rocciose. Incredibilmente la roccia che affiora dai prati è di una bellezza straordinaria: clessidre, lame, increspature di calcare. Tentato da tanta bellezza ho risalito una di queste costole rocciose arrampicando in dulfer tra le lame che magicamente si susseguivano perfette lungo tutta la lunghezza. Che ironia: un luogo straordinario dove fare boulder, ma anche dove cadere da un sasso significa precipitare per centinaia di metri!

Per via dell’erba perdiamo la traccia e siamo costretti a risalire quaranta metri per un canale verticale, tuttavia questa è un’eventualità da mettere in conto visto quanto orientarsi sia davvero difficoltoso: ognuno è chiamato a definire la propria linea. (Seguite le tracce dei mufloni ma attenzione a non farvi trascinare nei loro passaggi esposti!)

Essendo in due avevamo la possibilità di studiare meglio il territorio circostante e, curiosando un po’ fuori dalle linee più evidenti, abbiamo trovato un paio di casotte nascoste dalla vegetazione ma ancora perfettamente conservate. Il tratto successivo perde leggermente di verticalità dando l’illusoria sensazione che sia diventato “facile”. In realtà il versante si abbatte leggermente (restando comunque esposto) e si possono seguire le piante che risalgono verso destra. Qui si raggiunge un’altro dei passaggi più impegnativi della salita: il grande traverso. Per quasi cento metri si taglia in orizzontale sul paglione un ripido prato che una decina di metri verso il basso muore all’improvviso nel vuoto. Un passaggio davvero delicato perchè il vuoto sottostante è soffocante ed il paglione sotto i piedi trasmette sensazioni agghiaccianti: con l’erba leggermente umida quel posto può essere una vera trappola.

Superato il traverso si rimonta ancora verso destra fino a raggiungere il crinale roccioso. Ora sotto di noi c’è il grande e buio canale che rimonta a sud della Parete del Tempo Perduto: ve lo garantisco, fa assolutamente paura! Il passaggio roccioso, visto l’ambiente circostante, inquieta anche gli animi più solidi ma fortunatamente, osservando con attenzione, si trova un passaggio sicuro che permette di scollinare raggiungendo un’altro verticale prato erboso. Anche in questo caso, visto il vuoto che attende alla fine dell’erba, la vista si riduce ad un quadratino piccolo piccolo che contiene, uno dopo l’altro, giusto i passi necessari per raggiungere la muraglia rocciosa sovrastante. Quel tratto, confesso, l’ho fatto a testa bassa e con i paraocchi perchè è davvero opprimente!

Finalmente ci si trova in un canale costeggiato a sinistra da una muraglia rocciosa che, in qualche modo, offre qualche rassicurante appiglio. Risalito il canale e superate le ultime roccette ci si immerge in una specie di “oasi” serena nel cuore della montagna. Il prato spiana e si riempie di Betulle. Nonostante tutto il versante sia in ombra l’oasi sembra spingersi abbastanza verso il lago da raccogliere il sole che scappa verso Ovest: un posto fantastico, intriso di una strana serenità quasi palpabile. Nel centro di questo prato vi è una casotta, perfettamente conservata, il cui tetto, incredibilmente, è formato da lastre perfette di serpentino. Chissà dove erano riusciti a trovare quella roccia, chissà quante cose sapevano su quel territorio e che noi oggi ignoriarmo! Dentro la casotta un vecchio piatto in ceramica fa mostra di se come una testimonianza archeologica. C’era vita quassù un tempo.

Quello che io chiamo il “Naso di Smutt” ci mostra finalmente il suo versante nord. Quella parete può competere in altezza con il Corno Orientale ma la consistenza della sua roccia è spaventosa: un gigante che si sgretola, un’invincibile ed inscalabile parete dell’Isola Senza Nome. “Dannazione che posti! Pensavo di conoscere il Moregallo, di averlo girato in lungo ed in largo. Ma ora, guardando tutto questo, mi rendo conto di conoscere il 2% di questa montagna. Che posti! Incredibile!” Chi mi conosce un po’ sa il tempo e le energie che ho speso per esplorare il Moregallo, tuttavia voglio essere onesto: il mio stupore davanti a quella vastità era quasi incontenibile. Il Moregallo è davvero un mondo a parte.

Alle spalle della casotta i due grandi canali della Est sembrano stringersi tra loro forzando nel mezzo una scogliera di roccia apparentemente insuperabile. In realtà la natura ci ha regalato una serie di rampe erbose che, come una zeta, permettono di rimontare il penultimo grande ostacolo roccioso. Poi, deviando in un traverso verso sinistra, si raggiunge finalmente il crinale della costa di Preguda e, finalmente, si può tirare il fiato accanto ad un rassicurante bollo colorato del sentiero che porta alla Bocchetta di Preguda.

Un viaggio, un viaggio incredibile attraverso mille metri densi di difficoltà sempre differenti. La sensazione dominante, quando finalmente si esce, è di non riuscire a contenere tutto quello che si è visto. Un’esperienza troppo ampia per essere assimilata completamente. Anche ora, mentre vi scrivo, sperimento nel ricordo questa difficoltà: non ci sono altre montagne o salite che mi abbiano fatto lo stesso effetto.

Mi raccomando, non crediate che possa bastare questa mia breve descrizione per riuscire a cavarvela sul versante Est. Questa è brutalmente la punta dell’Iceberg: non siate sciocchi nè avventati. Onestamente mi piacerebbe ritornarci ma è una salita che nemmeno io, che frequento spesso la zona, posso affrontare con troppa leggerezza. Forse con Mattia, ma non sono molti gli amici che coinvolgerei con serenità in una cosa simile. Anche perchè, parliamoci chiaro, chi sbaglia finisce nel lago e finisce parecchio male. I paragoni sono sempre errati, ma immaginatevi un Canalone Ovest al Grignone, ma di mille metri, da affrontare senza traccia e slegati sul paglione anziché sulla neve: questo, a grandi linee, è il tipo di impegno fisico e mentale richiesto …ammesso di non si sbagliare strada e di non infilarsi nei casini.

Tuttavia, ed anche Guerra è della mia idea, sebbene sia un posto assolutamente terrificante possiede al contempo una bellezza primordiale ed indomita come raramente mi sia capitato di incontrare. Un viaggio, gente, un vero viaggio!

Davide “Birillo” Valsecchi

Un ringraziamento speciale al “Guerra”: oltre ad avermi scortato in questo viaggio condivide la mia stessa passione per questa straordinaria montagna. Mos!

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