“Questa valle assomiglia incredibilmente alla Val di Mello”. Curioso come una frase possa rimanere scolpita nella mente per decenni. La pronunciò uno dei miei compagni di spedizione mentre risalivamo la verdeggiante valle di Mathan-Ther verso il lago Bhari, ai piedi della montagna di cinquemila metri che oggi porta il nome “Cima Asso”. Mi colpì perchè ero in Pakistan, ero ventenne, ma non avevo mai visto la Val di Mello, nonostante negli anni 90 fosse già decisamente famosa. A tremila metri di quota quella valle Pakistana era un giardino verde di pareti di granito, abitato solo da pastori che, vivendo in capanne di legno nell’ansa del fiume, non avevano mai visto nessuno straniero prima di allora.
Oggi, con una punta di tristezza, so che forse non rivedrò mai quella valle. La guerra in Afghanistan dopo l’11 Settembre ha travolto ogni cosa e la “mia” valle, che conduce ad un valico di confine, divenne un luogo di transito per i combattenti. Se un giorno riuscirò a tornarci sarà comunque impossibile rivivere quel luogo come un giardino incantato: uno spazio ignoto ed incontaminato dove, nel fiore speranzoso della giovinezza, la natura più intensa era cornice dell’incontro tra due culture.
La mia esperienza in val di Mello è davvero limitata, negli anni ho percorso solo due vie: “Il Risveglio di Kundalini” e “Luna Nascente”. Da perfetti villici allo sbaraglio proventienti dall’Isola Senza Nome, Mattia ed io abbiamo tirato in conserva vincolata il tiro dell’Occhio del Falco ed il successivo perchè avevamo “mancato” una sosta (…che strana coppia siamo alle volte!). Il granito era stata un’esperienza affascinante, a volte inspiegabilmente facile, a volte curiosamente difficile: nonostante sia il tipo di roccia più diffusa al mondo io non ne sono affatto un esperto.
Arrampicare nella valle era per noi un’esperienza particolare: non eravamo abituati ad incontrare altre cordate, ad avere gente a spasso che ti tiene d’occhio dal basso. Ai Corni eravamo l’unica cordata in parete, spesso gli unici umani in tutta la montagna. In Valle mi sentivo sempre osservato, sempre a confronto con gli altri, innervosito da un ambiente sconosciuto con cui non riuscivo a trovare intimità. Poi tanta strada da fare in macchina, parcheggio a pagamento, coda in superstrada al rientro: no, non ho mai considerato la Val di Mello un luogo a cui legarmi.
Tuttavia un legame, ancora tutto da comprendere, probabilmente esiste. Il destino, forse divertito da tutti questi dettagli, ha infatti rimescolato le sue carte e realizzato l’improbabile: Birillo al MelloBlocco!
Il MelloBlocco, per chi non lo sapesse, è per eccellenza il più importante e conosciuto raduno internazionale di bouldering in Italia, una manifestazione che si svolge annualmente Val di Mello dal 2004. Una competizione che ha visto protagonisti i nomi mondiali più prestigiosi di questa disciplina …ed ora arrivo io, Birillo, nostromo di una ciurma di pirati dal calcare dell’Isola Senza Nome! Davvero incredibile!
Ovviamente non parteciperò come atleta, di certo questo no, ma il mio punto di vista sarà curiosamente interno all’evento. Dopo avere presentato l’Albero dei Chiodi al ValmaStreetBlock l’iniziativa del progetto RockHound.it ha riscosso davvero molto interesse. Con un semplice trespolo in legno avevo portato in mostra oltre un centinaio di differenti chiodi d’arrampicata. Probabilmente la collezione contemporanea più completa in circolazione.
Giovanni Viganò del negozio Sherpa di Ronco Briantino, incuriosito (e forse anche divertito) da questa mia stravagante idea di mostrare chiodi ai “sassisti”, mi ha invitato a partecipare nel suo stand durante i quattro giorni della manifestazione. Giovanni è un attento appassionato di montagna ed in questi mesi mi ha aiutato davvero molto nel mio progetto: non posso che essergli ulteriormente grato!
Beh, “Chiodi al Melloblocco”: sulle prime può sembrare un’idea strana, anche se a pensarci bene è incredibilmente sensata. Forse il chiodo rappresenta l’oggetto capace di simboleggiare il punto di unione e di passaggio del “gioco arrampicata” sui grandi massi con il suo successivo evolversi sulle grandi pareti che abbracciano la valle. Ancora oggi, sulle vie classiche, è il chiodo ad essere testimone di una storia che ha caratterizzato l’evoluzione dell’arrampicata italiana. Credo che l’esempio più eclatante possano essere alcune “soste in ferro battuto” delle classiche più famose, gioielli della tradizione destinati a diventare eterni, intoccabili e monumentali.
Confesso di essere intimorito per alcuni aspetti, la folla ed il clamore di una competizione di tale portata non sono certo il mio ambiente, sono abbastanza certo che a tratti mi sentirò spaesato come un pesce fuor d’acqua. D’altro canto sono incuriosito ed intrigato dagli incontri che il mio albero di chiodi saprà attrarre, dalle storie e dai racconti che mi permetterà di raccogliere. Fantastico sui “giovani” ed i “vecchi” che potrebbero venire a curiosare attorno ai miei chiodi. Davvero non ho idea di cosa accadrà: sarà un’esperienza decisamente inconsueta!
Quindi se partecipate al MelloBlocco passate a cercarmi: una chiacchiera amica sarà per me un grande supporto e sarò ben felice di mostrarvi i miei tintinnanti stecchetti! Onestamente non credevo avrei mai scritto una cosa simile ma… ci vediamo in valle!
[Nota Marzo 2019] Nonostante le speranze il Gigante è rimasto sempre lo stesso e non sembra intenzionato ad abbandonare la propria smania per il trapano. Ciò che mi ha particolarmente infastidito (e stupito) è l’arroganza con cui si barrica sul piedistallo da cui crede di poter canzonare tutto e tutti: è convinto di saperla più lunga, ma la storia racconta che ne ha imbroccate davvero poche. Anzi, per certi versi sembra un distorta e speculare caricatura di ciò che maggiormente disprezza. Quindi questo sito ed il suo autore si dissociano dalle sue attività e dalle sue iniziative. Lascio questo testo a testimonianza di un utopia fallita e vi invito a leggere anche “Albonico Original ” e “Albonico e Brentaletto“. Il Gigante si è dimostrato un’assoluta delusione.
Uschione è una frazione di montagna del comune di Chiavenna, un antico borgo di case in sasso a 830 metri di quota. Su Internet avevo letto dell’UskionBlock, un’iniziativa di due giorni dedicata all’arrampicata dei sassi e delle pareti che circondano Uschione. A promuovere ed organizzare l’evento Andrea “il Gigante” Savonitto, un nome noto dell’arrampicata anni ‘70 di cui avevo molto sentito parlare ma che non avevo mai incontrato. Inoltre il “Circul di Uschione”, avvisando telefonicamente, dava la possibilità di pernottare gratuitamente in tenda. Così ho deciso di portare Bruna in gita, di scoprire luoghi nuovi e conoscere il Gigante.
Un sole caldo ed un cielo limpido sembravano adornare a festa l’antico borgo di uschione: case in sasso ben ristrutturate, fontane d’acqua fresca, un solitario campanile ed uno strepitoso panorama sulle montagne circostanti. Dopo un breve giretto esplorativo ci siamo presentati al “Circul”: birra e pranzo cucinati dal Gigante!
Alle spalle di Uschione, nel versante che scende verso Chiavenna, si trova un’antica frana che, nel 1618 travolse la vecchia Piuro. La frana rocciosa ha dato vita ad un dedalo di pareti e massi enormi che scendono verso valle, forre e cavità sotterranee che sinuose corrono tra i ciclopici massi ammassati. Grandi altezze e spazi verticali sovrastano uno scenario labirintico ed affascinante. Oltre il ciglio del precipizio la natura di Uschione si trasforma e si ammorbidisce in un bosco affollato di querce, grandi massi muschiosi, muretti a secco dimenticati e vecchi crotti. Io e Bruna ci siamo addentrati nel bosco curiosando divertiti tra le rocce e gli alberi.
“Ti va di arrampicare un po’?” La domanda di Bruna era inaspettata, per lo meno con tanto slancio. Un anno fa si è infatti infortunata mentre aprivamo una nuova via con Ivan Guerini sul Pizzo Molteni. Un grosso masso di calcare le è franato su un piede fratturandole l’alluce e creandole profonde lacerazioni da scoppio. Siamo rientrati senza l’aiuto del soccorso alpino ma guarire da quell’incidente è stato un percorso molto lungo e paziente. Da quel giorno non aveva più indossato le scarpette e si sentiva sempre incerta sulla roccia fragile.
Avevo con me la corda da 60 metri, gli imbraghi e le scarpette, ma solo qualche rinvio e qualche fettuccia. Speravo di proporle al massimo qualche tiro attrezzato, non avevo il materiale per “esplorare”. Tuttavia ero deciso a cogliere al volo l’occasione di rimettere Bruna in pista. Nel bosco abbiamo trovato una grande placca di serpentino che emerge tra gli alberi per una trentina di metri come una colata di cera sciolta. “Proviamo qui?”
La parte bassa della placca era piuttosto ripida e liscia, decisamente improteggibile anche con il materiale. Tuttavia nel centro della struttura rocciosa si alzava un diedrino invaso dalle foglie che, grazie ad un canale erboso sovrastante, permetteva di raggiungere abbastanza facilmente le piante sovrastanti. Mi sono legato la corda ed ho cominciato a salire con le scarpe da trekking. Il diedrino, sotto l’accumulo di foglie, era piacevolmente manigliato ed anche più semplice di quanto mi aspettassi. Un comodo terzo probabilmente. Le tre fettucce corte volevo tenerle per la sosta, ma mi scocciava non mettere nulla lungo tutto il tiro. Così ho cercato di accoppiare in modo decisamente improprio radici e rinvii. Giunto in cima alla struttura, trenta metri puliti di corda, un gruppetto di caprette mi guardava stupito: “Hey forestiero, ma non l’hai visto il sentiero che porta fin quassù?”. Come sempre le capre la sanno lunga!
Giro le mie fettuccie attorno ad una bella pianta, piazzo un moschettone ed inizio a calarmi da solo. A metà altezza, all’uscita del diedrino, mi trovo davanti Bruna che veniva su slegata con le scarpe da tennis. “Mi annoiavo a stare sotto…”. Accidenti Bergamo… Mi allongio ad un albero, la lego e le faccio sicura mentre risale in placca il resto del tiro.
Per un’oretta siamo rimasti sulla placca giocando, corda dall’alto, sui suoi passaggi più difficili. Bruna non aveva mai arrampicato sul quel tipo di roccia e, sebbene l’alluce le facesse male nelle scarpette strette (ancora macchiate di sangue) si stava divertendo a fare la ranocchia in placca. La roccia, solida e compatta, teneva lontano i fantasmi dei massi instabili.
Soddisfatti da quella réentrée abbiamo salutato la nostra placca e siamo andati a curiosare tra i sassi per Boulderisti indicati sulla cartina dell’UskionBlock. C’erano un sacco di ragazzi a spasso per il bosco e tutti intenti a studiare i passaggi più complessi. Io e Bruna, zaini in spalla, ci siamo limitati ad andare a zonzo rapiti dalla bellezza di quei boschi. Su e giù per i sassi sembravano due bambini guidati dalla fantasia. Diedrini, caminetti, placche, sassi incastrati, grotte: quel bosco è quasi incantato!
La sera, rientrati al Circolo ci attendeva la cena e la presentazione del nuovo libro di Franco Perlotto, un’altra figura di primo piano nell’arrampicata nazionale ed internazionale degli anni 70/80. Curiosamente siamo finiti allo stesso tavolo e gomito a gomito abbiamo chiacchierato a lungo. Sebbene sua moglie fosse di Lecco non ha mai arrampicato ai Corni di Canzo (gliel’ho chiesto!), in compenso ha però scalato le pareti più note al mondo, spesso in solitaria, ed incontrato i personaggi più importanti dell’epoca. Ancora oggi, come scrittore e giornalista, conosce i nomi più famosi dell’arrampicata contemporanea. Sentire i suoi racconti su Cassin, Messner, Kukuczka, Casarotto è stato un viaggio nel viaggio. “Perchè negli anni 80 Manolo arrampicava sempre da solo? Perchè il suo orologio spaccava il secondo!”.
Durante la serata, oltre alla sua storia come arrampicatore, ci ha mostrato le sue numerose missioni umanitarie condotte nel mondo: Sri Lanka, Ciad, Bosnia, Ruanda, Sudan, Congo, Amazzonia e Afghanistan. Sebbene oggi si sia “ritirato” a gestire il difficile Rifugio Boccalatte sulle Grandes Jorasses (un vero nido d’aquila) era palpabile come fosse quasi più orgoglioso del suo operato come cooperante internazionale che del suo passato come indiscutibile fuoriclasse dell’arrampicata. Una persona piacevolmente speciale.
La notte in tenda è trascorsa serena senza che il vento, che fischiava tra gli alberi, ci disturbasse. Al mattino, dopo una buona colazione, il Gigante mi ha indicato uno dei luoghi più panoramici della zona: una piccolo bosco di querce a sbalzo su un salto di roccia dirimpetto alle celebri cascate dell’Acquafragia. Il luogo ideale dove poter fare qualche foto all’albero dei chiodi.
Il pomeriggio, dopo l’ennesima abbuffata al Circul, ci siamo sdraiati sul prato assistendo al piccolo concerto musicale del gruppo dei “The Loner”. Rustisciata, birra, sole, musica: il mio pomeriggio è stato decisamente rilassante! Prima del tramonto insieme a Giacomo, nuovo membro “ad honorem” dei Badgers, abbiamo fatto un paio di tiri sulle placchette attrezzate dal Gigante.
Voi ormai mi conoscete, sono troppo pigro e ribelle per arrampicare tra un paio di spit: sebbene possa andarci in bici (per di più in piano!) mi spingo raramente fino al Pozzo di Civate e praticamente mai alle falesie di Galbiate. Quindi non sono io quello a cui chiedere se vale la pena di andare fino a Chiavenna per poi salire ad Uschione in cerca di pareti attrezzate. Tuttavia posso dirvi che la bellezza di quel posto mi ha davvero colpito e che quasi certamente ci porterò la squadra dei Tassi per passare qualche week-end tutti insieme. Per curiosare tra i misteri e le meraviglie di quel luogo dove la roccia e l’ambiente sono così diversi dall’Isola. Voglio esplorare la grande frana, radunare tutti i “friend” della nostra squadra e giocare tutti insieme sulle spettacolare fessure verticali che abbiamo adocchiato. Con TeoBrex ed il reparto speleo voglio dare un occhiata alle forre e ai “buchi”. Voglio divertirmi, fare pratica con i ragazzi sui sassi e sulle piccole pareti, fantasticando poi sulle “cose” più grosse che attendono lì vicino.
Che vi piaccia o meno arrampicare credo che il “Circul” ed il Borgo di Uschione meritino decisamente una visita (anche la cucina del Gigante merita qualche strappo alla dieta!). «Tutta la zona a nord di Uschione è disseminata di sassi, i blocchi del monte che ha cancellato l’antica Piuro nel 1618. Creeremo dei percorsi su queste pareti, sia a livello di bouldering, sia come via sportive. Punteremo sulle vie di grado medio-basso per andare incontro alle esigenze di sezioni del Cai e scuole d’alpinismo» Questo sembra essere il proposito di Andrea Savonitto.
Il Gigante mi ha positivamente colpito e mi piace il suo intento. Spero che il suo progetto di “valorizzazione” riesca a trovare il giusto equilibrio, a sottrarsi alle logiche di “sfruttamento” che hanno visto appassire valli e pareti celebri. Abbiamo bisogno di luoghi autentici ed amichevoli che sappiano essere un punto di riferimento pur conservando magia, meraviglia e mistero. Credo che tutti dovremmo aiutarlo in questo senso: la mia speranza è che nel futuro la leggenda di Uschione racconti di un Gigante buono che si è preso amorevole cura di un santuario intatto di roccia, la culla di una generazione nuova di arrampicatori liberi.
Presentarsi ad una competizione di bouldering urbano con una collezione di 110 differenti chiodi d’arrampicata può sembrare un’idea piuttosto bislacca, specie il primo aprile! Si è portati a credere che la maggior parte dei “sassisti” probabilmente non abbia mai piantato un chiodo ed abbia un’esperienza limitata nell’arrampicata in ambiente o nell’alpinismo in generale. Certo, questo probabilmente è vero, ma non dobbiamo dimenticare che ciò che più spesso ci attrae è soprattutto ciò che ancora non conosciamo. Quello che spesso viene interpretato come “mancanza di interesse” è spesso semplicemente “mancanza di contatto”. Spesso le opportunità inattese sono la scintilla di una passione ancora da scoprire: lo stesso è accaduto per i giovani sassisti!
Grazie all’aiuto di mio fratello Keko, di TeoBrex e Josef, abbiamo montato il nostro “albero dei chiodi” fin dal mattino presto. La nostra piccola installazione, accanto a stand più grandi e blasonati, appariva come una curiosa eccezione ancor prima di comprendere che si trattasse di chiodi. Tre pali di legno per formare una “tenda indiana” coperta di “stachetti” appesi: qualcosa che mi ricorda gli accampamenti degli indiani d’america o i pesci lasciati essiccare al sole nel profondo e vichingo nord Europa.
Montata l’installazione non restava che attendere: complice il sole d’Aprile mi sono sdraiato sull’erba del campo a poca distanza dai miei chiodi. Mi sono messo comodo, avvolpacchiato nel caldo abbraccio della primavera e delle mie montagne. Mi sono limitato ad osservare ciò che accadeva.
I giovani boulderisti, con il loro slang, il loro abbigliamento macchiato di magnesite e il crash-pad sulle spalle, si avvicinavano incuriositi e spavaldi a quello strano trespolo abbandonato a se stesso. Osservavano i chiodi, affascinati dai più strani e piccoli, discutendo tra loro: qualcuno aveva visto quelli del padre, qualcun altro aveva provato (fallendo miseramente) anche a costruirseli al lavoro; la maggior parte non aveva mai avuto l’occasione di averne qualcuno tra le mani, tutti erano stupiti e sorpresi dal loro caratteristico tintinnio.
Oltre ai giovani anche gli “anziani”, figure storiche dell’alpinismo classico sull’Isola Senza Nome, si sono avvicinati al trespolo. Per loro, che non hanno nessuna titubanza giovanile, scattavo in piedi andando ad ascoltare meglio. Tutti quei chiodi moderni, tra loro tanto diversi, rievocavano nella loro memoria ricordi di tempi eroici: “Segna giù il mio numero: chiamami! Una sera vieni a trovarmi e ti mostro tutti i miei vecchi chiodi ed i cunei che ho tenuto da parte.” Anche questo è parte del progetto RockHound.
Dopo la gara i boulderisti erano esausti ed entusiasti della giornata, per loro iniziava la festa mentre i più forti si preparavano alla finalissima. I giudici di gara, dopo aver trascorso il pomeriggio tra i blocchi, finalmente si concedevano una birretta ed una chiacchiera all’angolo dei chiodi di cui tanto avevano sentito parlare. Già, perché la maggior parte dei giudici era composta da alpinisti, arrampicatori, istruttori e ravanatori hard-core. Curiosamente il trespolo è diventato una specie di falò attorno a cui stringersi per raccontare le proprie esperienze e preferenze sui chiodi. Angolari, universali, spaziando dalle pareti di casa, al Bianco, alle Dolomiti e a tutto l’arco alpino (e non solo!).
Entro sera avevo bevuto un fiume di birra, ma ad inebriarmi erano stati soprattutto i racconti e gli incontri di quella giornata. L’esperimento “Albero dei Chiodi” si è dimostrato un successo: alcuni aspetti possono essere migliorati, ma ha centrato tutti gli obiettivi sperati.
Voglio quindi ringraziare gli amici, tutti giovanissimi, che hanno realizzato la terza edizione del ValmaStreetBlock (con oltre 270 iscritti!!) e che hanno concesso spazio alle mie strambe idee. Gionata Ruberto, Mario Isacchi, Rubén Valsecchi, Luca Brivio, Davide Castelnuovo, Andrea Rusconi e Alberto Valli e tutti gli oltre cinquanta volontari: grazie!
Nel cuore della Valle Madre, sotto lo sguardo della roccia dell’Isola, prende vita il “PitOnTour”, una strana avventura ancora tutta da scrivere ed esplorare. Ora non mi resta che infilare un centinaio di chiodi nello zaino, fissare i pali come un paio di sci, e scoprire fin dove mi condurrà questo nuovo viaggio, scoprire con quali montagne ascolterò i prossimi racconti attorno all’albero dei chiodi.
In questi mesi mi sono tuffato in uno “progetto alla Birillo”: la solita idea stramboide che, giorno dopo giorno, prende forma e consistenza diventando inaspettatamente realtà. Per questo motivo sono stato a Monaco, ho passato ore a scrivere email, ho rinunciato nelle giornate di sole ad andare in montagna per accamparmi con la macchina fotografica sul terrazzo di casa. Ora però è finalmente giunto il momento di raccontarvi questa storia!
Tutto è cominciato a Gennaio, leggevo la relazione di una nuova via d’arrampicata aperta da dei promettenti ed arrembanti giovani della Valtellina. Esiste infatti una nuova generazione di alpinisti, ancora poco visibile e sfuggente, che con passione ed impegno “scrive ed arrampica chiodi e martello” con lo stesso slancio romantico ed ardito dei tempi che furono. Uno di questi giovani, nei commenti alla propria via, chiedeva ai ripetitori di non “rubare” i chiodi che avevano lasciato in parete: avevano dovuto “autotassarsi” per riuscire a comprarli ed ora erano in bolletta. Confesso che questa richiesta, per quanto possa apparire banale, mi ha molto colpito.
Lo scorso anno, nonostante l’incidente al piede di Bruna ed il cambio di lavoro, ho aperto numerose nuove vie: circa 18 con Ivan Guerini, 5 con Joseph Prina ed una con Mattia Ricci. Certo, oggi la parte del leone la fanno Friends (Cams) e Nats, ma un buon chiodo resta un buon chiodo ed una buona sosta a chiodi “canterini” è un toccasana per l’anima. Spesso i chiodi riesci a recuperarli, magari storti e da raddrizzare, ma a volte li si lascia nella roccia per testimonianza, per coloro che passeranno dopo di noi e a volte semplicemente perché è impossibile toglierli senza fare troppi danni. Per questo motivo i chiodi all’imbrago calano in fretta e vanno altrettanto spesso sostituiti: dato che oggigiorno costano dai 10 ai 15 euro cadauno, spesso sono una voce di spesa non trascurabile nelle disponibilità, il più delle volte scarse, di un alpinista “HardCore” vecchio stile.
Ragazzi giovani, che faticosamente conquistano esperienza, stanno aprendo nuove vie: hanno coraggiosamente abbandonato la sterile consuetudine del trapano percorrendo strade moderne con strumenti ed intenti antichi. Mi disturba pensare che questi ragazzi nella loro “azione” possano trovarsi in difficoltà o prendere rischi eccessivi (o decisioni sbagliate) perché in dubbio sul “sacrificare un chiodo”. Il costo di un pezzo d’acciaio ribattuto diventa l’ago della bilancia per il loro futuro e per la rinascita di un’idea indomita. Non è accettabile: è troppo prezioso quello che stanno facendo e quello che possono fare più avanti. Il loro problema è il mio stesso problema, ma io ho qualche anno di esperienza in più, una mente creativa ed un’attitudine decisamente non convenzionale: dovevo fare qualcosa per risolvere un’esigenza comune!
Nei negozi specializzati, anche nei migliori, i chiodi sono spesso in un angolo, un angolo buio dove regna una consuetudine: prezzi alti e poca scelta. Il recente libro di Fabio Elli, “Intelligenza Artificiale”, mi ha mostrato due cose: la prima è che tutt’oggi esiste un grande ma inespresso interesse per i chiodi d’arrampicata, la seconda è che esiste una varietà di modelli, costruttori e forme spesso insospettabile. Guardando una foto in bianco e nero scattata da Tom Frost a Royal Robbins davanti ad una parata di chiodi forgiati da Yvon Chouinard ho avuto un’illuminazione: “Fallo Birillo! Fallo!” Il mio primo obiettivo era riuscire a realizzare una fotografia in stile “Camp4” con il meglio dei chiodi attualmente in produzione.
Mi sono attaccato alla tastiera ed ho cominciato a scrivere e fare telefonate. Grazie all’aiuto di Giovanni di SherpaShop, sono arrivato a Monaco fin dentro gli stand dei più importanti costruttori mondiali presenti ad Ispo2017: “Ma davvero vuoi vendere chiodi?” era la stupita domanda con cui mi accoglievano. Improvvisarmi “mercante di chiodi” è ciò che mi ha permesso di entrare nel “tempio” ed il primo risultato è stato già di per sé straordinario: la maggior parte dei produttori mondiali ha deciso di “sponsorizzare” la mia idea “donadomi” il proprio campionario di “Piton”. In questo modo è stato possibile realizzare il primo museo contemporaneo ed internazionale di chiodi da arrampicata!
Così è nato RockHound.it: il sito è ancora incompleto, le foto ed i filmati realizzati sono provvisori ma la collezione alla base di questo “museo” ormai è quasi completa. I chiodi, spesso visti solo sui cataloghi, ora sono sul mio tavolo: posso toccarli, soppesarli e rigirarli tra le mani. La volontà di un folle ha donato ad un’ idea la solidità e la consistenza dell’acciaio: non male come inizio!!
Ci sono i chiodi della Camp-Cassin, della Kong, della Climbing Technology, della Petzl e della BlueIce dalla Francia, della Stubai dall’Austria, della SingingRock dalla Cecoslovacchia, della Kop de Gas dalla Spagna. A breve spero di coinvolgere anche Black Diamond dagli Stati Uniti, l’italiana Grivel e Krukonogi dalla Russia.
Ci vorranno ancora mesi prima che sia possibile trasformare il Museo in un Negozio, perché riesca a creare le giuste condizioni ed opportunità, perché il “mercante di chiodi” diventi una risorsa a livello internazionale per quella nicchia di alpinisti che vive la montagna “chiodi e martello”. Per riuscire ad abbassare i prezzi bisogna vendere di più, vendere in modo diverso, bisogna saper ispirare, attingere a cultura e creatività. Una sacco di lavoro con la consapevolezza che tutta questa faccenda non mi arricchirà di certo, anzi, bisognerà fare attenzione a non perderci troppo.
Ma in tutto questo c’è una consapevolezza che mi anima e mi rincuora: parlare di chiodi significa parlare di montagna. L’aspetto culturale di tutta la cosa è infatti terribilmente affascinante! La prima reazione è infatti sempre la stessa: io mostro il mio centinaio di chiodi moderni, in risposta mi viene mostrata una piccola ma inestimabile collezione di chiodi storici. Potrà sembrare sciocco, ma un chiodo è un pezzo di metallo che spesso conserva la storia di chi lo ha piantato, di chi lo ha usato, di chi lo ha trovato. Reliquie del passato che incontrano speranze del futuro: ce n’è abbastanza per catturare la mia fantasia e canalizzare il mio entusiasmo!
Per questo, sebbene il sito tanto quanto la collezione siano ancora incompleti, ho voluto forzare le tappe e presentare il progetto in concomitanza con il ValmaStreetBlock, uno degli eventi più importanti di Valmadrera, capitale dell’Isola senza Nome.
Sabato 1° Aprile si terrà la terza edizione della locale competizione di arrampicata urbana ed anche RockHound parteciperà all’iniziativa. Voglio che le persone abbiamo la possibilità di vedere e toccare i chiodi, voglio che ascoltino il loro tintinnio quando picchiano tra di loro, possa sentirne il peso ed osservarne la forma. Per questo motivo ho realizzato una specie di “trespolo indiano” con cui esporre al pubblico l’intera collezione. Sabato, RockHound (Birillo) ed i suoi chiodi, saranno presenti al ValmaStreetBlock presso l’area feste di via Casnedi a Valmadrera.
Il “trespolo”, che abbiamo battezzato come “L’albero dei chiodi”, è stato progettato e realizzato perchè potesse essere leggero, smontabile e trasportabile in uno zaino come un paio di sci. Simbolicamente Valmadrera sarà la prima tappa di un Tour, il “PitOnTour”, che spero coinvolga Sedi Cai, Club di arrampicata ma soprattutto rifugi alpini. Certo, solo ad uno squinternato come me può apparire affascinante l’idea di caricarsi in spalla 30kg di materiali e salire in cima ad una montagna per mostrare un trespolo tintinnante di chiodi, tuttavia questa è la mia pulsante fantasia per l’estate. Sarà una grande avventura e sono certo che faremo grandi incontri! Anzi, se trovassi un asinello sarei persino tentato di attraversare a tappe le Alpi (e sapete quanto una cosa del genere potrebbe tentarmi!)
Per tutti questi motivi voglio ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato in questa “strana” avventura e tutti coloro che decideranno di farlo nel futuro. Ringrazio soprattutto i Badgers, i membri della mia squadra, che in questo periodo hanno dovuto sopportare un “capobanda” piuttosto distratto! Vi invito a visitare il sito, www.rockhound.it, e a partecipare al ValmaStreetBlock, una bellissima festa ai piedi delle montagne dell’Isola senza Nome. Vi aspetto, spero di vedervi felici e numerosi!
“Birillo vieni a Monaco in fiera?” La domanda di Josef era arrivata a bruciapelo, ma l’idea di andare in Germania era intrigante: “Certo!”. L’ISPO è la più importante e storica fiera dedicata alle aziende ed ai prodotti sportivi, un’istituzione cha ha avuto inizio nel 1971 e che oggi riunisce in 16 padiglioni oltre 2600 marchi provenienti da 120 paesi. Un evento enorme dove è possibile confrontarsi con qualsiasi attività sportiva.
Per accedere alla fiera bisogna essere un operatore del settore, perchè io potessi entrare c’è quindi voluto l’aiuto e l’invito di Giovanni Viganò, fondatore del negozio “Sherpa” di Ronco Briantino. Giovanni ha collaborato molto spesso con Josef per i suoi corsi Yoga ed è stato ben felice di prendermi in squadra per la trasferta a Monaco. Con noi anche Jacopo, membro dell’associazione “Vertical-Project Guide Alpine”.
Partenza alle quattro del mattino e via, destinazione Monaco! Giunti alla fiera tutto è apparso subito colossale ed ero stupefatto della quantità di persone e realtà che operano nel mondo sportivo. Un’industria dinamica capace di unire tecnica, creatività e passione. I padiglioni interamente dedicati alla montagna e all’outdoor erano tre: e vi garantisco che c’era veramente di tutto!Guardandomi intorno, osservando le innovazioni tecnologiche che venivano presentate, mi sono sentito terribilmente “vintage”. Materiali di cui nemmeno conoscevo l’esistenza, forme e progetti di cui non sospettavo l’esigenza. Il mio equipaggiamento, spesso raffazzonato e cronicamente rattoppato, sembra davvero poca cosa se paragonato al meglio della modernità. “Combatto con quello che ho, combatto con quello che sono”: recitavo il mio mantra mentre mi sentivo uno di quei bambini delle favole che, povero e mendicante, osserva sotto la neve le vetrine appannate di giocattoli e dolciumi.
Ascoltavo le meraviglie della tecnica e ripensavo alle parole di Messner scritte ormai decenni fa: «In tutto il mondo, alpinismo ed arrampicata sono più costosi della maggior parte delle altre discipline sportive. Ma i protagonisti sono poveri. La commercializzazione della passione alpinistica infatti è inversamente proporzionale alle spese».
Nella mia mente due visioni opposte: da un lato l’avvocato benestante di mezza età che, indossando un equipaggiamento da oltre duemila euro, risale con le ciaspole tra i boschi accanto alle piste da sci; dall’altra parte uno studente universitario che, incrodato in un impietoso e sconosciuto “couloir” in ombra, insegue passione e coraggio con i mezzi e l’equipaggiamento di risulta che è riuscito a mettere insieme. L’avvocato, che giustamente può permetterselo, sceglie in base alle proprie esigenze ciò che trova più confortevole, dando al contempo un supporto inestimabile alla ricerca ed allo sviluppo di questi prodotti. L’universitario, il giovane squattrinato, l’appassionato convinto, è invece la colonna portante su cui si basa lo spirito alpinistico: in qualche modo si deve trovare il modo di dargli accesso alla tecnologia, se non quella di punta quantomeno a quella consolidata e resa standard nel tempo.
“Old but Gold”: le aziende, o forse anche i negozi, dovrebbero strutturare i propri prodotti in modo che esistano “Tier Entry Level” con cui equipaggiare in modo solido ma economico chi, in ristrettezza di mezzi, pratica un certo tipo di alpinismo “intenso”. Magari con tecnologie e modelli vecchi ormai di cinque anni, la cui produzione possa essere ormai ammortizzata, ma la cui efficacia e funzionalità sia ormai comprovata. Questi “tier”, intesi come setup completi per uno specifico ambiente (vestiario, materiale tecnico, ecc), potrebbero al contempo diventare le linee guida per i principianti, coloro che con il tempo e l’esperienza potranno poi integrare con elementi via via di fascia sempre superiore.
L’ultima volta che India sono salito oltre i seimila metri l’ho fatto comprando il mio equipaggiamento al mercatino nepalese della roba usata: si è congelato praticamente tutto e per poco non ho perso le dita. Una stupidaggine quasi imperdonabile che però mi ha insegnato molto. Per questo credo debba esistere un equipaggiamento base, essenziale, spartano ed economico, che possa fornire a tutti quantomeno l’accesso agli “strumenti base” con cui fare alpinismo.
Inevitabilmente un alpinista quando compra guarda prima il prezzo e poi sceglie un po’ a naso ed un po’ a fiducia: può spendere anche cifre per lui importanti, perché questo influisce sia sulla sue probabilità di riuscita che sulla sua incolumità, ma non può permettersi di sbagliare nella scelta. Deve essere aiutato in questo: se compra un pezzo inadatto o inefficace rischia di tirarselo dietro per anni, con tutte le difficoltà ed i rischi che ne conseguono. Io credo che questo sia un supporto fondamentale che aziende e negozi devono riuscire ad offrire se non vogliamo che siano le possibilità economiche il primo discriminante per le possibilità alpinistiche. Forse a volte è meglio un uniforme, magari anche brutta a vedersi, che un’accozzaglia pericolosa di stracci e ferraglia.
Devo però dirvi che gli operatori del settore si sono dimostrati di gran lunga molto più disponibili ed “appassionati” di quanto si potrebbe supporre. In questi mesi sto conducendo una piccola ricerca, un progetto ancora in fase embrionale di cui spero di parlavi e coinvolgervi a brevissimo. Inseguendo questa mia nuova “esplorazione” sono entrato in contatto con buona parte dei costruttori nazionali ed internazionali di materiale da arrampicata (ed è anche il motivo per cui Josef e Giovanni mi hanno aiutato invitandomi ad ISPO). A Monaco, ogni volta che mi presentavo ad uno degli stand, la domanda più frequente dopo aver sentito il mio nome era questa: “Ma tu allora sei quello dei chiodi?” Ogni volta era assolutamente divertente, ma non voglio aggiungervi altro perché rischierei di raccontarvi troppo 😉
Tra gli stand si è poi potuto fare incontri davvero interessanti. C’era Annalisa Fioretti, medico del pronto soccorso ed alpinista himalayana, che ha saputo distinguersi per le sue salite ma anche per l’impegno, la resistenza e la capacità con cui ha prestato i primi soccorsi medici al campo base dell’Everest quando nel 2015 è stato travolto dal terremoto e dalla conseguente terribile valanga. Thomas Huber, il più anziano dei due celebri fratelli Huber che recentemente ha compiuto la prima ripetizione di “Metanoia” sull’Eiger: la tentazione di spacciarmi per suo fratello Alex in una foto insieme era fortissima ma Thomas, comprensibilmente, era sempre assediato dai giornalisti. Gerlinde Kaltenbrunner, che oltre a possedere un luminoso sorriso è la prima donna al mondo ad aver salito tutti e quattordici gli ottomila senza l’uso di ossigeno supplementare. Glen Plake, un faraone munito di Crestone e sci!
Oltre ai personaggi famosi c’erano anche gli amici, ognuno al proprio stand: Gigi che Sbatta, Scienza, Carletto e “Last but not least” anche Davide “Berna” Bernasconi: a cui sono davvero affezionato e la cui storia ha i contorni della favola. Davide infatti costruisce tavole da snowboard artigianali: le sempre più famose Coméra, omonime dal canalone del Resegone disceso dagli AsenPark (tra cui proprio Davide) nel 2013. In questi anni ha speso impegno e passione per raggiungere risultati sempre più importanti tanto da essere invitato da una ditta americana di attacchi perché esponesse le sue tavole a Monaco. Una cenerentola con i suoi strepitosi gioielli tra i giganti del mondo: davvero bravo Davide, siamo davvero orgogliosi e felici per te! MOS!
La fiera era gremita di fotografi e video operatori professionisti, quindi è inutile che vi mostri le mie foto sgranate e mosse dell’evento. Credo che sul sito dell’ISPO sia possibile vedere buona parte di quanto presentato alla fiera e soprattutto i vari premi ed i riconoscimenti assegnati.
Più interessante forse è raccontarvi l’abbuffata fatta in centro Monaco alla storica birreria della Paulaner. Un colossale boccale da litro da ingaggiare a due mani ed un terrificante stinco di maiale lesso accompagnato da purè di patate e crauti: un’abbuffata epocale! Quattro ore più tardi però, nel cuore della notte all’ostello in cui soggiornavamo, mi sono svegliato di soprassalto con un dolore tremendo appena sotto le costole sul fianco sinistro. Da sdraiato non riuscivo più a respirare, letteralmente soffocavo. Così, avvolto nel sacco a pelo e stravolto dal sonno, le ho provate tutte ed alla fine ho dovuto rassegnarmi a dormire seduto sul letto con le gambe incrociate e le spalle appoggiate al muro: sembravo un pazzo maniaco che russava appollaiato in cima ad un letto a castello! Birillo non si smentisce neppure in trasferta…
Detto questo non posso che ringraziare ancora Giovanni per l’opportunità che mi ha offerto, perchè con con la sua grande esperienza ed i suoi decennali contatti mi ha aiutato ad introdurre il mio piccolo progetto nel vivo della fiera di settore più importante al mondo: davvero grazie Giò!!
La forgia è uno strumento affascinante, ricordo di aver passato interi pomeriggi ad osservare Enzo quando trafficava nel suo laboratorio dietro casa realizzando pezzi unici in ferro battuto. Anche in Tanzania, quando siamo andati a curiosare tra i fabbri africani, era incredibile come i locali riuscissero a lavorare il metallo con precisione nonostante utilizzassero strumenti terribilmente grezzi e rudimentali.
Curiosamente, nonostante i dettami di Preuss, l’alpinismo è sempre stato legato alle intuizioni dei fabbri e alla loro ferraglia. All’inizio non fu, come si potrebbe pensare, per il chiodo, il Piton, o per il moschettone, no, i primi fabbri di montagna crearono infatti picozze e ramponi. Anzi, i primi rudimentali ramponi venivano utilizzati ormai da secoli dai contadini: in estate per falciare l’erba dei pendii più ripidi ed in inverno per frenare la slitta con cui si portava a valle la legna.
Gli strumenti alpinistici che conosciamo oggi hanno spesso un’origine tanto nobile quanto umile, sono il frutto di una ricerca lenta e spesso geniale che si perde nel tempo.
In questo periodo sto svolgendo una ricerca sui chiodi da arrampicata e per questo motivo sto “esplorando” il vasto mondo dei produttori, delle aziende che oggi progettano e realizzano la maggior parte delle cose che comunemente abbiamo attaccato all’imbrago. Inevitabilmente ho fatto qualche piccola ricerca anche sulla loro storia, sui curiosi aneddoti che hanno caratterizzato la loro fondazione, la loro evoluzione. Spesso l’idea di un’azienda è stata capace di cambiare il mondo dell’arrampicata e dell’alpinismo, altrettanto spesso le intuizioni degli alpinisti e degli arrampicatori hanno cambiato radicalmente il destino di queste aziende.
Così, sperando possa interessarvi, ecco qui alcuni dei miei appunti. Ho riportato qui, in ordine cronologico, le aziende che nella loro storia hanno prodotto chiodi o protezioni veloci (Nut, Friend). Un elenco certamente incompleto ma che ben rappresenta un’evoluzione prossima a sfiora i 200 anni.
1818 Grivel (ITA)
I Grivel, famiglia di fabbri stabilitisi a Courmayeur, entrarono in contatto con la storia dell’alpinismo modificato la loro produzione di attrezzi agricoli, di ferri da cavallo e di chiodi da scarpe, nella piccola officina ai piedi del Monte Bianco, nella località chiamata “Les Forges”. Modificarono i picconi che già producevano in un nuovo attrezzo, più leggero e più elegante, che i “Signori” utilizzano per le loro “inutili” scorribande sulle cime ricoperte di ghiacci. Così, senza un vero inventore nacque la piccozza. Nel 1909, la produzione del primo vero rampone moderno che, su disegno dell’ingegnere inglese Oskar Eckenstein, usò il miglior acciaio che un fabbro di montagna potesse trovare: quello recuperato dalle rotaie ferroviarie, tagliate a fette e forgiate a mano. Oggi tutto avviene più industrialmente, ma il disegno di base del rampone non è fondamentalmente cambiato se non con l’invenzione delle due punte anteriori fatta da Laurent Grivel nel 1932.
1830 Kong Bonaiti (ITA)
Le origini di Kong partono da lontano, esattamente nel 1830 in un’officina meccanica situata nel lecchese. ai piedi delle prealpi, dove Giuseppe Bonaiti ha dato inizio alla sua attività. I suoi “moschettoni” diventano un punto fisso per coloro che appendono la propria vita scalando le vette. Nel 1977 l’azienda Bonaiti cambia nome in Kong, ma l’impronta rimane sempre la stessa.
1862 Mammuth (CH)
Dopo aver completato il suo apprendistato di tre anni come costruttore di corde il cotone, Kaspar Tanner realizza la sua prima corda in Dintikon. Più tardi si sposta a Lenzburg dove ottiene il permesso di utilizzare un adiacente strada pubblica per stendere ad asciugare le proprie corde. Quando il figlio Oscar prende parte all’azienda del padre realizzano un nuovo capannone dove stendere le corde a dispetto delle condizioni metereologiche. Inizia la produzione industriale di corde che nel 1943 porterà al marchi Mammuth, scelto per simboleggiare forza e resistenza.
1863 EDELRID (GER)
Fondata da Giulio Edelmann e Carl Ridder nel 1863. In un primo momento, la società ha fatto trecce e corde. Giulio Edelmann era un venditore ed un alpinista, Carl Ridder un tecnico, che si è specializzato nelle macchine da intreccio. Nel 1953 EDELRID ha inventato la corda Kernmantel (un core interno protetto da una calza esterna) rivoluzionando il mondo dell’arrampicata. Materiali e tecniche di produzione sono stati costantemente migliorati ed 11 anni dopo, EDELRID prodotto una corda in grado di resistere a più cadute – il precursore della moderna corda dinamica.
1889 CAMP Cassin (ITA)
La storia di C.A.M.P. (Concezione Articoli Montagna Premana), cominciata nel 1889 in una piccola officina di Premana, sulle montagne lecchesi, coi lavori in ferro battuto di Nicola Codega. La bottega è poi passata al figlio Antonio, artefice delle famose piccozze per il corpo degli alpini. Nel 1997 acquisiscono la CASSIN, l’azienda sotto la guida del leggendario Riccardo Cassin produceva chiodi e materiale d’arrampicata che egli stesso utilizzava nelle sue spedizioni.
1930 Petzl (FR)
All’inizio degli anni 1930, Fernand Petzl scopre la speleologia. Modellatore meccanico di formazione, progetta presto nuove tecniche per questa attività ancora rudimentale. Nel laboratorio, dopo il lavoro, comincia a fabbricare dei pezzi con le proprie mani, sistemi di assicurazione per lui ed i suoi amici speleologi. Il suo obiettivo: poter superare, la domenica successiva, ostacoli sotterranei in gallerie fino ad allora inaccessibili. Con il suo amico Pierre Chevalier, inventa e mette a punto, negli anni 1940, nuovi strumenti di progressione. Il loro incontro è decisivo. Con lui, esplora i primi diciassette chilometri di gallerie sotterranee del Dent de Crolles e stabilisce un primo record mondiale di profondità di 600 m. Insieme mettono a punto le nuove tecniche di progressione, utilizzando le prime corde di nylon, al posto delle tradizionali scale fisse. Una rivoluzione basata sulle invenzioni di Fernand Petzl: il materiale d’arrampicata e soprattutto il bloccante, alcuni anni più tardi.
1935 Salewa (ITA)
L’8 luglio 1935, quando Joseph Liebhart, il direttore della Cooperativa per i sellai, i produttori di arazzi e i tappezzieri di Monaco registra una società affiliata per l’attrezzatura di sellai e prodotti in pelle: SA (Sattler/sellai) LE (Leder/pelle), WA (Waren/prodotti). La riforma monetaria del 21 giugno 1948 segna un nuovo inizio per SALEWA e la Germania dell’Ovest. Per alcuni anni, le borse porta macchine fotografiche, prodotte per la AGFA, sono i prodotti più venduti. Oltre agli zaini, i palloni da calcio (in pelle) e i borsoni per le moto facevano parte degli articoli commercializzati. I bastoncini da sci (in legno di nocciolo) divennero in seguito i prodotti con più successo. Nel 1955 sviluppa l’originale zaino Andes e finanzia la spedizione nelle Ande di Hermann Huber, che sarebbe diventato in seguito il managing director.Nel 1990 viene acquistata da Heiner Oberrauch e il gruppo Oberalp, e la sede centrale viene trasferita a Bolzano.
1947 Skylotec (GER)
Eduard Kaufmann fonda una società che si occupa principalmente di attrezzatura per la sicurezza ed il soccorso dei minatori. Freni di sicurezza, barelle a cucchiaio in alluminio ed altri presidi tecnici per gli interventi di soccorso. Nel 2007 produce la prima imbragatura per l’arrampicata e successivamente un’ampia gamma di prodotti per l’alpinismo.
1957 – Chouinard Equipement – Black Diamond. (USA)
Yvon Chouinard, membro della “Golden Age” della Yosemite Valley, fonda la Chouinard Equipment Ltd per realizzare e vendere i suoi famosi chiodi. Alla fine degli anni ’60, insieme a Tom Frost, altro membro della “Golden Age”, ridisegna piccozze e ramponi. Negli ’70 si rende conto che i suoi chiodi stanno rovinando la roccia della Valle e decide quindi, nonostante i chiodi siano il suo prodotto di punta, di realizzare nuovi strumenti di assicurazione meno invasivi. Realizza l’Excentric, il primo Nut! Le vendite di chiodi crollano ma il nuovo prodotto tiene in piedi l’azienda. Chouinard, sempre in questo periodo, fonda un’altra azienda, la Patagonia. Nel 1989 la Chouinard Equipment è costretta a dichiarare bancarotta per una controversia legale, i suoi dipendenti però rilevano brevetti ed impianti di produzione dando vita alla BlackDiamond che conosciamo oggi.
1977 Wild Country (Eng)
Frutto dell’ingegno dell’arrampicatore britannico Mark Vallence, che voleva produrre quello che sarebbe poi diventato il prodotto per l’arrampicata più famoso di tutti i tempi: il friend. Furono ideati dal climber statunitense Ray Jardine, che Mark aveva incontrato negli USA alcuni anni prima, ma quando Ray non riuscì a trovare un partner statunitense per sviluppare e produrre questo prodotto rivoluzionario, si unì a Mark, creando Wild Country. Fondata nel 1977 in una piccola fabbrica nel cuore del Peak District, Wild Country si è ingrandita in seguito a questo attrezzo rivoluzionario e il suo nome è sinonimo di arrampicata di altissimo livello in tutto il mondo.
Ieri sera mi ha scritto Angelo: “Birillo, consigliami il mio primo martello: voglio imparare a chiodare!”. La domanda mi ha colto piuttosto alla sprovvista ma, curiosamente, si inseriva perfettamente nelle ricerche che sto conducendo in queste settimane: già, mi sono messo in testa di condurre un piccolo censimento sul materiale alpinistico contemporaneo, in particolare sui chiodi.
Ispirato dalle leggendarie fotografie di Royal Robbins davanti alla parata di chiodi forgiati da Chouinard vorrei realizzare qualcosa di simile con i “pìtons” attualmente in commercio. Per questo motivo mi sto dando un gran da fare a contattare i vari produttori, sia italiani che stranieri, cercando un po’ di aiuto: curiosamente oggi il chiodo è uno degli oggetti proporzionalmente più costosi, tuttavia devo dire che la risposta dei produttori alla mia idea è stata quasi sempre positiva e buona parte degli oltre 150 esemplari che vorrei raccogliere sono già in viaggio.
La domanda di Angelo era imprevista, ma ormai mi sono abituato a scartabellare tra i cataloghi e non potevo perdere l’occasione di aiutare un’aspirante apprendista nell’arte del chiodo e martello. Così ho realizzato un piccolo elenco, parziale ed approssimativo, dei martelli disponibili sul mercato. Ovviamente nei negozi spesso si trovano solo quelli più diffusi, ma ho trovato interessante curiosare anche tra i modelli “inconsueti”. Mi sono reso conto che anche nel materiale alpinistico la scelta dei modelli o delle marche spesso è legata tanto alle mode quanto al territorio, sia alle logiche commerciali quando alle diverse tipologie di ambiente montano: una ricerca piuttosto interessante.
Il mio martello è un vecchio modello Camp che mi è stato regalato usato da Renzo Zappa. Ha preso un sacco di botte ed ho dovuto “rifoderarlo” un paio di volte, ha la testa molto leggera e quindi rende faticoso “chiodare”, non ha una gran battuta, ma risulta molto comodo per “schiodare” (dove si rischia spesso di farselo rimbalzare sul naso). Quindi nel mio ruolo spesso da secondo svolge egregiamente il suo compito. Lo lego all’imbrago con un moschettone di alluminio che uso anche come “FunkNess Device”, ovvero strappachiodi. Quel povero moschettone ha preso un sacco di botte ma è un buon sistema per non perdere il chiodo o darsi martellate sulle dita. Un cordino sottile con un maion rapid (pronto alla ritirata!) gli fa da sicura permettendomi di “abbandonarlo” nel vuoto quando mi servono entrambe le mani.
Mattia, invece, ha un TamTam della Petzl. Una scelta piuttosto comprensibile visto che Mattia proviene dall’ambiente speleo. Un bel martello da combattimento. Curiosamente anni fa l’aveva perso durante la discesa dell’orrido della val di Inferno al Moregallo e, per via dell’acqua alta, non aveva potuto recuperarlo: figurarsi era pieno inverno ed era caduto in una pozza di un paio di metri! Tuttavia Mattia è uno che non demorde, dopo ben due anni è tornato a cercarlo ed è riuscito a recuperarlo! Nonostante il tempo trascorso in acqua è ancora oggi in perfetto stato, gli unici segni di quell’esperienza sono piccoli fenomeni apparentemente di eletrolisi sulla testa (come se fosse stato “toccato” da una saldatrice).
Mattia, come me, tiene il martello all’imbrago con un semplice moschettone. Josef invece utilizza un porta martello mentre Ivan ha una specie di “esse” autocostruita che gli permette di prenderlo con il minimo sforzo. Josef ha un bel martello con il manico di legno mentre Ivan ne ha uno più leggero e piccolo in metallo: Josef è un fabbro che pianta mazzate mentre Ivan lavora più di cesello con piccoli colpi. Entrambi hanno uno stile molto personale ma l’importante è che alla fine il chiodo “canti” e tenga (specie quando ci sono appeso io!). Quindi decidere il proprio martello significa soprattutto comprendere il proprio stile.
Visti alcuni prezzi il consiglio iniziale è “…punta basso e fai esperimenti, se poi ti piace chiodare e capisci il tuo stile potrai sceglierti il martello della vita”. Io, ad esempio, per ora mi tengo il mio glorioso rottame da battaglia.
Davide “Birillo” Valsecchi
Ps: Commenti, suggerimenti ed impressioni sono ben accette! Anzi, fuori la mazza: mandatemi la foto del vostro martello 😉
Ecco la lista, in ordine sparso, dei martelli attualmente in commercio. La descrizione, dove disponibile, è stata realizzata dai produttori. Se un giorno avrò l’occasione di provarli (e farli provare) vi racconterò la mia =)
Brenta
Martello compatto, con larga superficie battente e testa del giusto peso per una chiodatura rapida ed efficace. La becca è progettata per ripulire le fessure, modellare gli Aluminium Head e i Copper Head e per schiodare. Manico indistruttibile in acciaio al nichel-cromo-molibdeno, con impugnatura in gomma per ridurre le vibrazioni. Peso: 655 gr. Costo: circa 50 euro.
Eagle e Eagle Light
Martello classico concepito per alpinismo, speleologia e soccorso. Design realizzato in collaborazione al famoso climber Jim Bridwell. Realizzato con testa battente in acciaio e manico in legno che garantisce un ottimo assorbimento delle vibrazioni e il massimo comfort d’utilizzo. Dotato di fettuccia per legarlo all’imbrago e renderlo imperdibile. Prodotto in Italia. Due modelli. Peso: 800 – 700 gr Costo: tra i 50 e i 60 euro.
Speleagle
Innovativo martello con testa battente alleggerita, in acciaio inox concepito per alpinismo, speleologia e soccorso. Dotato di chiavi da 13 e 17mm per serrare le viti. Impugnatura ergonomica in gomma e fettuccia da 10mm per evitare la perdita accidentale. Premiato all’Industry Award del 2009. Le dimensioni compatte lo rendono perfetto per lavori di chiodatura in speleologia. Peso: 570gr Costo: circa 50 euro.
Thunder
Martello da roccia, leggero e ben bilanciato, ideale per vie alpinistiche classiche.Caratteristiche principali: testa in acciaio zincato e temprato con foro per aggancio al porta-martello (HAMMER LODGE incluso); manico in lega leggera con impugnatura gommata ergonomica; ottima disposizione dei pesi che garantisce prestazioni eccellenti; nuova fettuccia elastica di collegamento ad ingombro ridotto che lo rende pratico e imperdibile. Peso: 450gr Costo: tra i 55 e 65 euro.
Thor Martello classico da arrampicata, per il soccorso e per l’uso professionale. La forma, compatta ed ergonomica è ben bilanciata per la massima efficacia; la testa forgiata a caldo, con ampia superficie battente, è molto resistente. Lo spessore del manico è stato raddoppiato sotto la testa, nel punto di maggior usura. Il disegno è ottimale per schiodatura, estrazione protezioni e pulizia fessure e appigli. Fornito con Single Spring (elastica) e moschettone SK1N per collegarlo all’imbracatura. Peso: 420gr Costo: circa 100 euro
Tam Tam Un martello leggero da speleologia, pensato per fissare manualmente gli ancoraggi. Dotato di una dragonne di sicurezza, il manico ha anche una chiave da 13 mm per le viti da 8. Peso: 535gr Costo: tra i 50 e i 60 euro
Bongo Un martello da roccia pensato per l’arrampicata artificiale o per chiodare nuove vie. Realizzato con il manico in gomma per attenuare le vibrazioni, è munito di due fori: uno per attaccarci una fettuccia, l’altro per un attrezzo rimuovi chiodi. Peso: 680gr Costo: tra i 50 e i 60 euro
Rockhammer Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che funziona. Salvo la foto non ho trovato descrizioni di questo martello. Brutalmente semplice (e forse brutto a vedersi) probabilmente svolge egregiamente il proprio ruolo: tirar giù mazzate! Peso: 580gr Costo: tra i 44 e 60 euro.
HUDSON HAMMER
La EdelRid è un storica azienda tedesca e non va troppo per il sottile nel descrivere il proprio martello: “The perfect big wall hammer.” Peso: 670 gr Costo: circa 80/85 euro
YOSEMITE HAMMER
La BD è l’azienda che ha raccolto l’eredità di Yvon Chouinard ed inevitabilmente è de-facto lo “standard americano” per noi europei. Un martello con il manico in legno che probabilmente non necessita di presentazioni. Peso: 700 gr. Costo: circa 140 euro
Qui invece ho cercato di raccogliere un elenco di martelli da arrampicata disponibili via Amazon. (Giusto per avere prezzi di riferimento…)
Sembra che i primi esperimenti di “dado ad incastro” risalgano agli anni 20, in Gran Bretagna, dove gli arrampicatori dell’epoca legavano corde di canapa attorno a ciotoli levigati di fiume per poi incastrarli a forza nelle fessure di arenaria. L’evoluzione successiva utilizzava le prime stringhe in nylon degli scarponi attorno a sassolini sempre più piccoli. Poi, finalmente, si è passati dall’età della pietra a quella del ferro, saccheggiando la ferrovia dello Snowdon! Già, è infatti documentato che gli scalatori della parete del Cloggy, in Galles, saccheggiassero i dadi dei binari (nut) della locale ferrovia per realizzare con un semplice cordino i primi nut della storia. Ancora oggi (“dicono”) è possibile trovare incastrato un dado esagonale da automobile sulla via di Bonning e Harling al Pilastro di destra del Brouillard aperta nel 1965.
Curiosamente i Melat della Val di Mello fanno da tempo qualcosa di simile incastrando nelle fessure rocce e rami per lavorare sulle pareti (e probabilmente non sono i soli nell’arco alpino). Nel 1968, sul Badile, Kosterlitz e Isherwood aprono la “via degli inglesi”, forse la prima via a chiodi e Nut delle Alpi Centrali. Mentre gli anglosassoni incastrano metallo, nel contempo la “scuola dell’est”, altrettanto prodiga di vie nelle Alpi centrali, nelle fessure blocca i nodi dei cordini di canapa o di nylon. Ovunque si diffonde la filosofia del “clean climbing” che utilizza proprio i nut per ridurre al minimo i danni alla roccia provocati dalla ripetuta estrazione dei chiodi (“Piton Scar“).
Il primo “nut” davvero simile a come lo conosciamo oggi risale invece al 1971, quando Yvon Chouinard, sulla spinta di Robbins e Frost, realizzò il primo “exentric”: un blocco ricavato da barre di alluminio con sei o sette facce parallele a coppie. Anche le due basi sono abbastanza divergenti per permetterne l’uso anche nelle fessure più larghe. Ecco perchè ho scelto come omaggio una foto di Chouinart in apertura di questo articolo!
Nel tempo l’evoluzione dei Nut, dei materiali ad incastro da usare senza martello, aprirà le porte allo sviluppo dei Friend. Gli Abalakov Cam, iTricam, i Titons ed i Camlock erano infatti blocchetti arrontondati che sfruttavano la torsione provocata dalla trazione. Ma dei “friend dei poveri” avremo di certo occasione di parlare più avanti.
Quello che segue, tuttavia, è una galleria quasi storica dei materiali ad incastro utilizzati alla fine degli anni 80, precisamente nel 1988. Tra le numerose riviste della Biblioteca Canova sono emerse alcune “rassegne tecniche” sugli attrezzi in vendita all’alba degli anni 90. Io, come molti altri che leggeranno questo articolo, ero poco più che un bambino in quegli anni, le informazioni raccolte sono però storicamente rilevanti e decisamente curiose: forme, pesi ed anche prezzi rigorosamente in lire! Alcuni di questi “aggeggi” assomigliano a quelli contemporanei mentre alcuni di questi esemplari ancora fa bella mostra di sè nell’equipaggiamento a tratti vintage di Sguero. Sarebbe interessante sentire qualche storia dai veterani di quel periodo: fatevi avanti!
Per completezza devo riportare anche qualche informazione sulle fonti: gli articoli erano pubblicati su ALP, Vivalda Editore, ed erano realizzati da Claudio Abrate, i test erano condotti da Mauro Rossi e le foto realizzate da Paolo Cucchi (che sembra possedesse un friend a grandezza umana!) e da Studio Fuocofisso. Le foto, nella pubblicazione originale, erano piuttosto piccole e per tanto mi è stato possibile “ingrandirle” solo nei limiti della qualità di stampa. Eccovi la collezione Vintage di Nut, presto anche quella dei Friend!
Davide “Birillo” Valsecchi
Attrezzi ad incastro anni ’80: Nut
Excentric
Excentric, prodotti dalla Camp. Ricavati in lega leggera, la selezione è un esagono irregolare, cavo nelle misure grosse, pieno in quelle piccole. Disponibili in undici taglie, le prime cinque con cavo d’acciaio, le altre con o senza cordino, che può essere normale o kevlar. Tutta la serie è utilizzabile per fessure da 13 a 91 mm. Pesano da 28 a 240 grammi. Senza cavetto nè cordino costavano un minimo di 1.200 a un massimo di 7.800 lire.
Chock
Chock, prodotti dalla francese Simond ed importati dalla DSI. LA sezione ha sei facce nelle misure piccole con cavetto in acciaio, sette in quelle grosse, con cordino. Disponibili in sette taglie, utilizzabili in fessure da 7 a 52 mm col cavetto d’acciaio pesano dai 15 ai 69 grammi e costavano da 6300 a 11250 lire. Sono un’evoluzione degli eccentrici: la sezione è un poligono meno regolare, più allungato, il che aumenta la possibilità di impiego.
Bicoin
Bicoin, prodotti dalla Simond ed importati dalla DSI. La forma classica dei nut, sono si alluminio anodizzato colorato. Disponibili in nove taglie, con un’escursione di larghezze da 5 a 35 mm. Cavetto di acciaio in tutte le taglie o cordino per le ultime cinque. Peso da 8 a 82 grammi (con il cavetto d’acciaio). Costavano da 4.000 a 11.250 lire.
Dadi
Dadi, prodotti e distribuiti da Cassin. Come i nut classici, con sezione cava. Disponibile in sette taglie, tutte fornibili con cavo metallico, cordino, o senza niente. Vanno da una larghezza minima di 14 ad una larghezza massima di 40mm. Pesano dai 10 grammi senza niente ai 98 col cordino. Quelli con il cordino sono in alluminio anodizzato in vari colori a seconda della misura. Costavano da 2.750 a 7.400 lire.
Stopper
Stopper, prodotti e distribuiti da Camp. Nut classici con la sezione cava. Disponibili in sette taglie, tutte con cavetto, le ultime tre con cordino in Kevlar, oppure senza. Per fessure da un minimo di 7 a un massimo di 35mm. Pesano da 25 a 96 grammi con il cavetto metallico. Costavano da 5.400 a 7.400 lire.
Speedy
Speedy, prodotti e distribuiti da Camp.Un’evoluzione dei cunei: le due facce più larghe hanno un profilo spezzato che favorisce il contatto di almeno tre punti, anzichè di solo due come nel cado di facce piane. Disponibili in quattro taglie con cavetto metallico rivestito di plastica. Dimensioni da 14 a 32 mm. Peso da 35 a 65 grammi. Costavano: da 6.100 a 7.600 lire.
Mezzaluna e Curved Stopper
Mezzaluna, prodotti e distribuiti da Cassin. Due Facce piatte convergenti e due facce a profilo curvo. Dieci taglie, la prima con cavetto, l’ultima con corda; le altre con cavo, corda o senza niente. Dimensioni da 12 a 50mm. Pesi da 7 grammi senza niente a 130 grammi con corda da 8. Costo da 3.300 a 8.800 lire. Le grandi intuizioni sono sempre le più semplici: senza allontanarsi troppo dal classico trapezio, il profilo curvo grantisce una tenuta maggiore, perchè si appoggia su tre punti senza soluzione di continuità, e riduce il rischio di errori dovuti allo scarso contatto dei bordi, favorisce il piazzamento ma la rimozione è più difficile.
Curved Stopper, prodotti e distribuiti da Salewa. Come i Mezzaluna. Disponibili in otto taglie con cavetto d’acciaio oppure con fori per cordino o fettuccia. Col cavo costavano da 8.000 a 10.000 lire.
Bifront
Bifront, prodotti e distribuiti da Grivel, hanno quattro facce con profilo curvo a coppie. Disponibili in nove taglie con due diametri di cavo. Costavano da 6.800 a 9.000 lire. Raddoppiando le facce si estendono i vantaggi, visti per il Mezzaluna, a tutte le possibilità di incastro.
Cunei Monocavo
Cunei Monocavo, prodotti dalla francese Laprade e distribuiti da Salewa. Sfruttano anch’essi lo stesso principio della curvatura, che è però lungo il profilo orizzontale, anzichè quello verticale, come nel caso dei Mezzaluna o dei bifront. Inoltre il cavetto d’acciaio è singolo, ed è annegato nel materiale del nut stesso. Disponibili in otto taglie. Costavano da 5.000 a 8.500 lire.
Bicam
Bicam, prodotti da Simond e importati da DSI. Hanno due facce piatte convergenti classiche, una faccia con profilo curvo e quella opposta con lo stesso profilo curvo, convergente, e lavorata a denti tipo ingranaggio. Questa forma conserva vantaggi della curvatura, e facilita e rende più sicuro l’accoppiamento di due pezzi per raggiungere le dimesioni volute. Disponibili in nove taglie con due diametri di cavo, mentre nelle ultime tre misure ci sta anche il cordino. Dimensioni da un minimo di 8 ad un massimo di 35mm. Col cavetto pesano da 10 a 80 grammi e costavano da 7.200 a 13.000 lire.
Brass
Grass, prodotti e distribuiti da Grivel. La forma classica dei nut, realizzata però in ottone, materiale più duro dell’alluminio, il che consente di ottenere delle dimensioni molto piccole. Il cavo è annegato nella testa e poi fresato con la parte superiore della testa tessa, operazione che consente un’ottima solidarietà del cavo, evita una curva molto stretta e quindi fragile, ed ha un ingombro aggiunto alla testa nullo. Disponibile in sette taglie, con due diametri di cavo (rivestito in plastica). Costavano da 3.900 a 4.600 lire. Ottimo nelle taglie più piccole, inutilizzabile sul calcare perchè rompe la roccia.
Two Stop
Two Stop, prodotti e distribuiti da Camp. Come i Brass. Disponibili in sette taglie e tre diametri di cavo (rivestito in plastica). Dimensione minima del più piccolo 4 mm , massima del più grosso 19mm. Pesano da 8 a 60 grammi. Costavano da 3.900 lire a 5.000 lire.
Blend
Blend, prodotto e distribuito da Cassin. Realizzato con gli stessi criteri dei Brass e dei Two Stop, ma utilizzando bronzo come materiale per la testa. Disponibile in sette taglie con due diametri di cavo (rivestito in plastica). Larghezza minima del più piccolo 4 mm, massima del più grosso 19 mm. Pesano da 9 a 43 grammi. Costano da 4.100 a 4.800 lire.
Copper Head e Aluminium Head
Copper Head e Aluminium Head, prodotti e distribuiti da Cassin. Si tratta di piccoli cilindri di rame o alluminio che, opportunamente battuti in piccole fessure o minime asperità, aderiscono ad esse facendo corpo unico ed offrendo così aiuto nel passaggio. Un riutilizzo degli Head è possibile solo se la deformazione subita non sia stata eccessiva. Gli alluminium head sono più usati sul calcare, i copper head, più duri, sul granito. Entrambi disponibili in due taglie del diametro di 9 e 11 mm con il cavo di 3mm. Pesano dai 15 ai 30 grammi. I Copper costavano 4.000 e gli Aluminium 3.500 lire. Non sarebbe giusto considerarli attrezzi da incastro, visto che necessitano di un martello per essere “spalmati” sulla roccia, ma non sarebbe stato neppure giusto trascurarli. Sono attrezzi dall’utilizzo particolarmente sofisticato, che richiedono una certa pratica per essere usati correttamente, ma quando ci si riesce… sulla via del Sole Nascente, nella Valle dell’Orco, i primi salitori piazzarono un copper head che è tutt’ora utilizzato per la progressione artificiale. Comunque vanno usati solo in casi estremi visto che la loro tenuta è molto aleatoria e difficile da valutare.
Blocchetti Tubolari
Blocchetti tubolari, prodotti dalla New Alp, Chamonix, e importati di Amorini. Consistono da un tubo di Ergal a sezione ovale come quello dei manici delle picozze, sezionato con due tagli convergenti. Disponibili in cinque taglie per dimensioni da 20 a 47 mm. Pensano da 36 a 44 grammi. Costavano da 8.800 a 13.400 lire. Il vantaggio essenziale è un notevole rapporto peso/dimensioni, ma non sono molto efficaci.
Pentanut
Pentanut, prodotti e distribuiti da Camp. Concepiti da Giancarlo Grassi. La testa formata da un poligono a cinque lati asimmetrici, che ha la possibilità di ruotare di 180° attorno al cavetto (ricoperto in plastica) tramite uno spinotto.Anche le due basi del prisma sono convergenti, offrendo in tutto quattro alternative di incastro. Disponibili in quattro taglie, per un escursione da 19a 52 mm. Pesano da 54 a 136 grammi. Costavano da 11.000 a 15.200 lire. Utile, occorre però una certa pratica nell’uso.
Six Coin
Six Coin, prodotto da New Alp e importato da Amorini. Nello stesso cavetto d’acciaio che forma un anello, si fronteggiano due nut di diversa sezione, che possono ruotare creando sei possibili dimensioni. Si passa quindi da 15 a 40 mm, con variazioni di 5 mm. Peso 67 grammi. Costavano 16.900 lire. Queste caratteristiche consentono all’attrezzo di offrire effettivamente diverse possibilità. Tuttavia il posizionamento è un impresa da prestigiatore sopratutto con una mano sola!
Multicuneo
Multicuneo, prodotto da Laprade e importato da Salewa. Attrezzo versatile e di ingegnosa semplicità, permette di avere a disposizione sullo stesso cavo sei differenti taglie con un escursione di dimensioni che va dai 9 ai 36 mm ed un peso di solo 70 grammi. Costava 32.000 lire. Non ha incontrato un grande favore tra gli alpinisti, ingiustamente, perchè permette di avere una serie completa con la stessa facilità di utilizzo, la stessa sicurezza e lo stesso peso di un nut medio grosso. Per questi motivi è ideale per vie facili in alta quota.
Bi-Caps
Bi-caps, prodotti dalla tedesca Bergsport, importati da Salewa e Vaude. Sono due dadi sovrapposti sullo stesso cavetto. Ciò permette loro di assumere diverse angolazioni relative e quindi di assumere nella fessura la posizione di miglior tenuta. Disponibile in nove taglie, tutte con cavo d’acciaio. Dimensioni da 7 a 33 mm. Costano da 1.000 a 14.000 lire. Validi, ma forse inferiori ai nut a facce curve, sia come facilità d’uso che come sicurezza.