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Il signore dell’attenzione

Il signore dell’attenzione

IL SIGNORE DELL’ATTENZIONE di Ivan Guerini – Ricordando Giovanni Rossi.

Nell’ambito della mia vita e in rapporto a chi ho conosciuto, l’amicizia intercorsa con Giovanni Rossi è iscritta ben sopra le ragioni inerenti l’ambito della società alpinistica grazie alla quale ci siamo conosciuti.

Le nostre voci s’incontrarono telefonicamente per la prima volta all’inizio degli anni ’70 quando mi chiese informazioni sulle prime ascensioni che a quel tempo avevo compiuto assieme a Mario Villa nelle zone più disertate delle Alpi Centrali, mentre stava aggiornando la guida Masino Bregaglia Disgrazia di Aldo Bonacossa.

La nostra amicizia trovò un fermo punto d’incontro tre decenni dopo, nel 2004, in occasione di un elogio che espresse a proposito de: La Natura Verticale alla luce della libera esplorativa, la prima monografia che scrissi sull’Annuario Accademico CAAI, importante “sciabolata Etica” al pensiero ignavo dei pavidi Anti-Etici.

Giov, come era consuetudine chiamarlo nell’ultimo decennio della sua vita in cui assieme a Monica lo frequentammo con costante assiduità, dall’alto del suo nono decennio d’età e cultura tradizionale non ebbe resistenze verso la mia cultura singolare, così ci trovammo talmente bene che sua figlia Sabine tuttora stenta a credere come la nostra amicizia fosse potuta attecchire.

Come la sua proverbiale rettitudine abbia mai potuto reggere con tanta pazienza al mio balzare di palo in frasca in balìa della deflagrazione di mille argomenti e interessi nati contemporaneamente che di volta in volta gli sottoponevo con abituale irruenza, è davvero un mistero che credo sia la fonte che alimenta la stima e l’affetto tra individui ineguali.

Sono certo che per un professore come Giov, con quella sua spiccata predilezione per la sintesi, i nostri dialoghi telefonici estemporanei e soprattutto prolungati, avranno certamente rappresentato delle vere e proprie prove.

Dal giorno in cui andai con Monica a trovarlo per la prima volta nella sua villa di Varese, gli appuntamenti con lui non s’interruppero più. Ogni volta, dalle cose che ci stavano più a cuore, dette e ridette come scorci con differenti angolature, scaturivano riflessioni impensate, considerazioni impreviste, sfumature osservative sfocianti in tematiche sempre nuove.

Di tante di queste il tempo vissuto ci ha consentito di realizzarne solo una minima parte ma, come suggerisce una visione della vita priva di confini spaziali o scadenze temporali e proprio per questo: “Tutto ciò che non si è fatto in tempo a fare trova risposta in tutto ciò che non avremmo mai pensato di fare”.

In quegli incontri eravamo circondati e come osservati dalle foto di montagne che sua moglie Luciana, scalatrice caparbia, aveva appeso ai muri della tavernetta, diventati specchi meditativi dei ricordi che l’hanno confortata negli ultimi mesi della sua inesorabile malattia; dal malinconico primo piano di Teresa la seconda figlia persa prematuramente e dall’immagine della gatta Ippolita immortalata in un momento in cui osserva attenta Giov mentre corregge la bozza di una delle tante traduzioni inedite di testi alpinistici tedeschi o britannici realizzati uno dopo l’altro con instancabile e irriducibile costanza.

Tanti furono i pranzi conviviali, durante i quali noi tre discorrevamo con ironia: sorvolati dai salti degli scoiattoli in volo sulle alte fronde degli alberi del giardino, osservati dalla comparsa delle nubi temporalesche d’una giornata che ci aveva concesso comunque il tempo per una camminata prealpina e una volta anche rallegrati dal fuoco del camino che per se difficilmente accendeva se non in compagnia di amici.

E puntualmente a una certa ora del primo pomeriggio le sfiancanti chiacchierate terminavano con una mano davanti agli occhi di Giov: era il segnale discreto che per noi era ora di andare.

Giov era una persona assai disponibile laddove ci fossero la necessità l’urgenza o l’importanza, era invece notevolmente insofferente dell’inutilità dispersiva di tutto ciò che è banale e non occorre ad avanzare a livello personale, sociale, ambientale; mai lo sentii screditare chi non la pensava così ad eccezione dell’ambiguità deplorevole di quel pensiero diffuso che intende sostituire l’altezza dell’Autenticità con i bisogni della Mediocrità: dall’Alpinismo, allo Stato, al Cristianesimo non più Tradizionale che rimpiangeva con nostalgia e del quale fù osservante e studioso, soprattutto di quello Medievale.

Pareva snob ed era invece umile volontario a fianco dell’Etica anche Alpinistica, dalla maggioranza oggi così disdegnata o ignorata; e dall’Etica fu nobilitato, tantè che appena “prima di lasciarci riuscì a lasciarci” il primo libretto che parlasse di lei: “Alpinismo Si o No”, che fece stampare di tasca sua in cento copie numerate chiedendomi di distribuirle alle persone più sensibili.

Le avvisaglie di questo legame indissolubile si avvertivano già nella scelta del quadro di Caspar Frederich in cui si vede allontanare una figura femminile in un orizzonte di luce che inserimmo nell’apertura d’uno scritto in ambito accademico, dove in didascalia stava scritto: “Dea Etica volta al Tramonto”.

Giov scrisse colte presentazioni e scritti sintetici e forbiti per i miei due ultimi libri d’esplorazione alpina, uno su una valle e l’altro su un intero territorio. Immedesimandosi in esperienze alpine assai diverse dalle sue e centrandone la valenza intima con la precisione di un “fuciliere culturale” scelto, come a dire che la capacità conoscitiva, focalizzando l’essenza, si raccorda a tutte le cose.

Dopo magagne saltuarie, delle quali non si lamentò mai, ma sulle quali fece parecchia ironia, si manifestò la malattia che lo avrebbe accompagnato nella dimensione dei trapassati.

Alla progressiva debolezza reagì con lucidità e forza, scrisse fino all’ultimo e fino all’ultimo disse e pensò solo cose necessarie a se perché lo fossero anche agli altri, perchè raggiungessero il futuro nel quale ci attende riflettendosi nella vita di chi gli è stato amico.

Degli ultimi incontri, ricordo il rumore dei suoi passi dosati, sempre più secchi e scanditi come rintocchi di un metronomo diventato pendolo, per salire al piano di sopra, dove si trovava il suo studio: in senso assoluto il punto più luminoso della casa, pervaso dalla luce radiante della cultura perenne, dove saliva ogni volta a prenderci qualche libro o pubblicazione che riteneva indicativi e puntualmente, ogni volta, ci donava.

Rivedo come fosse ora l’ultima volta che ci siamo incontrati mentre risale lentamente le scale che lo avevano condotto in cantina per prendere le copie delle sue pubblicazioni e consegnarcele con la fatica di una picozza conficcata sul punto sommitale della vita.

E prima di congedarci seduto in poltrona con una mano sugli occhi mentre muoveva le dita eleganti al ritmo di parole misurate con le quali ci dava le sue ultime indicazioni: un congedo rimasto vivo che fa sentire netta e accanto la sua voce.

Stanco e mai vinto, come un soldato schierato al fronte della correttezza per la preservazione dell’Etica.

Ivan Guerini
6 giugno 2018

Addendum di Monica Mazzucchi
Giov soleva rafforzare i carteggi con noi con poesie dei grandi letterati anche tedeschi e britannici: Maurice Maeterlinck, Whintrop Young, Giosuè Carducci, Giacomo Zanella, ma anche raccontare sogni come preziosi doni di riflessioni o tremendi incubi come quelli in cui la montagna affiorava dal mondo urbano.

Al suo estro letterario ricambiavamo con sonetti spontanei fatti da noi, nello scrivere spicciolo usava parole del tempo che fù come: “fatto inaudito, pignolesche osservazioni, prognosi nefasta, famigerato legamento, evidente impresentabilità, pasto frugale, ubbie del pensiero, delusioni esiziali, megera”, con cui descriveva i fatti e i comportamenti d’individui particolarmente fastidiosi o estremamente gravi, con notevole senso dell’ironia.

Giov aveva pochi amici autentici con i quali si trovava, a partire da Carlo Zanantoni che fino agli ultimi giorni gli stette accanto, il Colonnello Masera, Fabio Masciadri, Bianca di Beàco.

Con Bianca fu un’amicizia che perdurò fino alla fine e proprio lui ci annunciò che era mancata l’ultima volta che ci incontrammo.

Giovanni Rossi, ottantunenne, alla Rocca di Orino durante una breve arrampicata sul muro di cinta della Fortezza. Uomo di grandissima cultura era attento a ogni espressione della scalata, sopratutto alpinistica, che stimava solo se eticamente corretta.

I ricordi che non sbiadiscono

I ricordi che non sbiadiscono

1983. Paolino “Cipo” sul 3° tiro GFOSA

[Gianni Mandelli] Ci sono persone, appassionate di montagna, che per raggiungere un qualsiasi terreno di gioco devono svegliarsi di buon mattino e spostarsi in auto per alcune ore. Ce ne sono altre invece che appena svoltato l’angolo di casa si trovano già in montagna, dove possono camminare, arrampicare, oppure semplicemente perdersi tra creste e canali dove non esistono sentieri o itinerari tracciati. Essendo nato a Valmadrera, appartengo a questa seconda categoria, e anche se le montagne di casa sono di modeste dimensioni, penso di essere un alpinista fortunato, perché vivo a stretto contatto con un ambiente che mi dà la possibilità, anche nei ritagli di tempo, di stare in montagna. Non ho avuto bisogno di corsi o di particolari istruzioni per salire su queste rocce, l’istinto adolescenziale mi ha portato prima a scoprire gli anfratti più selvaggi, poi come in una naturale evoluzione a scalarne anche le pareti più repulsive. Ho avuto anche la fortuna, anche così si possono chiamare le molte primavere passate, di vivere epoche diverse, quando per esempio, nelle fessure larghe si piantavano cunei di legno e non si incastravano friends, oppure quando per fare un’assicurazione dinamica si metteva la corda in spalla. Tutto questo mi è stato utile in molte occasioni, perché il tempo non passa invano, ma lascia in tutti noi una scia di ricordi, che potrei chiamare esperienza. Proprio su queste “mie montagne” ho imparato a muovermi su terreni pericolosi, che oggi si chiamerebbero di avventura, dove le difficoltà maggiori non erano il grado, ma la continua esposizione a un rischio, non sempre calcolato. In queste scorribande giovanili osservavo attentamente le pareti e nella mia fantasia mi immaginavo già appiccicato a quelle rocce, poi gli amici e la passione per le scalate hanno fatto il resto. Ora mi ritrovo a sessant’anni suonati a fare i conti con questa continua voglia di montagna che si esaurisce solo dopo un’intensa giornata passata su una parete o sui fianchi di una montagna. Potrei fare un bilancio degli anni passati su queste montagne, e forse sarebbe anche ora, ma penso che ci siano ancora delle emozioni che mi aspettano nascoste in qualche fessura. Di conseguenza mi limiterò a raccontare alcuni episodi, recenti e passati, che ho condiviso con gli amici di una vita, che poi sono, o sono stati, i miei compagni di cordata.

2004 Gianni Mandelli sul 6° tiro di Tempo al Tempo

26 Febbraio 2017.
Domani compirò sessantatre anni, ma ora sono qui in questo canalone carbonizzato dal fuoco sul sentiero che mi porta all’attacco della via GFOSA, sull’anticima N.E. del Moregallo. Quante volte ho già percorso quella via non lo so, e fino a quando il dottor Alzheimer non comincerà a farmi visita, continuerò ad affidarmi ai ricordi che con il passare degli anni non sono ancora sbiaditi. La prima volta è stata quando Romano(*1) mi ha invitato a ripetere con lui quella splendida via, che con Mosè (*2) aveva tracciato un mese prima. Loro a quell’epoca avevano 17 e 18 anni, ma oltre all’incoscienza dell’età, andavano come treni e avevano l’abilità degli operai metalmeccanici nell’usare martello e chiodi. Da allora sono passati quarantuno anni, ma ritrovarsi ad arrampicare su questo calcare verticale, con gli stereotipi dell’arrampicata moderna bene impressi nella mente, fa crescere a dismisura l’ammirazione per quei due “enfant terrible”. Mi è stato detto, che non ci sono vie nel lecchese che conservano l’intensità e l’incertezza come quelle del Moregallo, e anche se personalmente l’ho sempre pensato, continuo a notare che se non ci ritorno io su queste pareti non ci va nessuno. Ci sono ritornato talmente tante volte che mi è difficile mettere in fila cronologicamente le giornate che ho passato su questo scoglio, però alcuni ricordi rimangono indelebili, come quando sempre con Romano decidemmo di piazzare almeno uno spit a sosta. Successe che stavo forando la roccia all’ultima sosta ed eravamo appesi entrambi ai due chiodi, che erano collegati, quando il chiodo al quale ero appeso cedette e mi ritrovai sotto il tetto. Con una calma olimpica Romano mi recuperò di nuovo in sosta e con una fretta indiavolata continuai a forare la roccia, rimanendo entrambi appesi a un solo chiodo, fino a quando riuscii a piantare lo spit. Un altro ricordo indelebile è legato a Paolino “Cipo” Crippa, forse il più grande fuoriclasse dell’alpinismo valmadrerese, con il quale ho avuto la fortuna di arrampicare nei primi anni del suo alpinismo. Sicuramente fra non molto arriverà qualche campione che riuscirà a percorrere completamente in libera la GFOSA, ma Paolo, nel 1983, riuscì a liberare tutta la via, tranne un solo passaggio e a darne una valutazione ancora oggi molto severa. Poi altri ricordi nitidi di altre ripetizioni con compagni di cordata giovani e meno giovani, che ancora oggi si ricordano di quella via e di quella parete. Ora mentre mi avvicino alla parete quei ricordi si allontanano e lasciano il posto al presente. Josef (*3), il mio attuale compagno di cordata, durante l’abbondante ora di cammino si è già fatto un’idea di che cosa lo aspetta e si avvicina a questa piccola parete con un po’ di timore reverenziale. Nel disfare lo zaino mi accorgo però di avere dimenticato l’imbrago, che strano penso al dottor Alzheimer che nel caso dell’imbrago non è la prima volta che mi fa visita. Comunque in quattro quattr’otto risolviamo tutto, Josef si sacrifica ad arrampicare con una fettuccia come cosciale e la corda in vita, ed io con il suo imbrago mi sono goduto per l’ennesima volta questa splendida via.

2017 Josef sulla GFOSA

Ottobre 1976
Con Romano ho un progetto ambizioso, scalare la sezione di parete del Corno Orientale che c’è tra il diedro della via Dell’Oro e gli strapiombi della Via Don Arturo Pozzi. E’ la fine di ottobre e veniamo da un’intensa stagione di arrampicate e anche di nuove vie. Siamo entrambi molto giovani, lui ha 18 anni ed è fortissimo, io quattro più di lui. Stiamo attaccando la parte superiore della via che si snoda sopra la grande cengia della Dell’Oro, dopo avere salito la settimana precedente la parte inferiore. Questo tiro tocca a me. Arrampichiamo con materiale e abbigliamento in fotocopia, stesse scarpe (rigide), stesse corde, stessi vestiti, solo il casco ci differenzia. C’è un piccolo tetto da superare in partenza che mi impegna parecchio, pianto un chiodo, mi alzo sopra il tetto e all’improvviso spariscono tutti gli appigli. Dopo qualche minuto passato a “ravanare” a destra e a sinistra volo, Romano mi tiene (a spalla ovviamente), ma in mancanza del casco, che aveva appeso all’imbrago, batte la testa sotto il tetto. Vengo calato sulla cengia e una voce fuori campo dice: “Bravo bel volo”. Alzo lo sguardo e sul lato opposto della cengia spuntano tre persone che conosciamo benissimo, essendo nostri amici, e in quel caso anche competitori. La loro idea era quella di salire la nostra stessa linea, ma siamo arrivati prima noi, perciò continueremo, a dispetto del volo e della testata. Riprendiamo l’arrampicata e con molti sforzi conditi da intense emozioni arriviamo in cima nel tardo pomeriggio. Siamo strafelici, con l’andrenalina a mille per colpa di un paio di tiri al limite del volo, però abbiamo fatto una via con solo una ventina di chiodi su duecento metri, su una parete in gran parte strapiombante, il contrario di tutte le altre vie di quel livello di quel periodo. Raggiungiamo il rifugio, che per caso è ancora aperto, e a credito, perché siamo senza soldi mangiamo qualcosa e beviamo molto, anzi troppo, ed ormai è buio. Scendiamo sotto la parete per recuperare gli zaini, che abbiamo gettato dalla cengia sul ghiaione, e non li troviamo. Siamo sicuramente ubriachi e ci imbattiamo per caso, dopo più di un’ora, negli zaini prigionieri di un boschetto, li riempiamo con il materiale e rotoliamo a valle.

1976 Da sin. Gianni, G.B. Crimella, Romano e Mosè (lago di Misurina, foto scattata da Felica Vassena)

Settembre 2015.
Dopo tanti anni quelle emozioni le avevo ancora sulla pelle, e per riprovarle nel trentanovesimo anniversario della prima salita sono andato a ripetere quella via che negli anni aveva accumulato una cattiva fama, e in totale aveva solo sei ripetizioni. Nel frattempo, però, due giovani avevano pensato di renderla sicura mettendo qualche chiodo in più. L’arrampicata si è svolta senza particolari emozioni, e alternandomi con il mio giovane compagno di cordata ho apprezzato la bellezza dell’itinerario. Qualche chiodo in più e tanta tecnologia (friends) hanno tolto gran parte delle emozioni, ma ritornare su quella parete per me è stato come rompere un incantesimo che durava da tanti anni e che solo ora, dopo quella ripetizione, riesco a raccontare.

2004 Franco sul 10° tiro di Tempo al Tempo

Giugno 2004.
Franco (*4) è andato in pensione da poco ed ha elevato a suo luogo ricreativo il versante Nord del Moregallo. Con i suoi ritmi frenetici è salito e ridisceso per i canali che separano creste e pareti ed ha esplorato boschi pensili che raramente vedono la presenza umana. Quando invece sta al timone di qualche barca che veleggia sul lago riesce anche a disegnare nuove linee di salita sulle pareti. E così ha cominciato a portarmi sotto la parete nord e a indicarmi una linea di salita logica, ma che si interrompeva in una zona strapiombante e compatta. In quel periodo, per mille motivi, che poi sono i soliti di chi va in montagna solo nei fine settimana (lavoro, famiglia, ecc ..), riuscivo ad arrampicare a malapena una volta a settimana, dopo un inverno senza nessun allenamento. Non volevo di conseguenza impegnarmi su una parete così difficile, magari sacrificando gran parte della primavera in tentativi. Non mi sono mai piaciute le vie aperte a rate e, trascinare nel tempo un sogno serve solo a snaturare il sogno stesso, perciò cercavo di rimandare sempre al mittente le richieste di Franco. Poi un giorno mi chiama e mi annuncia che ha già salito da solo i primi quaranta metri e la mia domanda è spontanea “Come sono?”. La risposta la sapevo già: “Belli”, ma come belli mi sono detto, se i primi metri sono più erba che roccia. Il suo tentativo di coinvolgermi era talmente evidente che mi sono lasciato scappare una promessa: “Non questo, ma il prossimo fine settimana ci andiamo insieme”. Ma lui bruciava dalla voglia di salire su quella parete e al sabato successivo era di nuovo lì con due giovani che aveva reclutato la sera precedente al CAI. Quel tentativo finì subito a causa di un suo volo, dovuto alla rottura di una vite artigianale di uno spit. “Ma quando torniamo sabato”, mi disse, “cambio la vite e ne metto una ad alta resistenza”. E il sabato successivo eravamo lì, sotto la parete, con noi c’era anche Carlo Caccia che voleva provare l’emozione di scalare su una parete vergine. In poco tempo risolvemmo i primi quattro tiri, che sono il piedistallo della parete vera e propria, quindi raggiunta la cengia scoprimmo che nella parte destra della parete era impegnata un’altra cordata, anch’essa con l’intenzione di aprire una nuova via. Quel giorno riuscimmo a salire un altro tiro sopra la cengia e poi calandoci incontrammo i due ragazzi di Valbrona che arrampicavano di fianco a noi. Per una strana e remota coincidenza due cordate si incontravano nello stesso giorno, dopo una ventina d’anni dall’ultima ripetizione della via OSA, l’unica esistente su quella parete dimenticata. Ci complimentammo con Giulio (*5) e il suo compagno, che poi riuscì, dopo qualche anno, nel suo intento di tracciare una nuova via in quella sezione di parete. Il nostro progetto però non poteva aspettare e il sabato successivo eravamo di nuovo in parete per affrontare la sezione più difficile, che ci impegnò per parecchie ore senza però risolverla definitivamente. Il superamento di una placca compatta mi respinse, soprattutto perché non riuscivo a intravedere la possibilità di proteggermi adeguatamente e probabilmente anche lo scarso allenamento limitavano le mie capacità. La domenica successiva ero febbricitante, ma due aspirine prese la sera precedente mi diedero l’energia necessaria per superare quella placca, per poi proseguire alternandomi sempre con Franco fino alla grande cengia. Le difficoltà a quel punto diminuiscono, ma non terminano, perché per uscire dalla parete bisognava superare anche un pericoloso tratto di rocce rotte con erba che portava al sentiero di discesa. Poi, raggiunta la strada, e seduti davanti ad una birra abbiamo realizzato quanto quel giorno avevamo fatto, una via di 11 tiri sulla parete nord del Moregallo, rispettando la conformazione e la struttura della parete stessa, cioè senza forzare con mezzi artificiali i tratti più impegnativi, nella scia delle nostre idee e della nostra tradizione.

Gianni Mandelli

1974. Romano e Mosè in cime al Crozzon di Brenta (foto scattata da Felice Vassena)

Nomi completi:

  1. Romano Corti
  2. Mosè Butti
  3. Giuseppe Prina
  4. Franco Tessari
  5. Giulio Zappa
Aldo, Giorgio e Marco

Aldo, Giorgio e Marco

Accompagnato dall’influenza sono mestamente rientrato dalla Carnia ed ora, mentre gli altri “bambini” giocano con la neve ed il ghiaccio armati di piccozza e ramponi, mi aggiro in pigiama dietro alle vetrate con aria sommessa ed una papalina di lana in testa. Così, per infierire oltre su me stesso, mi sono messo a sistemare e scartabellare la riviste della Biblioteca. Poi mi sono imbattuto in qualcosa che mi distolto da ogni malanno e che mi ha spinto in un viaggio fatto di scoperta ed affettuosa malinconia: un viaggio che inizia con un brivido freddo, quasi disorientante, ma che con lo scorrere delle parole diventa sempre più caldo, confortante, consolante.

In un ”Alp” del Marzo 1993 ho trovato un’ intervista di Alberto Benini, noto storico e scrittore dell’alpinismo lecchese, realizzata ad Aldo, Giorgio e Marco Anghileri. L’incipit d’apertura dell’articolo è una vecchia foto in bianco e nero dove Aldo tiene in braccio i suoi allora giovanissimi figli: chi conosce la straordinaria, ma anche terribile storia, degli Anghileri può ben capire come quell’immagine ti inchiodi all’improvviso davanti alla freddezza della sorte.

Quando ho conosciuto Marco (una solitaria e buia mattina di luglio in cima alla Grignetta senza sapere neppure chi fosse) suo fratello Giorgio era purtroppo scomparso da tempo: travolto in bicicletta dal destino quando solo aveva 27 anni. Ne avevo sempre e solo sentito parlare, ma non avevo quasi idea di cosa avesse fatto o di chi fosse. Ora anche Marco è scomparso, travolto nel 2014 sul pilone Centrale del Monte Bianco. Trovarli “insieme” in quest’intervista del 1993, quando avevano ancora 23 e 21 anni, è qualcosa di coinvolgente, capace di spazzare la tristezza lasciando spazio libero all’entusiasmo che li ha sempre contraddistinti.

Per questo motivo ho voluto trascrivere l’articolo: per coloro che li hanno conosciuti entrambi spero possa essere un bel ricordo, forse triste ma piacevole, per tutti gli altri una loro preziosa testimonianza da conservare. 

D.”B”.V.

La Famiglia Anghileri riunita attorno alla montagna
Alberto Benini – Alp Marzo 1993

In un libro giustamente considerato una pietra miliare per la storia dell’alpinismo, cioè “Due e un Ottomila” di Reinhold Messner, è pubblicata una fotografia di un uomo con due bambini sulle ginocchia. Quell’uomo è Aldo Anghileri (Aldino) e i due bambini, destinati a diventare da lì a quindici anni qualcosa di più di due promesse dell’alpinismo italiano, sono Giorgio e Marco, i suoi figli. Caso significativo perché quelle pagine sono arricchite da larghi stralci del diario che Aldino teneva in quei giorni critici in cui la spedizione del Lothse 1975, l’ultima grande spedizione nazionale italiana, era inchiodata al campo base dall’inclemenza del tempo , oltre che dalle oggettive difficoltà della parete. I fatti sono in gran parte noti e sono già stati oggetto di interminabili discussioni a quei tempi. Ma torniamo a quell’immagine in bianco e nero: il giovane uomo con gli occhiali è allora uno degli esponenti più significativi dell’alpinismo italiano. E’ autore di imprese di notevole spessore tecnico che gli hanno meritato il titolo di accademico e la partecipazione alla spedizione fortemente voluta da Cassin e dall’allora presidente del CAI, Sen. Giovanni Spagnolli, che per prima si ripromette di affrontare la parete sud del colosso himalayano. La spedizione, sarà bene specificarlo ad uso dei più giovani, allineava, oltre al capo spedizione Cassin, Gogna, Arcari, Barbacetto, Leviti, Curnis, Piussi, Gugiatti, Lorenzi e i “lecchesi” Conti, Giuseppe e Gigi Alippi, Anghileri, con Messner a fare da uomo di punta.

Spedizione nazionale del CAI al Lhotse, 1975: da sin., Gigi Alippi, Sereno Barbacetto, Riccardo Cassin, Franco Gugiatti, Aldo Leviti, Ignazio Piussi, Reinhold Messner, Alessandro Gogna, Fausto Lorenzi, Mario Curnis. In ginocchio: Giuseppe Det Alippi, Mario Conti, Gianni Arcari

La posizione di Anghileri è atipica: si trova alla cerniera fra il gruppo dei “lecchesi”, cui è legato sia per ragioni territoriali che per la comune appartenenza ai Ragni e quello dei più innovatori Gogna e Messner, coi quali divide la tenda. E’ in quella tenda che Aldino matura la decisione di abbandonare la spedizione, episodio che gli suscitò contro i fulmini del patrio alpinismo, con un gesto che denuncia in modo ancora non completamente chiaro, ma irrevocabile, la crisi di un certo modo di fare alpinismo. Di lì a qualche mese Messner e Habeler saliranno un ottomila in cordata a due, mettendo in pratica un discorso che era riecceggiato più volte in quella tenda. Ma perchè non si pensi che Anghileri sia solamente l’uomo del “gran rifiuto” ripercorriamo in breve la carriera di questo alpinista che da un lato incarna assai bene la figura dell’alpinista lecchese, da un altro se ne discosta per aver sovente fatto cordata con personaggi che non provengono da questo ambiente: Gogna, Piussi, Pellegrinon.

L’attenzione su di lui inizia nell’estate del 1964 quando (in 4 ore e mezza) percorre in solitaria la via Cassin al Badile, sulle orme di quello che con Bonatti e Mauri considera l’ispiratore del suo alpinismo: Herman Buhl. L’anno precedente, a soli 17 anni, con Bepi Pellegrinon aveva salito in inverno la cima Mugoni nel Gruppo del Catinaccio; nell’inverno del 1964 con Pino Negri (figura di grande rilievo anche se poco nota fuori Lecco) , Ermenegildo Arcelli e Andrea Cattaneo gli riesci la Cassin-Ratti alla Torre Trieste, cui seguirà l’anno dopo la prima invernale allo spigolo del Badile ancora con Pino Negri e Casimiro Ferrari. Lasciato l’alpinismo invernale (a cui farà un significativo rientro nel 1974 con il Pic Gugliermina) si dedica dal 1967 all’apertura, sempre con uno spirito molto aperto e moderno, di nuove vie.

Fra di esse spicca proprio nel’67 lo spigolo nord-ovest della Cima Su Alto, di cui Livanos (citato da Gogna) dice: “Di fronte a noi, lo spaventoso profilo dello spigolo illuminato dalla luna piomba nell’ombra nera. – Dì un po’, ti vedi su un affare del genere? – Ci stavo proprio pensando, e mi dava il mal di mare solo a guardarlo! – Che si tratti di una via del futuro, quando la nostra Su Alto costituirà solamente un itinerario di allenamento per mediocri salitori?” Aggiunge Gogna “Piussi, Molin, Anghileri, Panzeri e Cariboni fecero un capolavoro, perchè limitarono davvero l’uso dei mezzi: la loro fu un’impresa bella ed innovatrice”

Nel 1968 è il Gran Capucin a vederlo all’opera con Carlo Mauri, Cariboni, Ferrari e Negri per tracciare sulla parete est la Via dei Ragni. Nel 1972 con Gogna e Ravà lo spigolo nord-est della Brenta Alta e con gli stessi e Lanfranchi, la sud della Terza Pala di San Lucano. Nel 1973 Con Meles e Fumagalli, la sud della Busazza, una via dedicata al suo amico Ninotta Locatelli, mancato da poco. Come si può vedere non molte, ma molto significative le sue firme, cui s’aggiunge una serie impressionante di ripetizioni di cui vi risparmio l’elenco.

I due “bambini” della antica fotografia si direbbero oggi, con un’espressione tra l’antiquato e lo scherzoso, due “baldi giovanotti”: Giorgio (classe 1970) e Marco (classe 1972). Se per Marco, convertito solo da due anni alla montagna, dopo un’intensa attività calcistica, il curriculum si sbriga velocemente con la prima invernale della via del Pilone Centrale alla Cima Su Alto (inverno 1992) e il solito elenco di ripetizioni di alto livello, per Giorgio il discorso si fa lunghetto. Nel 1989 con Milani e Panzeri (il figlio di Ernesto, vecchio compagno di Aldino) le invernali al Diedro Casarotto allo Spiz del Lagunaz e l’Anghileri-Meles-Fumagali in Busazza. Dopo qualche altra ripetizione di prestigio, fra cui spicca la solitaria alla Anghileri-Gogna-Ravà alla Brenta Alta, arriva nell’estate del 1991 il “mese terribile”: BreackDance in Medale, Cavallo Pazzo al Sasso Cavallo, Via Paolo Fabbri 43 in Val di Mello e Anghileri-Piussi-Cariboni-Panzeri alla Su Alto: tutte in solitaria! Poi un gesto bello ed elegante dedicato a un amico morto in un incidente d’auto: l’apertura con Manuele Panzeri, della via Luca sulla Quanta Pala di San Lucanao: 500 metricon parecchio 7+ e un po’ di A3, tutto rigorosamente con chiodi normali.

Il colloquio si svolge nell’ufficio di Aldino, nella sede della ditta di importazione di materiale alpinistico, di cui è proprietario e della quale si occupa con la collaborazione dei figli.

>Giorgio, che senso ha per te il rifiuto dello spit in montagna?
Giorgio: «Qualche spit ho provato a metterlo ma in montagna non sento più l’avventura se li uso. Allora li lascio direttamente a casa perchè una volta che li hai con te sai che puoi usarli. Il salto in avanti lo si è fatto col Pesce di Koller, un salto paragonabile a quelli attuati da Rebitsch e Messner. Intendiamoci io non voglio far polemica, faccio così ma rispetto chi si comporta in modo diverso. Per me il Pesce è un punto di riferimento obbligato… una filosofia»

>Aldino, cos’era il vostro Pesce?
Aldino: «Mah, negli anni ‘60 – però ragazzi che cambiamento! – potevano essere la Vinatzer o la Soldà, forse le tre direttissime della Lavareto (Francesi, Tedeschi, Scogliattoli) oppure la Lacedelli-Ghedina che ho fatto l’estate che l’ha ripetuta Messner. Però quando ho fatto la Eisenstecken alla Rodadi Vaèl (era una via che ci tenevi a fare, ma andavi là in segreto perchè non si sapesse di un eventuale fallimento) in 8 ore con Galiber, l’abbiamo trovata dura, ma capivamo che avevamo ancora margine. Poi è arrivato Messner con le sue solitarie e s’è capito che lui stava iniziando qualcosa di più»
Marco: «Oggi queste nuove vie “fuori di testa” di Knez in Lavaredo o alla Scottoni sono valutate intorno al 9° – e con chiodi normali, ma il salto grande l’ha fatto Koller che ha guadagnato la placconata dove ora sale il Pesce: niente fessure, niente diedri e ha comunque deciso di salire lì. E ti giuro che dal sotto fa davvero paura.»
Giorgio: «E’ come quando Messner ha dimostrato che gli 8.000 si potevano fare senza bombole: la grande innovazione è quella»

>Aldo, tu fra i lecchesi sei stato uno dei pochissimi che ha cercato dei contatti negli ambienti esterni, come mai?
Aldino: «In effetti io, che sono nato nel 1946 (stessa annata di gente di gran classe, uno per tutti Reinhard Karl, anche se un po’ alla volta stiamo andando alla malora..) ho iniziato con Mario Burini (un accademico legato agli ambienti lecchesi) e con Casimiro Ferrari e Ninotta Locatelli, che forse era il più aperto… ammetto che il Casimiro, che era un po’ più vecchio di me, l’ho sempre un po’ subìto… in effetti gli alpinisti non lecchesi mi davano di più. Allora facevo il meccanico, non ancora il rappresentante e l’alpinismo era il modo per girare e conoscere amici. Nel 1964 incontrari Barbier e lo invitai al campeggio dei Ragni: lui si faceva una solitaria al giorno: Aste, Detassis… in sei giorni sei solitarie. La sera scendeva in paese a vedere se era arrivato un suo amico. Al campeggio al suo arrivo avvertii una “non serenità”. Eppure questi campeggi in qualche caso, prendi quello in Cecoslovacchia nel 1967, sono stati fonte di buone aperture»

>E voi giovani non sentite l’esigenza di contatti?
Marco: «Sì! Oggi sono un po’ pochi, forse scontiamo una certa facilità di viaggiare che porta un po’ di impermeabilità agli ambienti esterni. Danilo Valsecchi di recente ha proposto di promuovere gli scambi o gli incontri fra ragazzi di diverse città o nazioni».
Aldino: «Vedi, una volta il campeggio serviva a “girare”, oggi serve per stare in compagnia, una volta era l’unica occasione nell’anno per vedere posti nuovi, oggi fa piacere ritrovarsi con gli amici. Comunque per tornare ai contatti, nell’ambiente palpavi una certa invidia quando dicevi che avevi fatto una salita con Pelligrinon, Dal Bosco o Gogna»

>E l’ambiente lecchese come lo vivete?
Giorgio: «Mah, più che l’ambiente direi gli amici, al Cai non ci sono molti giovani. Ai Gamma siamo una bella compagnia, ma a Lecco andare in montagna è piuttosto normale»
Marco: «In piazza la sera capita di parlare, di confrontare esperienze, ma gran parte dei giovani sono più tentati dall’arrampicata sportiva che dalla montagna»
Aldino: «Fa piacere leggere dei propri figli sul Giornale di Lecco. Mi ricordo che un alpinista lecchese quasi trent’anni fa quando gli chiesero informazioni per fare un pezzo sulla sua salita invernale chiese “Ma ci sarà da pagare?”. Si era più ingenui allora, giravano meno notizie: ricoro che quando la spedizione del McKinley (1961) fece ritorno in città Cassin e compagni furono portati in trionfo su una Jeep con banda e fiaccoalta.»

>E la storia del Lothse?
Aldino: «Eravamo là in 14 e 15 avevano dubbi. Su questi dubbi al campobase di discuteva. Io facevo parte di una generazione sicuramente un po’ confusionaria. Dubbi e difficoltà furoni ingigantiti dal brutto tempo e dalle slavine che colpirono la spedizione. Io invece di aspettare al campo che il Lothse s’abbassasse o diventasse più facile, decisi che quello non era l’alpinismo che faceva per me. Dissero “Perchè sei andato se non eri sicuro di saper soffrire?” Cosa ne sapevo io? Era un’occasione, una via che molti sognavano di fare; un occasione così capitava ogni 10 anni. Bisognava andare. Ma intendiamoci: nel bene e nel male questa esperienza mi accompagna ancora oggi. Mi ha arricchito in maniera davvero considerevole. Forse questi “giovinastri” che progettano per l’anno venturo una spedizione in stile moderno a un prestigioso obbiettivo himlayano, forse soffriranno meno.»

>Senti Giorgio, spiegami questa storia delle solitarie che hai compiuto lo scorso anno
Giorgio: «L’estate scorsa stavo bene, ero caricato, avevo arrampicato tre o quattro giorni di fila e mi andava di provare qualcosa di più, qualcosa di diverso. Ho provato con BreakDance, poi con Cavallo Pazzo e a qual punto ero pronto per la Su Alto»
Marco: «Era davvero caricatissimo; eravamo lì in quattro per fare la Ratti-Vitali e lui mi fa “Io faccio lo spigolo! Ciao” e via»
Giorgio: «Dopo però ho fatto l’Eiger con Lorenzo Mazzoleni e poi più niente. Non è obbligatorio andare sempre. Per me è bello anche andare a camminare.»

>E tu, Marco, raccontaci dei tuoi inizi
Marco: «E’ solo due o tre anni che vado, anche se è qualche cosa con loro l’avevo già fatta. Una domenica sono andato in compagnia a camminare, quella dopo a fare una ferrata, da lì mi è scoppiata la passione ed eccomi qui»

>Dorme la notte un padre con due figli così?
Aldino: «Sìì, diciamo che dorme meglio quando magari alle due di notte arriva la telefonata che dice “Tutto bene”»

>Ma per il futuro cosa vedete? E che programmi avete? Marco sta sul vago, ma giurerei che ha in mente qualcosa…
Giorgio: «Quest’estate mi piacerebbe dedicarmi un po’ di più al ghiaccio, alle pareti nord. Fare delle vie di misto. Dopo tutta la roccia dell’anno scorso non vorrei specializzarmi troppo.»

>Ne approfitto per rilanciare: c’è qualcosa che su ghiaccio costituisca un punto di riferimento paragonabile al Pesce?
Giorgio: «Le tre nord, Le Droites, per i canalini percosi dalle vie moderne c’è un problema di condizioni»
Marco: «Per il discorso degli orizzonti futuri io vedrei non tanto una via, quanto la capacità di muoversi bene su qualsiasi terreno, magari da solo, inventandoti l’itinerario lì per lì.»

>In un attimo ci ritroviamo davanti le foto del Bianco appese nell’ufficio. Le dita seguono linee immaginarie: “su da questo sperone, girare, traversare… pensa in Himalaya… ma evoluzione è anche “divertirsi”.
Aldino: «Pensate ai concatenamenti. Quando Floriano Castelnuovo e Danilo Valsecchi infilarono Cengalo, Punta Sertori, giù dallo spigolo del Badile per finire con la nord-est: erano parecchi anni fa. Poi la stampa ha fatto dei concatenamenti cose per star, ma ce ne sono dal 3° all’8° grado, alla ricerca della “giornata vissuta lungamente”, il modo migliore per compenetrarsi con la montagna. Forse si potrebbe quasi smetterla di parlare di alpinismo, per sostituire il termine con “andare in montagna”, insomma, sentirsi a proprio agio in montagna. Sabato sono andato dal rifugio Bietti al Sasso Cavallo: non c’era un anima in giro e pensavo a Finale sarà pieno, in chissà quanti altri posti sarà pieno e qui nessuno. Poi domenica ho fotto la Oppio con loro e ho visto per la prima volta 30 persone al Sasso Cavallo. Merito o colpa dell’articolo su Alp. Malgrado tutto manca la fantasia. E scusa, ma già che sono lasciami spezzare una lancia in favore del vecchio chiodo, sai per noi a Lecco il fascino del ferro: sulla Oppio ne mancano un po’ e spererei che qualche giovane ne piantasse qualcuno. Lo sai che bel rumore fa un chiodo che entra bene? Ci sono certi chiodi di Oppio e Cassin che ancora oggi danno più affidamento di certi spit di 10 anni fa»

>Anche Marco e Giorgio annuiscono, anche se per loro la libera ha sempre quel qualcosa in più. Ma Aldino, alla fine, che cosa ti ha dato la montagna?
Aldino: «Mi ha fatto godere le mie fortune per dieci quindici anni, ma soprattutto mi ha insegnato che cos’è bello. Ti faccio un esempio: una volta tutti buttavano via le lattine, poi s’è capito che non si doveva fare, non si doveva sporcare in giro. Per noi è stata una conquista capirlo, e adesso che vedo a lecco le aiuole sporche e la scuola dove sono andato da bambino che sembra un rudere capisco che la montagna mi ha aperto gli occhi. Poi mi ha aiutato ad educare i miei figli, anche se non li ho mai costretti a venire con me. A questo proposito sarebbe bello creare a Lecco una scuola quasi permanente di montagna, che potrebbe essere un punto di riferimento anche per qui giovani che si trovano “a zero” come interessi, come iniziative»

Il colloquio in pratica finisce qui. Mentre mi avvio alla porta, accompagnato da Aldino, c’è ancora il tempo per un’ultima battuta «Lo sai cosa dico a quei due lì quando in estate alle cinque con ancora un mucchio di roba da fare? Andate, andate il mio “8a” adesso io me lo faccio qui»

La Direttissima del Coglians

La Direttissima del Coglians

Credo sia la legge del “contrappasso”, dopo aver dato allegramente dei “mona” ai tre uomini di punta del Badger Team il destino si è preso gioco di me: fuori ci sono -13 gradi mentre dentro, io e Bruna, abbiamo +39 di febbre e l’influenza più dolorosa che mi riesca di ricordare. Così, sostituiti da un pressante mal di testa, tutti i miei gloriosi progetti esplorativi sono andati in fumo. Anzi, caricare stufa e camino sono ormai le nostre uniche priorità. (Povera Bruna!!)

Tuttavia, con questo freddo, sarebbe stato ben poco saggio andarmene in giro da solo a curiosare “ravanando”. Quindi, sbattuto in panchina, pensavo non mi restasse altro che “binocolare” attraverso le finestre della veranda avvolto mestamente in una coperta. Invece, inaspettatamente, dalla libreria di mio padre sono saltati fuori una serie di annuari di cui non conoscevo neppure l’esistenza: “Collina – Circolo Culturale E.Caneva – Unione Sportiva – Giornale Sociale”.

Una pubblicazione annuale, riservata ai soci, che contiene sia articoli in italiano che nel tradizionale dialetto carnico, che per molti aspetti è una vera e propria lingua, qui molto usata e ben conservata. Sfogliando le riviste, attratto dalle foto dei monti, pensavo di imbattermi nelle “solite cose”, nella punteggiatura, preziosa ma non troppo accattivante, degli eventi che caratterizzano l’anno di una comunità: feste, ricorrenze, celebrazioni, ecc… Mi aspettavo qualche racconto storico, inevitabilmente legato alla prima guerra mondiale o all’epoca contadina, ed invece, con enorme sorpresa, ho trovato un sacco di racconti di montagna!

Solo allora mi sono reso conto di quanto poco conosca la storia “alpinistica” di queste montagne, dei suoi protagonisti, degli avventurosi che si sono spinti lassù guidati forse dalla stessa spinta che mi muove mentre influenzato me ne sto rinchiuso sospirando con il binocolo in mano. Ovviamente queste riviste sono finite diritte diritte nell’archivio della Biblioteca Canova ed inoltre, tra queste storie, ne ho scelta e trascritta una che è certamente emblematica e che forse meglio descrive quello che cerco di spiegarvi. Credo saprà intrigarvi!

La Direttissima del Coglians – di Armando del Regno (2008)

Una sera di fine settembre 1950, l’amico Leonida Tolazzi (all’epoca lui quindicenne ed io diciassettenne) mi propose, con tanto entusiasmo di scalare il Monte Cogliàns. “Ma da che via – chiesi io- dalla Nord (parte austriaca) oppure dalla parte sud partendo dal rifugio Marinelli?” No, no, per ‘direttissima’ mi disse lui”. Poi ad un mio silenzio interlocutorio, lui confermò: “Sì, la direttissima del Coglians”. La Diretttissima del Coglians, sul versante Ovest, così imponente e grandiosa come la si vede da Collina, tale da incutere un timore revernziale in chiunque la guarda, a me non era mai passato per la mente di avvicinarla.

Da montanari avevamo certo confidenza con la montagna, entrambi eravamo figli di gestori alpini, del Lambertenghi al Passo Volaja io, del Marinelli lui, ma mai avevamo seguito corsi di roccia, tanto meno possedevamo la necessaria attrezzatura; ci soccorse la incoscienza giovanili (ma se volete potete chiamarlo pure coraggio… non mi offendo) solo questa poteva spingerci ad affrontare quell’avventura. Per convincermi, Leonida mi disse subito: “Conosco bene la via perchè mi è stata spiegata da Cirillo Floreanini (l’unisco scalatore friulano che fece parte della famosa spedizione italiana che conquisto il K2, quindi una garanzia) e così dicendo, mi spiegava da Collina il percorso ed i passaggi più pericolosi.

Accettai, e lì per lì decidemmo così l’organizzazione della spedizione: primo, non avvertire i nostri genitori, nè altre persone, perchè ci avrebbero vietato di fare una cosa del genere; secondo, in mancanza di altro, in scalata avremmo dovuto usare i nostri “scarpez”, con la suola di pezza, al fine di non scivolare sulla roccia eventualmente bagnata; terzo, Leonida, che già sapeva che avrei accettato, aveva già preparato una “sojo” (la corda che in montagna si usa per legare la balla di fieno) da usare in luogo di corda da roccia, di cui eravamo sprovvisti, ed infine come vitto solo due cioccolate amare, perchè di poco peso e molta sostanza durante la scalata.

Partimmo alle ore 6:30 quando ancora tutti dormivano e senza alcuna difficoltà raggiungemmo la parte bassa del nevaio ai piedi del Coglians, ai tempi molto più gonfio ed esteso di adesso. E là, consci della grande impresa che avevamo iniziato ci fermammo a guardare Collina nella sua piccola valla che stava per essere inondata dal sole settembrino; a scrutare il sovrastante, ripidissimo e minaccioso nevaio: a cercare con lo sguardo il “punto rosso” che segna l’inizio vero e proprio della scalata, tracciato nella roccia con vernice rossa (da chi? Forse dal primo che ha aperto tale via?). Il punto Rosso venne subito identificato (il Floreani nelle sue indicazioni era stato preciso) e subito un silenzio assordante ci colse, non riuscivamo a parlarci e, guardando verso l’altro, i nostri pensieri pare siano stati identici… erano domande più che pensieri. “Da quale lato superare il nevaio? Come raggiungere il punto rosso? E dopo, come superare tutte le difficoltà che avrebbe presentato la scalata?”

Partimmo! E fu naturale dividere l’ascensione in quattro parti. Il primo tratto da superare fu quello del nevaio, che venne effettuato sulla sinistra guardando la vetta del Coglians, restando però sempre al suo fianco sulla roccia, perchè scoperta di neve. Ogni tanto, sul nostro passaggio, talune lastre erano bagnate dall’acqua che filtrava dalle fessure di quelle sovrastanti, e bene facemmo ad usare i nostri “scarpez” per non scivolare. Il punto più difficile di questo primo tratto, fu quello di superare in altro a sinistra l’alveo del nevaio, alto una decina di metri, per portarci sul terminale sud della Cima dei Lastroni. A questo punto superato il primo vero ostacolo, con grande sollievo, vedemmo più vicino il “punto rosso”, che rispetto a noi era in linea retta con la punta della montagna. Forse per questo la scalata è stata chiamata la “Direttissima del Coglians”.

Il secondo tratto, dopo il nevaio, fu quello per raggiungere l’attacco vero e proprio della scalata, indicato dal detto punto rosso di vernice. Puntammo direttamente su quel segno, senza fare giravolte e lo raggiungemmo con una certa celerità e senza particolari difficoltà. Erano le ore undici e ci parve subito di avere raggiunto una parte importante della nostra impresa. Ci sembrò di vedere in quel punto rosso “la stella cometa” che ci avrebbe portato con certezza alla nostra prima conquista di una vera montagna. Riposammo per un buon quarto d’ora e mangiammo la desiderata tavoletta di cioccolata.

Il terzo tratto, il più difficile dei primi due, parte dal segno rosso e con qualche rapida parte e qualche canalone da superare, va sempre in direttissima, fino nella parte alta dell’unico ghiaione (visibile da Collina) che si trova sulla direttissima del Coglians. Il punto più difficile di questo tratto (un buon terzo, quarto grado a nostro parere) è il Camino che dalla parte più alta del ghiaione ti porta nella sovrastante parte alta della scalata. Il Camino è alto otto, dieci metri, largo da cinquanta a ottanta centimetri con le pareti lisce e prive di qualsiasi appiglio. Per superarlo dovemmo usare (a mo’ di lombrico) i talloni, le ginocchia, la schiena, il sedere, le mani ed anche la fronte.

Mi ricordo che per primo salì Leonida, io mi spinsi in alto più che potei, seppure solo di due metri e mezzo, e lui riuscì a salire fino alla fine del camino usando il modo predetto. Ed ecco che a quel punto entrò in funzione la “sojo”, me la lanciò e mi aiutò a salire (solo dopo Leonida mi disse che il Floreanini lo aveva avvertito delle difficoltà di quel passaggio). Siamo al quarto ed ultimo tratto, cinque, seicento metri che dall’alto del Camino in cima al ghiaione, ti separano dalle vetta. Sempre in dirette riprendemmo a salire verso la cima, ormai sicuri e contenti di raggiungere lo scopo.

Arrivarono anche le nuvole, il vento freddo e noi accelerammo il passo per non farci prendere dalla pioggia. Vicini alla vetta la pioggia ci sorprese; da lassù, un gruppo di tedeschi, immersi in un religioso silenzio, osservava ammutolito quei due ragazzi coraggiosi al termine della loro impresa. All’arrivo erano circa le ore quattordici, il gruppo ci accolse con un fragoroso applauso e un bravo, bravo che ci riempì di soddisfazione.

Tornati a casa, ai nostri rispettivi genitori che ci chiesero dove eravamo stati tutti il giorno, con tanto da fare a casa (la legna, il fieno, il pascolo, ecc..), onde evitare giusti rimproveri, rimproveri solitamente non teneri a quei tempi, decidemmo di non rispondere alla domanda e non manifestammo ad alcuno la grande impresa da noi compiuta. Il velo d’oblio durò per anni, fino quasi a farci dimenticare tutto.

A proposito della nostra scalata, che successivamente Leonida ha fatto in invernale ed in notturna con altri compagni di viaggio, al fine di scoprire il primo che ha aperto questa via, riesaminando questi giorni (ottobre 2008), tanti libri specializzati sulle vie e scalate della montagna Carnica e sul Monte Coglians, ho potuto notare che sono indicate tante vie: la nord in Austria, la sud dal Marinelli, la est della Cjanevate, ma della nostra “Direttissima del Coglians”, lato ovest, con partenza dal sottostante nevaio, non ho trovato nessuna traccia. Mandi Leonida, ora che ci hai lasciati è giunta l’ora di raccontarla… tanto lassù chi ti rimprovera?


Una direttissima infinita e quasi dimenticata attraverso la parete Ovest con un passaggio chiave in camino (evvai!), una “storia nella roccia” su cui investigare ed esplorare. Accidenti! Ce ne è abbastanza da farmi salire la febbre anche senza l’influenza!

Davide “Birillo” Valsecchi

Rimprovero ad un morto

Rimprovero ad un morto

Un uomo sta precipitando giù dalla parete Nord dell’Eiger. In posa orizzontale gira piano su se stesso ma fila giù come un bolide. Così lo vede per pochi istanti il giornalista inglese Peter Gillman con il cannocchiale da una terrazza della Kleine Scheidegg. Gli sorge il dubbio non sia nemmeno un uomo ma un sacco da montagna, invece è proprio un uomo, l’americano John Harlin, che era sulla corda fissa, tra il pilastro Centrale e il Ragno, lungo la via diretta dell’Eiger.

Questo è un passaggio di un articolo scritto da Eugenio Sebastiani per la rivista “Rassegna Alpina” del Marzo 1968, a due anni esatti dalla morte di Harlin avvenuta quando aveva 31 anni. Ho pensato a lungo se fosse opportuno trascrivere questo articolo, Sebastiani prosegue in modo davvero duro, ma per un motivo o per l’altro John Harlin è apparso spesso nei miei ultimi articoli e così ho sentito di dover dare forma ai miei pensieri su questa storia.

E’ morto – prosegue Sebastiani – perchè si è rotta la corda fissa. Al solito. La corda è stata collocata da molti giorni sulla parete per servire al metodo Himalayano adottato per la scalata. Un metodo che non fa brillare l’alpinismo nelle nostre Alpi perchè un metodo truffa. Quella corda a furia di sfregarsi contro la roccia e il ghiaccio della parete si è rotta. E John, che era appeso a quella corda, è caduto da mille metri come un sacco da montagna, nemmeno come un alpinista in gamba.

Sebastiani attacca poi con una filippica sui figli di Harlin, resi orfani dalle scelte azzardate del padre – I fortunati compagni di John credono di aver eretto un bel monumento dedicandogli quella via. Io invece gli dedico un rimprovero. Inutile venirmi a dire che io sono cattivo con il morto e che, a rimproverarlo così, faccio male. Io non sono cattivo perchè voglio troppo bene ai quei bambini rimasti orfani di un padre che aveva solo un quarto di testa sulle spalle. John, morendo, non ha trasmesso all’umanità l’antiutopia della verticale applicata alla parete che si disegna in un baleno con riga e squadra sulle fotografie così come lui l’ha saputa disegnare nel vuoto col salto dei suoi mille metri: la linea verticale che ripeterebbe un bolide di piombo pesante una tonnellata fatto cadere dalla vetta dell’Eiger in un giorno sereno senza venti. John, tu sei il primo morto alla quale, in vita mia, io dedico un rimprovero. John cosa hai pensato durante la caduta? Ai tuoi bambini o alla via diretta incompiuta? Sia detto una volta per sempre che chi preferisce la parete dell’Eiger alle pareti domestiche è un disperato che non ha saputo scegliere il vero amore. Ma chissà quante volte lo dovrò ripetere senza tanti riguardi per i vivi e per i morti.

Leggendo quest’articolo, vecchio di ormai quasi cinquantanni, ero sbigottito e spaesato. Non sapevo cosa pensare e mi spaventava tanta impietosa crudezza. Certo, l’articolo era realizzato palesemente per fare scalpore, per accusare e criticare soprattutto la consuetudine alle “dirette” di quegli anni, ma la morte è qualcosa che in montagna attraversa costante le epoche. Anche la mia generazione ha i suoi caduti: mi hanno sempre spaventato le accuse come quelle mosse da Sebastiani, ed ancor più mi spaventano quelle aspre e ciniche di chi la montagna non la conosce. Accuse che sono tutt’oggi attuali, basti pensare al clamore televisivo per la morte di Unterkircher nel 2008 o ai caduti più recenti tra gli alpinisti lariani. “Morti inutili, facevano meglio a starsene a casa loro. Se la sono cercata. Speriamo sia d’esempio agli altri”.

Ancora turbato ho continuato le mie ricerche tra le riviste della Biblioteca imbattendomi, nel numero successivo della rivista, in qualcosa di assolutamente inaspettato: le lettere dei lettori

Caro Direttore,
Ho letto l’articolo di E. Sebastiani sul n.3 della “Rassegna Alpina” e dico il vero ne sono rimasto molto disgustato. Mi domando se questo Sebastiani è alpinista o almeno sportivo. Mi domando pure se un individuo può criticare così violentemente degli sportivi e soprattutto un morto, anche se questo ha fatto dell’alpinismo che Sebastiani non condivide. A questo punto tutti gli alpinisti e gli sportivi che praticano sport pericolosi, sarebbero dei fanatici pazzoidi senza alcun senso di responsabilità. Io dico invece che è tutto il contrario, questi uomini affrontano i rischi della montagna (per citare questa dato che siamo in tema) perchè hanno l’orgoglio di conquista e di evadere dal normale, come lo è lo spirito dei migliori e tentano queste imprese con preparazione e coscienza per vincere, non come dei Kamicase. Può subentrare la disgrazia, ma questo può accadere in ogni cosa che l’uomo faccia. Mi meraviglio anche che Lei lasci pubblicare nella “Rassegna Alpina”, che ha una veste che non mi dispiace, tali articoli che recano solo danno.

Riccardo Cassin, Lecco

Quasi impensabile immaginare nella nostra epoca un Riccardo Cassin che prende carta e penna per rispondere a tono e chiare lettere ad un articolo di una rivista. Oltre a quella di Cassin anche altre lettere simili di Carlo Ramella di Biella e di Guido Tonella da Ginevra.

Cassin, Tonella ed Eiger fanno subito pensare alla drammatica storia di Claudio Corti e Luigi Longhi nel’57. Ai giorni in ospedale insieme al Bigio ed al ritorno a Lecco in “topolino”, tra accuse e maldicenze che saranno interminabili. Ma all’epoca di questa lettera per quella storia, tanto terribile quanto complessa, sono ormai passati quasi dieci anni. Il corpo di Longhi non è più sulla nord dell’Eiger, Cassin ha quasi sessantanni e scrive come un “vecchio saggio”, anche dell’alpinismo. Per un “ganivello” come me, un “CASSIN” che si alza in piedi e nero su bianco scrive un messaggio che può essere parafrasato volgarmente come “Smettetela di dire sciocchezze riempiendovi la bocca con cose che non capite”: è qualcosa di liberatorio, quasi protettivo, universale e senza tempo. Un maestro che si alza per cavare d’impiccio le giovani cinture nere e che ferma gli avversari sulla porta con il solo sguardo. Un patrono nelle incertezze di noi piccoli alpinisti, che con i grandi condividiamo spesso solo i rischi.

Ma se l’inquietudine aveva trovato un equilibrio c’era ancora qualcosa che mi turbava. Ho la casa piena di riviste, centinaia di volumi spesso più vecchi di me. Articoli, lettere, riflessioni: nonostante l’età vibrano di una vitalità capace di coinvolgere tutto il mondo dell’alpinistico della propria epoca. Oggi le riviste sono quasi scomparse o ridotte a patinate “réclame” su carta. Il loro posto ed il loro ruolo sembra essere stato preso dal Web, dai Blog e dai Forum. Tuttavia credo che qualcosa sia andato perso: quello che le vecchie riviste mi stiano mostrando è soprattutto un metodo ed un autorevolezza che è oggi smarrita. Fuori dai denti: ve lo immaginate Cassin che scrive una lettera come questa in un forum tipo PlanetMountain infilandosi tra una battutina ed una faccina trollosa di “Crodaiolo” e “leoni da tastiera”? Io no. La mia è una riflessione che non vuole certo essere offensiva (mi raccomando Daniele!), ma che è di certo significativa e a cui dovremo trovare risposta per non rischiare una potenziale irreversibile deriva. Carta e penna contro smartphone, gps, webcam e social network: abbiamo mezzi e possibilità incredibili ma sappiamo ancora parlare, scrivere o discutere di montagna?

Davide “Birillo” Valsecchi

Ultima nota per chiudere questa storia. Nella foto John Harlin II e la sua famiglia in Svizzera negli anni ’60. John Harlin III, bambino nella foto, è diventato uno scrittore, un alpinista, un padre di famiglia e nel settembre del 2005 ha scalato la Nord dell’Eiger realizzando un documentario sul padre. 

L’Aiguille du Fou

L’Aiguille du Fou

Con il libro di Mirella Tenderini, “Gary Hemming”, ritorna l’identità emblematica di un alpinista d’oltre oceano che, sulle Alpi, ha impersonato tutta un’epoca di rivoluzione intellettuale e sociale. Da uno stralcio della sua biografia, nei momenti della salita alla parete Sud del Fou, traspare la figura dell’anti eroe, del vagabondo precursore di un linguaggio di dissacrazione.  Nella foto, storica e celebre, compaiono da sinistra John Harlin II, Tom Frost, Gary Hemming e Stewart Fulton. Il testo che segue è tratto dal libro di Mirella Tenderini ed era stato pubblicato sulla rivista “ALP” nel Novembre del 1992. Una copia  di questa rivista è conservata nella Biblioteca Canova di Cima-Asso.

Il 1963 è un anno importante per Gary. Ha 29 anni, adesso ha la responsabilità di un figlio ed è ora di trovarsi un lavoro stabile. In Scozia ha conosciuto uno svedese che ha un’attività commerciale a Stoccolma e gli ha proposto di lavorare per lui come “export manager”. Si tratta di vendere automobili nle Nord Africa. Il Nord Africa! Vuol dire viaggio, avventura, anche se il lavoro in sé è banale – ma sarà un impegno fisso che gli permetterà di mandare con regolarità a Claude l’assegno per il mantenimento del figlio. Un’occasione splendida per conciliare la necessità di maggiore stabilità con l’insofferenza della routine. Gary scrive a Mr. Goutemberg per comunicargli la sua decisione: il lavoro gli interessa molto, prenderà servizio quanto prima. Invece bisogna aspettare qualche mese.

Non è una cattiva idea, prima di impegolarsi con un lavoro fisso, fare ancora qualcosa di bello in montagna. E’ d’accordo con John per andare insieme in estate ad arrampicare al Monte Bianco. In programma, tra le altre cose, c’è una nuova via, esteticamente molto bella, sul Fou, nelle Aiguilles de Chamonix. Intanto con gli amici francesi si allena sulle montagne vicino a Grenoble. A Grenoble Gary fa la conoscenza di un alpinista scozzese. Si chiama Stewart Fulton, parla male il francese, che non si preoccupa peraltro di imparare, e non ha amici. Gary lo ospita, lo porta con se ad arrampicare.

Compiono diverse ascensioni nel Vercors e nelle Chartreuse, anche un paio di nuove salite, al Pic de Bure e al Rocher du Midi. Stewart non è il compagno ideale per Gary che si irrita per la sua pigrizia, gli rimprovera di non partecipare alla preparazione delle ascensioni e di non mettere abbastanza impegno nell’apprendere le tecniche per l’uso dei chiodi e delle corde, ma è un forte arrampicatore e Gary lo coinvolge nel progetto del Fou. In giugno vanno a Chamonix e salgono al rifugio Envers des Aiguilles. John è già la con Konrad Kirch, il giovane disperso sul Picco Gugliermina un paio d’anni prima, che ha continuato a frequentare John ed è divenuto il suo compagno di cordata abituale. Hanno salito insieme anche la Nord dell’Eiger! L’ossessione di John, finalmente il suo sogno realizzato… Sono in grandissima forma.

John e Konrad sono saliti il giorno prima lungo il couloir che porta all’attacco: hanno avuto difficoltà per via delle neve alta ed hanno rinunciato perchè c’era pericolo di valanghe. Dicono che la parete presenta più problemi di quanto si pensasse. Apparentemente c’è uno strapiombo immenso che non sarà facile superare. E il tempo è pessimo: la stagione è ancora in ritardo di un mese. E poi non c’è abbastanza materiale, mancano chiodi orizzontali, Rurp e Bong e non hanno nemmeno abbastanza chiodi normali da lasciare sullo strapiombo in caso di pendolo o ritirata in corda doppia. Inoltre sopraggiunge una bufera di neve e a tutti quanti non resta che tornarsene a casa.

Gary va alle Calanques. Li c’è sempre il sole, e Gary si rilassa nell’arrampicata sulle scogliere candide a picco sul mare azzurro. Torna a Chamonix in luglio con Clude e Fulton.John lo aspetta con Mara, sua moglie. Konrad Kirch non è potuto tornare ma al suo posto c’è un vecchio amico! Tom Frost è appena tornato dal Nepal dove è stato con Hillary per costruire le scuole per gli sherpa – e con l’occasione ha fatto qualche salita. E’ venuto a Chamonix per passare l’estate sulle Alpi e si unisce a loro con entusiasmo. Tom Frost è stato compagno di ascensione di Robbins in alcune delle “prime” più difficili in Yosemite. E’ bravo nell’arrampicata libera ed impareggiabile nell’arrampicata artificiale. Grande tecnico di materiale, ha portato un assortimento di chiodi cromo-molibdeno fabbricati da Chouinard, introvabili in Europa, che saranno indispensabili per la salita che si prevede molto impegnativa. Sono chiodi resistentissimi che una volta tolti dalla fessura in cui vengono piantati, riprendono la loro forma originale, e possono essere usati tranquillamente per molte altre volte.

Con Tom c’è la sua fidanzata, Dorene, che fa subito amicizia con Claude e Mara. La salita della parete Sud del Fou è davvero più difficile di quanto se l’aspettassero. I quattro alpinisti compiono un primo tentativo e arrivano a superare il primo strapiombo e a traversare lungo una fessurina diagonale. Bivaccano su una cengia strettissima. L’ama di John e Stewart si rompe ed i due sono costretti a passare la notte mal sistemati su scalette di corde. Il mattino dopo piove. Scendono tutti e quattro. Il secondo tentativo non va meglio, nonostante la salita sia più veloce lungo le corde che hanno lasciato in parete nei punti strapiombanti: piove anche questa volta ed in più Stewart si è fatto male ad una mano. Niente di grave ma è meglio rientrare un’altra volta.

La sera del 24 Tom e Stewart tornano all’attacco della via con Dorenne, e bivaccano sotto la parete. Il giorno dopo di primo mattino, Gary e John, con Claude e Mara, salgono la cresta Sud Est del Blaitière; la discesa li porta al bivacco del Fou. Lì lascino Dorene e Claude; Mara rientrerà insieme a due amici alpinisti che hanno aiutato a portare il materiale all’attacco.

I quattro uomini attaccano di nuovo la parete. Salgono rapidamente fino al punto più alto raggiunto in precedenza. Di lì Tom supera un altro strapiombo impegnativo con quello che John chiama “un capolavoro di ingegneria”, usano sia chiodini minuscoli in fessure quasi invisibili che un Bong da dieci centimetri. Sopra lo strapiombo c’è una cengia larga, perfetta per un bivacco. Non fanno in tempo a sistemarsi che comincia a grandinare. La tempesta non si acquieta per tutta la notte. I quattro alpinisti sono abbastanza protetti nei loro sacchi da bivacco ancorati alla cengia, ma sono preoccupati dai fulmini che si susseguono da vicino con bagliori sinistri. La grande luminaria tiene svegli tutta la notte anche le due donne alla base della parete. Prima di sistemarsi per la notte hanno scalato uno sperone roccioso di fronte alla parete ed hanno seguito la salita dei loro uomini. Li hanno visti arrivare alla cengia e sarebbero tranquille se non fosse per i lampi che non cessano. Il temporale si placa verso mattina e con la prima luce del giorno John e Gary si alternano alla guida delle cordate per completare la salita.

Hanno realizzato una delle vie più belle e più difficili delle Alpi, ma ancora una volta Gary e John si sono rivelati incompatibili. Non hanno fatto che discutere e criticarsi a vicenda, e in discesa sono arrivati molti vicini ad uno scontro fisico, quando John ha accusato gary di aver mosso dei sassi che per poco l’hanno mancato. Gary si è infuriato (perchè lui sta sempre molto attento a non far cadere i sassi) si è precipitato minacciosamente verso di lui. John gli si è mosso contro con il pugno destro levato e se Stewart Fulton non si fosse messo fisicamente in mezzo tra i due le cose si sarebbero messe male.

In aggiunta, John ha dato pubblicità alla salita prima della partenza ed al rientro ci sono giornalisti ad intervistarli, fotografi, ammiratori. John è nel suo elemento e fa la parte del leone. Gary è contrario a pubblicizzare la salita sin dall’inizio e non sopporta di fare parte dello spettacolo. Forse è geloso del successo di John che col suo aspetto di divo di Hollywood e la sua abilità nelle relazioni pubbliche si è accaparrato il ruolo di primo piano; o forse comincia ad accorgersi che l’alpinismo non è così importante per lui. Comunque rientra a Grenoble prima del tempo. John e Tom verranno invitati come rappresentanti americani ad un convegno alpinistico internazionale a Chamonix, si tratterranno tutta l’estate, compieranno nuove ascensioni e apriranno una nuova via impegnativa sul Pilier Derobé di Freney.

A Grenoble Gary ha molte cose da sistemare prima della sua partenza per la Svezia. Vole terminare il primo capitolo del libro che ha promesso al direttore della rivista “La Montagne” e che è a buon punto. Ha conosciuto un canadese che gli ha detto che in Canada ci sono opportunità di lavoro per insegnanti di francese. Gary, che commette sempre l’errore di attribuire agli altri i suoi stessi gusti e aspirazioni vuole convincere Claude ad andare in Canada. Deve sbrigarsi perchè il bambino nascerà a gennaio. Lui la raggiungerà di quando in quando, e di quando in quando troverà anche un lavoro vicino a lei. Altrimenti – la fantasia di Gary galoppa – potrebbe andare in Australia. Gli piacerebbe che suo figlio nascesse in Canada on in Australia, paesi dai grandi spazi, liberi dall’influenza nefasta dell’America e lontani dalla presenza minacciosa dell’Unione Sovietica. Preferirebbe che non nascesse in un Europa spezzata in due e appoggiata su una polveriera pronta ad esplodere. Da un po’ di tempo Gary è ossessionato dall’idea della guerra nucleare ed ora si preoccupa per suo figlio, lo vorrebbe al sicuro. Claude non ha nessuna intenzione di andare in Canada o in Australia. Ama la sua città, il suo lavoro, i suoi amici; è attaccata all’Europa ed alla sua cultura. Sono discussioni interminabili ma costruttive. Questo è anche un periodo di riflessione per Gary.

E’ in europa da tre anni ormai e si è quasi dimenticato i traguardi che si era prefissato quando era partito: allargare le sue esperienze e diventare uno scrittore. Fare dell’alpinismo, sì, ma non era solo quello che voleva. Scrive “… tutte queste mete sono come tante cime minori che impediscono all’arrampicatore la vista della vera vetta, che è molto alta e molto lontana. Quando finalmente ha salito queste cime minori l’alpinista può vedere o non vedere la vetta principale – ma che la veda o non la veda, è sempre lontano, se non addirittura più lontano di prima, perchè ora prima di salire quella vetta deve scendere dall’ultima cima minore che ha salito e cercare la sua strada tra le valli e le creste giù in basso”.

Testo originale di Mirella Tenderini, tratto dal suo libro “Gary Hemming: il ribelle delle Cime”, e pubblicato sulla rivista “ALP” nel Novembre del 1998. Foto di Tom Frost.


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La conquista del Cervino

La conquista del Cervino

dscf8868Il Cervino è una piramide strana, unica nelle Alpi. La sua cima di gneiss alta 4478 metri è sostenuta da quattro creste regolari separate da quattro pareti che dominano ghiacciai tra i più importanti delle Alpi. Visto da Zermatt, il Cervino è una splendida cima, una montagna ideale, una delle più belle apparizioni che un turista, alpinista o no, possa desiderare di vedere. A destra, la cresta di Zmutt urta in una sporgenza a forma di naso a strapiombo; a sinistra, la cresta del Furggen termina con scarpate incredibili, e queste due creste sembrano da sole riassumere tutto ciò che la natura possa offrire di grandioso ed equilibrato al tempo stesso. Bisogna poi aggiungere la cresta dell’Hörnli che sviluppa la sua architettura di precipizi su 1500 metri di altezza. Vista da Valtournanche, in Italia, la quarta cresta e la sua sporgenza, detta “della Becca”, danno alla montagna l’aspetto strano di un leone accovacciato.

Tra tutte le montagne, poche incarnano meglio l’idea di una cima inaccessibile ed ostile la cui vista soltanto basta a scoraggiare i più audaci. Per molto tempo guide di Zermatt, guide del Breuil, viaggiatori, alpinisti attraversavano il colle del Théodule, a piedi dalla cresta del Furggen senza immaginare che sarebbe venuto il giorno in cui un uomo avrebbe potuto vincere quella terribile cima.

Quest’uomo fu Edoardo Whymper. Nel 1860 questo giovane inglese era una disegnatore sconosciuto. Cinque anni dopo, era divenuto il più famoso, ma il più disgraziato degli alpinisti del suo tempo. Il suo primo contatto con il Cervino decise della vita dell’artista e della sorte della montagna.

Whymper apparteneva a quella specie di uomini che in una battaglia vedono solo il successo; la montagna però non mancava di buone difese ed era così forte da poter sostenere un lungo assedio. Whymper dedica il 1860 all’esplorazione dei dintorni; la cresta italiana del Leone, la cui pendenza generale è minore, gli sembra la via più propizia per un tentativo. Fin dall’inizio del 1861, parte in compagnia di un abitante della Valtournanche, il solo che abbia potuto convincere ad un’impresa di tal genere.

Alla Cheminéé, primo serio passaggio che supera solo a prezzo di grandi difficoltà, il compagno dell’inglese si rifiuta di proseguire. La delusion è l’epilogo della prima di una lunga serie di avventure. L’anno seguente Whymper guida quattro tentativi con alterna fortuna; essi falliscono sia per il cattivo tempo o per le difficoltà, sia a causa di ciò che il tenace inglese chiama un tradimento: lo scoraggiamento dei compagni. Ma whymper progredisce sempre; egli diviene un alpinista più esperto ed impara a conoscere gli uomini che come lui hanno gli occhi rivolti alla montagna, quelli che saranno i suoi alleati o i suoi nemici.

Tra essi si trova Jean-Antoine Carrel, guida della Valtournanche, montanaro perfetto, scalatore audace, nobile cavaliere delle Alpi, e che considera Whymper uno straniero senza alcun diritto sul cervino, su quella montagna, cioè, elevata da Dio in fondo alla Valtournanche per essere conquistata da un italiano. Carrel diffida l’usurpatore, mentre l’inglese non è meno irritato dalle inesattezze e dalle fantasie del montanaro.

La loro rivalità, tuttavia, non esclude l’amicizia e la stima, e i due hanno in comune la stessa tenacia e la stessa certezza nella vittoria finale. In Valtournanche, Whymper aveva un altro amico nella guida Luc Meynet, il quale, nonostante la sua disgrazia – era gobbo -, lo aiutò e lo seguì con coraggio e bravura, non alla ricerca della gloria, ma solo della soddisfazione di avere dato un valido contributo.

Con lui Whymper effettuò parecchi tentativi che non ebbero maggior successo dei precedenti e che furono anche superati da quello di Tyndall, nel 1862. Nel 1863 e 1864, l’inglese diede la misura della sua coraggiosa ostinazione accingendosi a nuovi tentativi. Nel frattempo, Whymper aveva trionfato in numerose ascensioni e dopo aver scalato gli Ecrins e l’Aiguille d’Argentières, attraversato il colle del Dolent e il Moming Pass, egli si unisce alla più celebre guida del momento, Michel Croz, nativo di Argentières, l’uomo dal cuore di leone, famoso per la sua forza ed il suo ardore. Nel mese di luglio del 1865, mentre le nevi si sciolgono ancora sulla montagna, tutto è pronto per l’ultimo atto. Whymper ha appena compiuto un tentativo in compagnia di Croz, di Biener, e di Almer ed è convinto di una cosa: per la sua forma, la sua struttura, la cresta dell’Hörnli è la via migliore. Ma se Michel Croz ha un impegno a Chamonix, ove Whymper lo segue. Separato dalla sua guida favorita, Whymper effettua la prima ascensione dell’Aiguille Verte, che aumenta la sua fama.

Appena ottenuto questo successo, decide di ripartire per Zermatt e il Cervino, dove lo attende una delusione: Biener e Almer rifiutano di partecipare ad un tentativo. Whymper riesce ancora una volta a convincere Carrel, ma il suo vecchio rivale non è affatto entusiasta nella scelta di una strada che non è situata in territorio italiano. All’ultimo momento, Carrel adduce impegni precedenti e Whymper si trova solo, senza una guida del Breuil da poter ingaggiare.

Una luce di speranza subentra alla sua collera quando espone i suoi progetti a Lord Francis Douglas, che è appena arrivato con Taugwalder figlio. Decidono di recarsi a Zermatt, dove si assicurano i servizi di Taugwalder padre, partigiano dichiarato della cresta est. La speranza cede il posto all’impazienza allorchè Hodson, Hadow e Michel Croz, al ritorno da Chamonix accettano di unirsi alla compagnia. L’indomani, sette uomini decisi partono per il Cervino. Bisogna fare presto, perchè, dall’altra parte della montagna, Carrel e i suoi compagni sono già in cammino. Michel Croz e il vecchio Taugwalder sono montanari di eccezione, il reverendo Hudson ha già scalato il Monte Bianco ed il Monte Rosa in un tempo notevole, Douglas e Hadow sono robusti giovanotti di diciannove anni e Whymper ha già trascorso più di dieci notti su quella terribile montagna. La sera stessa, essi hanno già piantato un campo verso i 3350 metri ai piedi della cresta e passano la sera cantando. L’indomani, approfittando del bel tempo per accelerare l’andatura.

Sotto la guida di Michel Croz, le difficoltà non li arrestano. D’altra parte, come era previsto, nessun serio ostacolo si presenta lungo questa scala gigantesca, e, prima di dieci ore, la comitiva arriva verso i 4250 metri. Più avanti, bisogna guadagnare la Spalla con una scalata più ripida e una lunga traversata sulle rocce ghiacciate delle parete nord. E’ cosa da poco per l’abilità di Michel Croz e, alcune ore più tardi, essi calcano da vincitori l’ultima cresta e la neve della cima. Whymper e Croz vi arrivano insieme; la cima è conquistata molto più facilmente di quanto avessero immaginato. Ma sono i primi?

Divorato dall’impazienza, Whymper corre sulla cresta, soddisfatto di non notarvi alcuna traccia. Si china sull’abisso e lungo il pendio del versante italiano scorge gli uomini di Carrel. Grida, gesti, il fracasso di blocchi di roccia che vengono precipitati nel vuoto, lasciano capire a coloro che stanno salendo di aver perso la partita. La vittoria di Whymper e dei suoi compagni è ancora più completa di quanto si potesse sperare. Ognuno dà libero sfogo alla propria gioia. Con la camicia Michel Croz fa una bandiera che fissa ad un picchetto da tenda. A Zermat e al Breuil, la popolazione in delirio si prepara a festeggiare i vincitori. Per un’ora, essi si abbandonano al trionfo, assaporando l’ora più bella della loro esistenza. Infine, iniziano la discesa e, poco prima dei passaggi difficile della parte nord, si legano in cordata.

Ma il destino detesta gli eccessi di gloria: pochi istanti dopo si verificherà uno dei drammi più terribile dell’alpinismo.

Hadow fa un passo falso, Croz è rovesciato. Hudson e Douglas, tirati dalla corda, scivolano nell’abisso. Terrorizzati gli altri tre scalatori si aggrappano alla montagna e stringono la corda, che per una brusca scossa si rompe mentre i quattro infortunati precipitano nel ghiacciaio del Cervino, 1500 metri più in basso.

Il turista che percorre la valle del Viège non manchi di visitare il cimitero di Zermatt, dove la storia della conquista del Cervino è scritta in tutta la sua gloria ed in tutto il suoi dolore.

Tormentato, in preda al rimorso, Whymper devo affrontare il terribile problema morale che gli impone la morte dei compagni. Egli si dedicherà in seguito alle ascensioni extraeuropee e tornerà soltanto molti anni dopo sui luoghi dell’avventura che segnò così tragicamente le ore della sua giovinezza.

Tre giorni dopo Whymper, Carrel raggiungeva la cima. Ma nell’ombra del dramma la sua vittoria gli sembrò amara. Da allora sono state scalate tutte le altre creste e tutte le altre pareti, ma il Cervino resta sempre l’emblema del mistero e, per chi vede le nubi lungo i suoi fianchi, i suoi crepacci e le sue brecce, è assolutamente impossibile dimenticare il dramma della prima conquista.

Silvio Saglio

Enciclopedia “La Montagna” 1962

    

I ragazzi del ’68

I ragazzi del ’68

Gino Soldà (a sinistra), Walter Bonatti e Severino Casara, Schio, 18 aprile 1962.

Nella foto, scattata a Schio nel 18 aprile 1962, appaiono da sinistra Gino Soldà, Walter Bonatti e Severino Casara. Questa foto proviene dal blog di Alessandro Gogna mentre il testo che segue è tratto da una rivista alpinistica del gennaio 1968, “Rassegna Alpina”, ed è parte di un intervista a Severino Casara, un tra i più celebri registi di montagna dell’epoca, dopo la proiezione di un documentario su Paul Preuss ad una platea di giovani. Rileggere questo testo, a distanza di quasi 50 anni è assolutamente intrigante: alcune riflessioni appaiono tutt’oggi moderne e decisamente rivoluzionarie! Le parole di Casara sembrano mostrarci gli istanti che hanno preceduto l’alba del Nuovo Mattino:

Che la rivelazione della vita di Preuss avesse un’importanza fondamentale nella storia dell’alpinismo, non v’era dubbio, ma mi stupiva il fatto che proprio i giovani e i giovanissimi fossero stati i prima ad intuirla. Davanti a tale affluenza di giovani, mi sentii come un decrepito matusa, tanto che la prima sera stentai ad aprir bocca. I loro occhi vivi puntati su di me parevano frecce scagliate contro chi osava tirar fuori dal dimenticatoio di mezzo secolo fa la storia di un uomo, autentico per eccellenza all’evoluzione del così detto alpinismo moderno; contro chi, in un’epoca così dinamica e violenta andava a rievocare un clima sereno, cavalleresco, aristocratico, pieno di sentimento, educazione, cortesia, fraternità e abnegazione, sublimate dalla modestia, dalla squisitezza di animo e da una sensibilità artistica superiore. Tutte espressioni appartenenti al vocabolario alpinistico dei nostri nonni, e che l’attuale aveva bruciate, sostituendole con quelle della lotta al monte senza quartiere, della forza e della velocità, della violenza con ogni mezzo e del primato ad ogni costo. Terminologia grossolana derivata dalla guerra, introdotta dallo sport e bene alimentata dal clima delle macchine, del cemento e della pubblicità. Ma con il sole, per fortuna, ogni giorno madre natura fa nascere creature umane dotate di intelletto e sentimento, capaci di opporsi ad ogni deleteria influenza e aprire l’occhio profondo dell’anima per comprendere la vera bellezza che le circonda.

[…] Tutto è operazione: operazione roccia, operazione ghiaccio, operazione sci, operazione chiodi e attrezzature multiple, operazione salvataggio, e tutto è valutato in cifre. Cifre sui gradi di difficoltà, sulla velocità impiegata, sul numero di chiodi, sul peso del materiale, sulla lunghezza del percorso, aride espressioni che meglio non possono spiegare l’altrettanto arido valore di tali prestazioni “I pali della cuccagna di Ruskin sono diventati la più amara realtà”.

[…] Una scalata artificiale su uno dei torrioni dell’Hoggar, e un’altra sulla più violentata parete delle Alpi, la nord della Cima Grande di Lavaredo. Roba da matti! Sembravano due film pubblicitari di un’impresa edile specializzata! Mi chiedete la differenza tra l’alpinismo di Preuss e la moderna scalata artificiale. Secondo me, che ho fatto pure il sesto grado, quello alla Comici, alla Carlesso, alla Cassin, dove solo in alcuni punti si forzava il passaggio proibito coi chiedi, e il resto si faceva in libera, non quello di oggi dove la roccia non si tocca più, sempre appesi alle staffe e ai chiodi piantati ad ogni mezzo metro, e molti dei quali ad espansione, vi posso dire che l’arrampicata presentava un particolare fascino, benchè evidentemente apparisse più un impresa acrobatica e sportiva che un’ascensione alpinistica. Abituato a salire in libera mi accorsi subito che tali scalate artificiali se riuscivano a superare passaggi impossibili, eliminavano però quasi del tutto il rischio, che invece le arrampicate libere comportavano di continuo. Schiavi di corde e chiodi il procedere era greve, sempre assillato dalla ricerca di una fessura o di un buco per innestarvi il ferro, che in definitiva doveva tramutarsi in appiglio o appoggio, trasformando la conformazione naturale della parete.

[…] Non vorrei dirlo, ma lo sento. Per me, sulla roccia, l’arrampicata libera è la fiamma, quella artificiale è la cenere. La stessa differenza che passa tra un sonetto di Petrarca e la macchina che lo ha stampato, un dipinto di Raffaello e la tavolozza che ha fornito i colori. Nell’arrampicata libera il rischio, anche se ridotto dalla sicurezza, dà all’azione l’alito che la ravviva e la fa trascendere nel clima dell’arte, del sublime e dell’eroico. In quella artificiale il rischio è ormai è ridotto a zero, per non dire eliminato. Preuss disse in proposito: “Se cadi è la fine” è ben diverso da “se cadi, cadi uno o due metri e rimani appeso ai chiodi”. Basta tale rilievo per comprendere l’alto livello etico ed imparagonabile dell’arrampicata libera.

[…] Proprio recentemente due grandi alpinisti, che si dilettarono anche a compiere imprese eccezionali coi mezzi artificiali, i miei cari amici Steger e Carlesso, si incontrarono. E poichè Carlesso, ultracinquantenne, continua a compiere scalate in artificiale, Steger chiese: “Perchè ti ostini sul sesto grado? Ormai dovresti mollare!”. Al che, Carlesso risponde: “Caro mio, continuo fin che posso a fare il sesto grado, perchè ho paura del quarto!” Risposta quanto mai eloquente che da sè dice tutto.

Severino Casara
Testo tratto dall’intervista dopo la conferenza:
I giovani d’oggi e la concezione alpinistica di Preuss
Pubblicazione originale: “Rassegna Alpina“,  Febbraio 1968
Biblioteca Canova, Cima-Asso.it

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