Sulla storiografia dell’alpinismo
Giovanni Rossi – Agosto 1979 – Concetti generali e fonti per la storiografia dell’alpinismo nella regione Màsino – Bregalia – Disgrazia. Le notizie storiche che in una guida alpinistica accompagnano la presentazione di una cima o di un colle, o precedono la descrizione di un itinerario, appartengono in realtà alla cronaca dell’esplorazione della montagna. E’ piuttosto la descrizione stessa dell’itinerario il risultato dell’indagine storica. Per definizione, infatti, la storia ricerca nelle azioni passate dell’uomo una risposta agli interrogativi (problemi) che sua vita attuale gli pone: in particolare è compito della storia alpinistica stabilire come, in un certo giorno, un ben determinato problema alpinistico sia stato affrontato (tentato e risolto) da una certa persona ( o cordata), mentre la cronaca di occupa (o discute dell’attendibilità) di dati quali la composizione della cordata, la data, le condizioni meteorologiche e del terreno, ecc.
La descrizione dell’itinerario contenuta in una guida alpinistica è il risultato di un’indagine rivolta ad un ripetersi di azioni alpinistiche e le successive con le eventuali varianti, fino al giorno della stesura della guida. L’azione dei (primi) salitori viene spersonalizzata, ed è effettivamente impersonale la forma più adatta a tali descrizioni: si sale per la fessura, si attraversa a destra, si supera lo strapiombo, espressioni sintetiche se sostituiscono le altre corrispondenti più complete, come: l’alpinista è salito per la fessura, ecc.
Se solo la prima ascensione e poche ripetizioni hanno un’importanza storica per l’esplorazione della montagna, tutte le salite di un certo itinerario hanno la loro (maggiore o minore) importanza per la vita della persona che le ha compiute, e quindi, se note, avrebbero un loro preciso (personale) significato per l’alpinista che si accinge a ripetere lo stesso itinerario.
Una guida alpinistica si identifica dunque con la storia dell’esplorazione di una regione alpina (esplorazione alpinistica, ossia mirante ad una conoscenza minuziosa della montagna nella sua struttura, dalle grandi linee ai dettagli di camini, diedri e pilastri di ogni singola parete). La storia dell’alpinismo nell’accezione più larga considera l’azione alpinistica passata non solo sotto l’aspetto del risultato raggiunto, ma soprattutto sotto quello dell’intenzione dell’uomo che l’ha compiuta e le conseguenze che essa ha lasciato in lui.
DA LURANI A CASSIN E VINCI: UN’EVOLUZIONE SIGNIFICATIVA
I documenti su cui si basa l’indagine storica nei due casi suddetti sono rispettivamente la relazione tecnica ed il racconto (o relazione letteraria) dell’ascensione.
Originariamente non si distingueva tra li due.Così la monografia di F. Lurani «Le montagne di Val Màsino» (Milano, 1883), considerata la prima guida alpinistica della regione, non è altro che la relazione di quattro sue «brevi campagne estive» tra quei monti. Il racconto delle sue ascensioni non tralascia di accennare ai vari stati d’animo degli alpinisti, ma è dedicato principalmente alla descrizione dell’itinerario seguito per utilità di quanti intendessero ripeterlo, prende le mosse da quanto è già noto della montagna ed è completato da appunti topografici e toponomastici.
Una simile impostazione ebbero, alcuni decenni più tardi, le monografie di A. Corti sul Gruppo del Disgrazia e sui Pizzi Torrone. In esse il problema alpinistico è presentato come un problema di conoscenza della montagna ed i motivi tecnico-atletici (non dico neppure sportivi) chiaramente subordinati a quelli intellettuali. Tuttavia il racconto dell’ascensione mette sempre in evidenza, e talvolta anche con ricchezza di particolari e di raffronti, le caratteristiche tecniche dell’itinerario: si vedano ad esempio la descrizione della salita al Monte Disgrazia per la sua cresta nord nord est (R.M. 19299, 402-4), che la prima ascensione del 1914 aveva lasciata avvolta nel mistero e della traversata per la cresta dal Pizzo Torrone Orientale al Monte Sissone (R.M. 1935, 15-6), effettuata allo scopo di rifinire la esplorazione del tratto dopo la breccia orientale del Pizzo Torrone, non chiaramente descritto dai primi che percorsero la cresta nel 1909.
La descrizione in due scritti separati delle caratteristiche dell’itinerario e delle vicende dell’ascensione risponde all’esigenza più recente di riferire sulle difficoltà tecniche con termini non ambigui e per quanto possibile non influenzati dalle particolari condizioni psicologiche della prima ascensione, e di soffermarvisi nel racconto sugli episodi più significativi (i due documenti riescono talvolta complementari).
Nella letteratura alpinistica si trovano vari racconti di ascensione, che contengono informazioni di diversa natura ed importanza dal punto di vista storico, a seconda dell’impostazione data loro dall’autore.
Si passa così al racconto di R. Cassin della prima salita al Pizzo Badile per la parete nord-est (R.M. 1937, 355-7), tutto dominato dalla tragedia imminente e poi verificatasi della cordata comasca che si unì ai lecchesi dopo il primo bivacco, a quello di A. Vinci delle sue salite alla Punta Sertori ed al Pizzo Céngalo (R.M. 1939-1940, 42-4), ricco soprattutto di considerazioni che, astratte dai fatti particolari di quelle ascensioni, rivelano il modo di concepire l’alpinismo dell’autore.
Non troviamo nel racconto di Cassin alcun commento alla soluzione da lui trovata per certi problemi di scelta dell’itinerario, che pure suscitò l’ammirazione dei ripetitori; bensì testimonianze essenziali sul ruolo svolto da Molteni e Valsecchi e sulle cause del loro sfinimento. Completate dalle pagine del suo libro ( «Dove la parete strapiomba», Milano, 1958, 147-62), dove si fa cenno ai precedenti tentativi di Molteni, esse ci autorizzano a legare anche il nome di questo valoroso alpinista alla storia dell’esplorazione di quella grande parete.
Quanto a Vinci, egli aveva già pubblicato una breve monografia («Monti del Màsino, regno del granito», R.M. 1937-38, 421-7), in cui alcune notizie di presentazione delle più difficili salite della regione sono precedute da un’esaltazione dell’arrampicata su granito rispetto a quella dolomitica e delle montagne granitiche come terreno ideale per «l’esplorazione di un’etica di potenza».
L’analogia e la contrapposizione allo scritto di D. Rudatis «Il regno del sesto grado» (R.M. 1935, 345-51 e 406-13) appare evidente: questo genere di scritti impone allo storico qualche cautela, poiché l’autore si prefigge in un certo senso di dimostrare una tesi. Sia la relazione tecnica di Cassin, sia quelle di Vinci si possono giudicare per molti aspetti eccellenti, cosa particolarmente notevole per la via del Badile se si tengono presenti le circostanze.
LA FONTE DELLE OPERE AUTOBIOGRAFICHE
Fonti storiche complementari alle relazioni tecniche sono anche gli scritti di più ampio respiro (a carattere autobiografico) dell’alpinista che ha compiuto una certa salita o ha operato in un certo gruppo. Oltre al citato libro di Cassin ed a quelli di E. Fasana ben noti agli alpinisti lombardi, la storiografia della regione Màsino – Bregaglia – Disgrazia ci offre altri esempi importanti: tra essi il classico «Erinnerungen eines Bergfuehrers» di Christian Klucker (Zurigo 1931) e la raccolta di scritti alpinistici di Jurg Weiss «Murailles et abimes» (Neuchatel, 1942). Klucker aveva collaborato alla prima vera guida alpinistica della regione, «Forno-Albigna-Bondasca» di H. A. Tanner (Basile, 1906) uscita in occasione dell’inaugurazione del Rifugio Sciora, per quella che oggi diremmo la parte alpinistica. Le informazioni sugli itinerari sono però ancora molto sommarie in questa guida, corrispondenti alle righe introduttive in caratteri piccoli delle moderne.
Il libro di Klucker è importante come rara testimonianza autonoma del modo di pensare ed agire di una guida di gran classe (di altre come Angelo Dibona e Franz Lochmatter conosciamo solo quello che scrissero i loro «signori»). Klucker giudica liberamente il suo cliente, ed alle righe di entusiasmo di T. Curtis e L. norman Neruda fa seguire quelle severe (anche troppo) per A. von Rydzewsky, del quale segnala perfino le inesattezze nelle pubblicazioni.
Per quanto riguarda la storia dell’esplorazione dei monti della Bregaglia il libro è una miniera di informazioni sulle prime salite di cui Klucker fu protagonista e su quelle che egli ideò ma non potè realizzare. Tra queste la Punta Ràsica (27 giugno 1892), la cui arditissima cuspide egli ascese in libera arrampicata senza affidarsi alla corda preventivamente lanciata dal collega Barbaria sul noto beccuccio. Tra le seconde lo spigolo nord del Pizzo Badile, che Klucker salì per un buon tratto da solo (senza corda e senza scarpe!) l’11 luglio 1892 (egli scrisse ripetutamente 11 giugno, ma si tratta di una confusione di date). Le indicazioni di Klucker non consentono di identificare il punto a cui egli giunse, ma è molto probabile che sia stato fermato dal piccolo diedro con strapiombo sul lato ovest della cresta, che richiese in seguito l’uso di chiodi per la progressione. Assai più dovette costargli la rinuncia alla parte nord-nord-ovest del Pizzo Céngalo, la più grandiosa della regione, dopo che prolungate osservazioni dalle montagne circostanti gli avevano permesso di riconoscerne fin nei dettagli la linea di minor resistenza.
Il racconto diKklucker parte infatti da quel pomeriggio del 7 luglio 1896 (l’indomani della prima salita del Colle del Badile) in cui egli indicò a Martin Schorcher la via maestra al Sass Furà. Ma dal punto di vista della psicologia dell’alpinista è altrettanto interessante l’epilogo, il giudizio severo anche se pacato sulla grave responsabilità che Schocher si assunse affrontando la parete in una giornata di foehn, con la minaccia incombente del crollo della grande cornice (che avvenne puntualmente il giorno dopo la salita).
Tutto il libro, dalle prime esperienze di guida in lunghissime camminate compiute con orari sbalorditivi, al tramonto amareggiato da una strana malattia cutanea che gli impediva l’attività in cui la radiazione solare è più intensa, costituisce una lettura di incomparabile interesse per l’alpinista che voglia dedicarsi ai monti di questa regione.
Gli scritti in cui J. Weiss racconta alcune salite in Bregaglia da secondo di cordata di Hans Frei, si prestano a mettere in evidenza l’altro aspetto dell’indagine storica: delineare un quadro il più possibile preciso delle relazioni (impressioni, emozioni, scelte) determinate da un certo itinerario negli alpinisti che (primi) lo percorsero.
Il giovane alpinista svizzero (morto nel 1941 appena trentenne allo Strahlegghorn) era una persona dotata di grande intuizione psicologica e di non comuni capacità espressive: il racconto della prima ascensione della cresta nord-nord-ovest del Pizzo Nord Ovest dei Gemelli e le note scritte cinque anni dopo sono accurate e felici ricostruzioni degli stati d’animo determinati dalle fasi salienti dell’ascensione.
La curiosità di vedere da vicino le famose placche lisce del «Ferro da Stiro» attira Frei e Weiss (che per quel 27 luglio 1935 hanno solo in programma una gita all’attacco dello spigolo del Badile) sulla cengia che taglia il poderoso piedistallo della cresta quasi alla base. Ma di qui la prima lunghezza di corda ha un aspetto molto attraente ed essi vi provano. Di tratto in tratto essi sono poco a poco attirati nel clima della lotta senza riserve e pongono piede sull’immensa placca uniforme, striata da fessure superficiali e discontinue, dove incontrano le massime difficoltà, ma soprattutto un’esperienza di arrampicata irripetibile.
Altre esperienze caratterizzate dalla salita ed analizzate a fondo da Weiss sul piano psicologico furono l’interruzione all’intaglio a monte del grande gendarme bifido con ritorno al rifugio (ma la violazione del principio di continuità di azione non li preoccupa granchè, specialmente dopo che il ritorno in cresta richiede loro l’indomani il superamento di un passaggio estremo) e la rinuncia all’uscita diretta in vetta al Pizzo Nord-Ovest (la variante diretta dei lecchesi del 1950 confermò la necessità di un largo impiego di mezzi artificiali ed essi avevano solo cinque chiodi!). Non si tratta dunque di stati d’animo generici, bensì riferentesi alla soluzione di uno specifico problema alpinistico.
La stessa contemplazione ha dei connotati storici, in quanto diversi a seconda del tipo di ascensione e del momento. Così la descrizione frequenti nei racconti di Weiss (rocce, nebbie, cieli, abissi, angoli di ghiacciai) si dicono vive proprio perchè consentono di rivivere, di partecipare le emozioni. Questo immedesimarsi non l’alpinista che ha agito nel passato su una montagna di caratteristiche note è, in ultima analisi, l’essenza stessa della storiografia dell’alpinismo.
Giovanni Rossi
(Sezione CAI Milano e C.A.A.I.)
Articolo pubblicato su “La Rivista del Club Alpino Italiano” del luglio-agosto 1979.
Le foto a colori di quest’articolo provengono dal web, ecco qui invece le fotografie originali della pubblicazione: