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Sulla storiografia dell’alpinismo

Sulla storiografia dell’alpinismo

disgraziaGiovanni Rossi – Agosto 1979 – Concetti generali e fonti per la storiografia dell’alpinismo nella regione Màsino – Bregalia – Disgrazia. Le notizie storiche che in una guida alpinistica accompagnano la presentazione di una cima o di un colle, o precedono la descrizione di un itinerario, appartengono in realtà alla cronaca dell’esplorazione della montagna. E’ piuttosto la descrizione stessa dell’itinerario il risultato dell’indagine storica. Per definizione, infatti, la storia ricerca nelle azioni passate dell’uomo una risposta agli interrogativi (problemi) che sua vita attuale gli pone: in particolare è compito della storia alpinistica stabilire come, in un certo giorno, un ben determinato problema alpinistico sia stato affrontato (tentato e risolto) da una certa persona ( o cordata), mentre la cronaca di occupa (o discute dell’attendibilità) di dati quali la composizione della cordata, la data, le condizioni meteorologiche e del terreno, ecc.

La descrizione dell’itinerario contenuta in una guida alpinistica è il risultato di un’indagine rivolta ad un ripetersi di azioni alpinistiche e le successive con le eventuali varianti, fino al giorno della stesura della guida. L’azione dei (primi) salitori viene spersonalizzata, ed è effettivamente impersonale la forma più adatta a tali descrizioni: si sale per la fessura, si attraversa a destra, si supera lo strapiombo, espressioni sintetiche se sostituiscono le altre corrispondenti più complete, come: l’alpinista è salito per la fessura, ecc.

Se solo la prima ascensione e poche ripetizioni hanno un’importanza storica per l’esplorazione della montagna, tutte le salite di un certo itinerario hanno la loro (maggiore o minore) importanza per la vita della persona che le ha compiute, e quindi, se note, avrebbero un loro preciso (personale) significato per l’alpinista che si accinge a ripetere lo stesso itinerario.

Una guida alpinistica si identifica dunque con la storia dell’esplorazione di una regione alpina (esplorazione alpinistica, ossia mirante ad una conoscenza minuziosa della montagna nella sua struttura, dalle grandi linee ai dettagli di camini, diedri e pilastri di ogni singola parete). La storia dell’alpinismo nell’accezione più larga considera l’azione alpinistica passata non solo sotto l’aspetto del risultato raggiunto, ma soprattutto sotto quello dell’intenzione dell’uomo che l’ha compiuta e le conseguenze che essa ha lasciato in lui.

DA LURANI A CASSIN E VINCI: UN’EVOLUZIONE SIGNIFICATIVA

I documenti su cui si basa l’indagine storica nei due casi suddetti sono rispettivamente la relazione tecnica ed il racconto (o relazione letteraria) dell’ascensione.
Originariamente non si distingueva tra li due.Così la monografia di F. Lurani  «Le montagne di Val Màsino» (Milano, 1883), considerata la prima guida alpinistica della regione, non è altro che la relazione di quattro sue «brevi campagne estive» tra quei monti. Il racconto delle sue ascensioni non tralascia di accennare ai vari stati d’animo degli alpinisti, ma è dedicato principalmente alla descrizione dell’itinerario seguito per utilità di quanti intendessero ripeterlo, prende le mosse da quanto è già noto della montagna ed è completato da appunti topografici e toponomastici.

Una simile impostazione ebbero, alcuni decenni più tardi, le monografie di A. Corti sul Gruppo del Disgrazia e sui Pizzi Torrone. In esse il problema alpinistico è presentato come un problema di conoscenza della montagna ed i motivi tecnico-atletici (non dico neppure sportivi) chiaramente subordinati a quelli intellettuali. Tuttavia il racconto dell’ascensione mette sempre in evidenza, e talvolta anche con ricchezza di particolari e di raffronti, le caratteristiche tecniche dell’itinerario: si vedano ad esempio la descrizione della salita al Monte Disgrazia per la sua cresta nord nord est (R.M. 19299, 402-4), che la prima ascensione del 1914 aveva lasciata avvolta nel mistero e della traversata per la cresta dal Pizzo Torrone Orientale al Monte Sissone (R.M. 1935, 15-6), effettuata allo scopo di rifinire la esplorazione del tratto dopo la breccia orientale del Pizzo Torrone, non chiaramente descritto dai primi che percorsero la cresta nel 1909.

La descrizione in due scritti separati delle caratteristiche dell’itinerario e delle vicende dell’ascensione risponde all’esigenza più recente di riferire sulle difficoltà tecniche con termini non ambigui e per quanto possibile non influenzati dalle particolari condizioni psicologiche della prima ascensione, e di soffermarvisi nel racconto sugli episodi più significativi (i due documenti riescono talvolta complementari).

Nella letteratura alpinistica si trovano vari racconti di ascensione, che contengono informazioni di diversa natura ed importanza dal punto di vista storico, a seconda dell’impostazione data loro dall’autore.

badileSi passa così al racconto di R. Cassin della prima salita al Pizzo Badile per la parete nord-est (R.M. 1937, 355-7), tutto dominato dalla tragedia imminente e poi verificatasi della cordata comasca che si unì ai lecchesi dopo il primo bivacco, a quello di A. Vinci delle sue salite alla Punta Sertori ed al Pizzo Céngalo (R.M. 1939-1940, 42-4), ricco soprattutto di considerazioni che, astratte dai fatti particolari di quelle ascensioni, rivelano il modo di concepire l’alpinismo dell’autore.

Non troviamo nel racconto di Cassin alcun commento alla soluzione da lui trovata per certi problemi di scelta dell’itinerario, che pure suscitò l’ammirazione dei ripetitori; bensì testimonianze essenziali sul ruolo svolto da Molteni e Valsecchi e sulle cause del loro sfinimento. Completate dalle pagine del suo libro ( «Dove la parete strapiomba», Milano, 1958, 147-62), dove si fa cenno ai precedenti tentativi di Molteni, esse ci autorizzano a legare anche il nome di questo valoroso alpinista alla storia dell’esplorazione di quella grande parete.

Quanto a Vinci, egli aveva già pubblicato una breve monografia («Monti del Màsino, regno del granito», R.M. 1937-38, 421-7), in cui alcune notizie di presentazione delle più difficili salite della regione sono precedute da un’esaltazione dell’arrampicata su granito rispetto a quella dolomitica e delle montagne granitiche come terreno ideale per «l’esplorazione di un’etica di potenza».

L’analogia e la contrapposizione allo scritto di D. Rudatis «Il regno del sesto grado» (R.M. 1935, 345-51 e 406-13) appare evidente: questo genere di scritti impone allo storico qualche cautela, poiché l’autore si prefigge in un certo senso di dimostrare una tesi. Sia la relazione tecnica di Cassin, sia quelle di Vinci si possono giudicare per molti aspetti eccellenti, cosa particolarmente notevole per la via del Badile se si tengono presenti le circostanze.

LA FONTE DELLE OPERE AUTOBIOGRAFICHE

Fonti storiche complementari alle relazioni tecniche sono anche gli scritti di più ampio respiro (a carattere autobiografico) dell’alpinista che ha compiuto una certa salita o ha operato in un certo gruppo. Oltre al citato libro di Cassin ed a quelli di E. Fasana ben noti agli alpinisti lombardi, la storiografia della regione Màsino – Bregaglia – Disgrazia ci offre altri esempi importanti: tra essi il classico «Erinnerungen eines Bergfuehrers» di Christian Klucker (Zurigo 1931) e la raccolta di scritti alpinistici di Jurg Weiss «Murailles et abimes» (Neuchatel, 1942). Klucker aveva collaborato alla prima vera guida alpinistica della regione, «Forno-Albigna-Bondasca» di H. A. Tanner (Basile, 1906) uscita in occasione dell’inaugurazione del Rifugio Sciora, per quella che oggi diremmo la parte alpinistica. Le informazioni sugli itinerari sono però ancora molto sommarie in questa guida, corrispondenti alle righe introduttive in caratteri piccoli delle moderne.

Il libro di Klucker è importante come rara testimonianza autonoma del modo di pensare ed agire di una guida di gran classe (di altre come Angelo Dibona e Franz Lochmatter conosciamo solo quello che scrissero i loro «signori»). Klucker giudica liberamente il suo cliente, ed alle righe di entusiasmo di T. Curtis e L. norman Neruda fa seguire quelle severe (anche troppo) per A. von Rydzewsky, del quale segnala perfino le inesattezze nelle pubblicazioni.

punta_rasicaPer quanto riguarda la storia dell’esplorazione dei monti della Bregaglia il libro è una miniera di informazioni sulle prime salite di cui Klucker fu protagonista e su quelle che egli ideò ma non potè realizzare. Tra queste la Punta Ràsica (27 giugno 1892), la cui arditissima cuspide egli ascese in libera arrampicata senza affidarsi alla corda preventivamente lanciata dal collega Barbaria sul noto beccuccio. Tra le seconde lo spigolo nord del Pizzo Badile, che Klucker salì per un buon tratto da solo (senza corda e senza scarpe!) l’11 luglio 1892 (egli scrisse ripetutamente 11 giugno, ma si tratta di una confusione di date). Le indicazioni di Klucker non consentono di identificare il punto a cui egli giunse, ma è molto probabile che sia stato fermato dal piccolo diedro con strapiombo sul lato ovest della cresta, che richiese in seguito l’uso di chiodi per la progressione. Assai più dovette costargli la rinuncia alla parte nord-nord-ovest del Pizzo Céngalo, la più grandiosa della regione, dopo che prolungate osservazioni dalle montagne circostanti gli avevano permesso di riconoscerne fin nei dettagli la linea di minor resistenza.

Il racconto diKklucker parte infatti da quel pomeriggio del 7 luglio 1896 (l’indomani della prima salita del Colle del Badile) in cui egli indicò a Martin Schorcher la via maestra al Sass Furà. Ma dal punto di vista della psicologia dell’alpinista è altrettanto interessante l’epilogo, il giudizio severo anche se pacato sulla grave responsabilità che Schocher si assunse affrontando la parete in una giornata di foehn, con la minaccia incombente del crollo della grande cornice (che avvenne puntualmente il giorno dopo la salita).

Tutto il libro, dalle prime esperienze di guida in lunghissime camminate compiute con orari sbalorditivi, al tramonto amareggiato da una strana malattia cutanea che gli impediva l’attività in cui la radiazione solare è più intensa, costituisce una lettura di incomparabile interesse per l’alpinista che voglia dedicarsi ai monti di questa regione.

Gli scritti in cui J. Weiss racconta alcune salite in Bregaglia da secondo di cordata di Hans Frei, si prestano a mettere in evidenza l’altro aspetto dell’indagine storica: delineare un quadro il più possibile preciso delle relazioni (impressioni, emozioni, scelte) determinate da un certo itinerario negli alpinisti che (primi) lo percorsero.

Il giovane alpinista svizzero (morto nel 1941 appena trentenne allo Strahlegghorn) era una persona dotata di grande intuizione psicologica e di non comuni capacità espressive: il racconto della prima ascensione della cresta nord-nord-ovest del Pizzo Nord Ovest dei Gemelli e le note scritte cinque anni dopo sono accurate e felici ricostruzioni degli stati d’animo determinati dalle fasi salienti dell’ascensione.

ferro-da-stiro

La curiosità di vedere da vicino le famose placche lisce del «Ferro da Stiro» attira Frei e Weiss (che per quel 27 luglio 1935 hanno solo in programma una gita all’attacco dello spigolo del Badile) sulla cengia che taglia il poderoso piedistallo della cresta quasi alla base. Ma di qui la prima lunghezza di corda ha un aspetto molto attraente ed essi vi provano. Di tratto in tratto essi sono poco a poco attirati nel clima della lotta senza riserve e pongono piede sull’immensa placca uniforme, striata da fessure superficiali e discontinue, dove incontrano le massime difficoltà, ma soprattutto un’esperienza di arrampicata irripetibile.

Altre esperienze caratterizzate dalla salita ed analizzate a fondo da Weiss sul piano psicologico furono l’interruzione all’intaglio a monte del grande gendarme bifido con ritorno al rifugio (ma la violazione del principio di continuità di azione non li preoccupa granchè, specialmente dopo che il ritorno in cresta richiede loro l’indomani il superamento di un passaggio estremo) e la rinuncia all’uscita diretta in vetta al Pizzo Nord-Ovest (la variante diretta dei lecchesi del 1950 confermò la necessità di un largo impiego di mezzi artificiali ed essi avevano solo cinque chiodi!). Non si tratta dunque di stati d’animo generici, bensì riferentesi alla soluzione di uno specifico problema alpinistico.

La stessa contemplazione ha dei connotati storici, in quanto diversi a seconda del tipo di ascensione e del momento. Così la descrizione frequenti nei racconti di Weiss (rocce, nebbie, cieli, abissi, angoli di ghiacciai) si dicono vive proprio perchè consentono di rivivere, di partecipare le emozioni. Questo immedesimarsi non l’alpinista che ha agito nel passato su una montagna di caratteristiche note è, in ultima analisi, l’essenza stessa della storiografia dell’alpinismo.

Giovanni Rossi
(Sezione CAI Milano e C.A.A.I.)

Articolo pubblicato su “La Rivista del Club Alpino Italiano” del luglio-agosto 1979.
Le foto a colori di quest’articolo provengono dal web, ecco qui invece le fotografie originali della pubblicazione:

Mummery: “by fair means”

Mummery: “by fair means”

dente-del-giganteUn’altra montagna chiave è il Dente del Gigante, sullo spartiacque del massiccio. Si tratta in effetti di una torre di altezza modesta, ma inavvicinabile. Nel 1871 Edward E. Whitwell e le guide alpine Christian e Ulrich Lauener di Lauterbrunnen intraprendono un primo tentativo. “Impraticabile!” è il loro verdetto. Il tentativo successivo è di Jean Charlet-Straton con un gruppo italiano. Con l’ausilio di un razzo pensano di lanciare una corda sulla cresta sommitale del Dente del Gigante, ma non ci riescono. Nel 1880 ci provano Mummery e Burgener. Dal Cul du Géant raggiungono il caratteristico nevaio basale ai piedi della guglia rocciosa, da dove attaccano la parete nordovest; salgono di 50 metri fino all’inizio di una placca che sbarra la salita. “Absolutely inaccessible by fair means”, sentenzia Mummery; “Assolutamente inaccessibile con mezzi leali”, la frase chiave dell’intera storia dell’arrampicata.

Albert Frederick Mummery ha 35 anni quando diventa una pietra miliare dell’alpinismo. Al contrario del “conquistatore del Cervino” Whymper, egli sa anche guidare una cordata; la sua opera è completa, dal pianificare le prime assolute al portarle a termine. Dalla conquista del Cervino e dell’Aiguille Verte sono passati solo 15 anni. L’approccio di Mummery è radicalmente cambiato. Ormai per lui non contano più tanto il “dove” o il “verso dove”, quanto piuttosto il “come”. La meta è un’idea che gradualmente si trasforma in visione. Non gli interessa fornire un contributo scientifico o topografico, e nemmeno pensa di avere qualcosa da insegnare: il suo alpinismo vuole essere puro gioco.

Il Cervino lo scala dall’impegnativa cresta di Zmutt, mentre sul Monte Bianco fa marcia indietro perchè non gli piace stare troppo a lungo impantanato nella neve: “Un’occupazione che mi ricorda il ruotare della macina, quell’arnese a cui gli ergastolani inglesi sono costretti a lavorare senza tregua”. La sua guida, la migliore del Vallese, Alexander Burgener, cede spesso il comando al suo cliente.

Il 5 Agosto 1881 Mummery, Burgener e Venetz conquistano il Grépon. Il passaggio chiave è una fessura liscia di 15 metri, che ancor oggi porta il nome di Mummery, anche se è stato Venetz il primo a superarla. Alternando la presa delle mani e del piede sinistro nella fessura, e sfruttando la porosità della roccia sul lato destro, l’aiuto-guida dà prova di grande maestria nell’arrampicata.

Nel 1892 Mummery guida i suoi amici John N. Collie, Norman Hasting e William C. Slingsby sulla vetta del Grèpon, ma stavolta è lui a superare per primo il leggendario passaggio chiave. E così Mummery si è definitivamente emancipato dalle sue guide, diventando il portavoce di una schiera di alpinisti “senza guida”.

Il 18 luglio 1882 le guide Marquignaz e alcuni alpinisti italiani raggiungono al Dente del Gigante il punto dove Mummery fece marcia indietro. Decidono di rinunciare al “by fair means” di Mummery, scavano gradini nella roccia, piantano chiodi e fissano corde. Il 28 Luglio i tre Marquignaz raggiungono la vetta, il mattino successivo vi mettono piede i quattro Sella e pochi anni dopo quella via sul Dente del Gigante sarà attrezzata con corda di canapa, tanto che con il bel tempo la può percorrere qualsiasi scalatore della domenica. La cosa ovviamente si scontra con il malcontento dei “senza guida”. Nel regno sopra le nuvole ha inizio così il dibattito sui valori.

Reinhold Messner

Ancora una volta ho saccheggiato uno dei libri di Messner: spero non me ne voglia, ma ho creduto che la sua fosse la voce  più autorevole e contemporanea per raccontare una storia affascinante, attuale ed ancora irrisolta. Tratto da: “Vertical – 100 anni di arrampicata su roccia”di Reinhold Messner – Zanichelli 

Reinhold Messner e Albert Precht

Reinhold Messner e Albert Precht

albert-prechtGli arrampicatori sportivi oggi sono una setta all’interno della setta degli alpinisiti. E ne sono i divi assoluti. Da anni tutti stanno a guardare questa sfida in verticale. Ma dove porta? In una nicchia. A salvarci dalle olimpiadi e dai campionati mondiali non sono stati gli dei della montagna, ma i funzionari dello sport, non ancora pronti a riconoscere l’arrampicata come disciplina olimpica. Eppure non si smette di misurare, confrontare, valutare. Anche gli alpinisti sono uomini, e la scena determina chi è “in”, mentre è “out” chi cade e si da per vinto.

L’avanguardia si compone dei singoli che, avendo trovato la propria strada, avanzano sulla concorrenza di una spanna, o la precedono di dieci anni, come a suo tempo fecero Hermann Buhl o Wolfgang Gullinch. I ripetitori, per quanto veloci, non fanno parte della Formula Uno dell’Alpinismo. Ma adesso dove stiamo andando? Chi sono i portavoce dei prossimi anni?

Albert Precht, uno dei pionieri più longevi, attivo da quasi quarant’anni, a questo proposito scrisse 10 anni fa: «Con alcuni compagni sono riuscito a risparmiare dalle vie chiodate l’Hockhkonig e i Tennengedirge, perchè sono convinto che l’evoluzione porterà inevitabilmente all’alpinismo originario, e prima o poi nessuno prenderà più in considerazione i chiodi ad espansione. Proprio adesso che molti accettano queste zone franche dei chiodi, alcuni arrampicatori della nostra valle, persino amici nostri, arrivano con il trapano e pensano di metter in discussione l’etica ormai consolistata.»

E sei mesi dopo: «Forse ho preteso troppo dai miei colleghi, difendendo con troppa animosità e tenacia la mia illusione di montagne libere da chiodi; come un elefante in un negozio di cristalli ho ottenuto l’esatto contrario.» Il sogno di un giorno, che non riesce a realizzarsi, diventa una delusione. Dobbiamo allora astenerci dell’intervenire, magari consolandoci al pensiero che la storia prima o poi ci darà ragione?

Precht suggerisce di «proteggere dalla svendita le pareti con intervalli di almeno cinque metri fra un chiodo e l’altro”. Ma il suo appello si scontra con la derisione generale. “Sì, il loro approccio è un incrocio tra i figli dei fiori Anni Settanta e il presente del tutto e subito, e rifiutano tutte le regole che rischiano di limitarli. Non avevo scampo, e questa disperazione mi fece tornare in mente i vecchi obiettivi che avevo come cancellato. Per togliere terreno alla scena del chiodo ho dovuto mobilitare tutte le mie risorse. E così l’anno scorso ho fatto 56 prime assolute (fino all VIII+) sempre al comando e sempre senza cadute, spesso su tavolati di placche molto compatti che tuttavia non impedivano l’assicurazione. Ero talmente preso dalla foga di realizzare le mie illusioni che non era tutta farina del mio sacco: era la cattiveria degli altri a darmi forza. E non so cosa mi facesse più felice: se conquistare una via per me o riuscire a toglierla agli altri.»

Se Albert Precht resta fedele al suo stile, è certo che il suo nome – come quello di Preuss, Rebitsch e Robbins – resterà negli annali della storia. E non sarà il solo.

Reinhold Messner
(Tratto da “Un altra direzione” sezione del libro “Vertical – 100 anni di arrampicata su roccia” di Reinhold Messner)

Memorie nel Maggiociondolo

Memorie nel Maggiociondolo

 

1-maggiociondoloElisabetta “Eli” Nava gestisce su Facebook il gruppo “Amici del rifugio Brioschi” (Link). Questo spazio, attivo più o meno dal 2009, negli anni è diventato un riferimento per tutti coloro che, esperti e meno esperti, frequentano le Grigne. Qui si scambiano fotografie, racconti e molto spesso indicazioni utili sulle condizioni della neve o delle vie di salita. Elisabetta è davvero brava nel mantenere questa piccola comunità che conta quasi quattromila partecipanti. In particolare apprezzo la sua attenzione verso la storia e la capacità di trasmettere rispetto e conoscenza ai neofiti che, carichi di emozioni e speranze, si avvicinano a queste cime tutt’altro che semplici.

La “Grigna” è considerata la montagna dei milanesi: il pericolo che il gruppo si trasformasse nel “Baretto dei Bauscia” era concreto ma gli amministratori, con impegno e costanza, lo hanno reso invece un luogo di “cultura” dove spesso si ha l’opportunità di confrontarsi anche con i nomi pesanti dell’alpinismo.

Giorni fa Elisabetta ha pubblicato una bella foto del Pizzo D’Eghen descivendone le caratteristiche e raccontando brevemente del Camino Cassin. Visto che giorni prima aveva parlato di Fasana e del Pizzo della Pieve ho aggiunto alla sua descrizione anche la via Fasana sul pizzo. Lo scorso anno Mattia ed Io abbiamo ripetuto la Cassin e per questo avevo raccolto molte foto ed informazioni da condividere. Ne è nata una bella discussione, in cui si rimarcava soprattutto come la prima ripetizione della via di Cassin, del ‘32,  avvenne solo nel ’75 (43 anni dopo!) grazie a Benigno “Ben” Balatti e Sergio Lanfranconi.

Quello che non mi aspettavo è che “Ben” si unisse alla discussione e che ci raccontasse della sua prima ripetizione:

Volete sapere la mia storia… Partiamo dopo il primo turno di lavoro, è un venerdì pomeriggio di gennaio del 1975 con l’amico Sergio …non mi ricordo più nemmeno la data…non abbiamo ancora deciso se fare il Dente della Fasana o il Pizzo d’Eghen. Nella piccola Fiat 500 c’è tutto il materiale che occorre. Abbiamo deciso..durante il tragitto in macchina… si va x la via Cassin. Grossi zaini – 2 corde da 40mt -15 moschettoni – circa 15 chiodi e 2 cunei di legno e 3 staffe -2 picozze di legno con qualche dentino in punta e 2 paia di ramponcini Grivel  -casco – pila -1 cordino da recuperare lo zaino più grosso – 1 saccopelo x il mio socio e x me piumino e pied’elephant”Moncler”..niente materassini nè fornello ”sono degli optionals”. Non sappiamo come arrivare all’attacco..ma come si suol dire ”vemm a occ”. Bivacchiamo in una piccola nicchia di roccia. L’indomani,sorpresa nevischia,ci caliamo nel gran canalone con una lunga corda doppia ed in poco tempo arriviamo all’attacco dell’immenso anfiteatro. La salita x il camino fila tutto liscia, ad eccezzione di un tratto che s’incastra il cordino da recupero. Giornata molto fredda.. strozzature nei camini ghiacciate e verglassate. Non riusciamo a capire dove sale la via: è tutto imbiancato. Intravedo una possiblità a sinistra di uscire dalla parete. Attrezzerò circa 15 mt lasciando una corda fissa. Bivaccheremo a due terzi della via su un terrazzo di neve. Notte insonne.. nevischia ancora. Il mattino seguente, un po’ di ginnastica e via salgo il tratto attrezzato, e qualche metro più su sorpresa “1 chiodo ad anello con cordino di canapa’. Come l’ho tocco si rompe come un fuscello. Unico chiodo di passaggio trovato in parete. Poco dopo sosto presso un mugo. Altra lunghezza di corda abbastanza facile, calziamo i ramponi, nel frattempo anche il sole fa la sua comparsa …ne abbiamo proprio bisogno… ed anche un vento boia. Risaliamo verso la vetta del Palone, non con poca fatica dato il peso dei nostri zaini e la neve crostosa che a tratti ci sfinisce di fatica …mediamente affondiamo fino al ginocchio. Usciamo in vetta verso le h15,30 del pomeriggio. Scendiamo in direzione del rifugio Bogani proseguiamo verso il Cainallo arrivando all’albergo alle h 20 di sera. Sosta…Il Gestore /che mi perdoni non ricordo più il nome/ vedendoci tirati ci offre un brodino fantastico e ci fa gran complimenti. Ieri ed oggi la temperatura è rimasta costante sotto i -11 gradi. Eravamo del gruppo Corvi di Mandello ”ORGOGLIOSI”di esserlo …e senza pensieri… avevo 20 anni e l’amico Sergio 24 ani… Una grande bella avventura ”seppur piccola” x sognatori (Benigno Balatti)

Spettacolo! Queste sono esperienze che dovrebbero essere conservate nei libri! Un sentito ringraziamento a Benigno per aver condiviso la sua salita, un grazie anche ad Elisabetta per l’impegno con cui mantiene il gruppo! Grazie!

Davide “Birillo” Valsecchi

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Kundalini ed il Condor

Kundalini ed il Condor

condorForse è la mancanza di neve, o forse sono solo le polveri sottili che la scarsa pioggia non riesce ad abbattere. Tuttavia il mio caratteraccio è peggio del solito: mi infiammo e mi tuffo nella mischia a testa bassa. Alla mia età dovrei però imparare ad arrabbiarmi con cognizione, o per lo meno con un po’ di equilibrio.

Giorni fa ho dato di matto: le solite “intellighenzie” hanno abbattuto la quercia della placca di Solitudine, la leggendaria via dei Condor alla Rocca di Baiedo: “oscillava” e per tanto era un pericolo per i fruitori della falesia. A parole bastava sfiorarla perchè crollasse ma, nei fatti, hanno dovuto usare la motosega per tirarla a basso! Avendo ripetuto la Solitudine il 7 Novembre scorso con Bruna tutta la faccenda mi è sembrata pretestuosa. Per tutta risposta qualcuno, indispettito, mi ha pure bacchettato perchè anzichè protestare dovrei “essere grato alle guide che si impegnano in tali interventi così importanti per la tutela degli amanti dell’arrampicata e la valorizzazione del territorio!”.

Certo, come no, grati… recentemente le “guide” hanno la stessa etica alpinistica di un bagarino nel parcheggio di un concerto per quindicenni infoiati! Siamo al delirio… Furibondo ho ripensato al “Messia Verde” di cui mi aveva parlato Ivan Guerini e, finalmente, ho compreso tutto lo sdegno che aveva riversato nel suo famoso articolo “Dalla parte delle Pareti”.

Ci vuole poco a farmi arrabbiare, ma non altrettanto per farmela passare. La carogna mi era rimasta addosso e cominciava a pesare. Uscito dall’ufficio mi sono fatto venti minuti a piedi per raggiungere la macchina. Solo davanti alla portiera mi sono accorto di aver lasciato le chiavi sulla scrivania. «@#$%!!!» Sconfitto, dopo altri venti minuti a piedi, sono tornato all’ufficio: il portone era però saldamente chiuso per la pausa pranzo. A stento ho trattenuto la pressione che saliva ormai incontrollabile.

Come un anima in pena ho iniziato ad aggirarmi inquieto per le vie di Lecco. “Libri di montagna: tutto a 5 euro”. La bancarella mi incuriosisce e la sfrutto almeno per perder tempo. Poi la sorpresa, inaspettata e grandiosa: “La storia dei Condor di Lecco” edizione del 2006. Eureka! C’è voluta una serie di eventi nefasti ma quel libro è ora nelle mie mani!

L’ufficio era ancora chiuso ma poco importava. Mi sono seduto su una panchina al sole ed ho iniziato a sfogliare il mio piccolo tesoro. Trovo una foto di gruppo a Pianezzo e poi lo schizzo originale di Solitudine: la quercia sulla grande placca è ben visibile nel disegno. Poi passo oltre, trovo qualcosa di davvero curioso: la prima salita di Don Agostino su Il Risveglio di Kundalini, la famosa via di Ivan Guerini in Val di Mello.
La mia giornata si è raddrizzata!

Il Risveglio di Kundalini – Ottobre 1979
– Kunda… che cosa?
– Kundalini! Dev’essere una dea dell’India.
– Ma va, è un santone!
Lo chiederemo all’Ivan, per ora il mistero è fitto.
Andiamo sempre volentieri in Val di Mello, una valle incontaminata col fiume limpido, i prati ancora verdi e i fiori. C’è odore di mucche, di muschio, di funghi, di pini e rododendri. Non è, insomma, un ambiente da …”morte che arrampica accanto”.
Abbandoniamo Tiziana e Cristian in mezzo ai rododendri, tra massi di granito lasciati da un gigante giocherellone. Brugo fa finta di non essere in forma e si ferma con le ragazze: gli occhietti hanno il luccichio malvagio di chi piazza trappole per topi.
Mi lego con Andi; Briciola, dopo il forfait di Brugo, prende in consegna la Barbara. Ben presto l’ambiente diventa europeo… Popi, Amberger, Martin; e più in alto Jacopo con amici svizzeri. Si parla in inglese e fa tanto Yosemite Valley. Sono pieno di dadi: Nuts, Eccentrici, Chocks; nascondo con vergogna 4 o 5 chiodi Cassin, ma non li mollo, non si sa mai.
Mi sento più che mai Don … Williams, anche se la parte del personaggio mi sta stretta. Andi invece recita perfettamente Tom Frost. Amberger chiede gli anni di Andi e Popi fa l’interprete: dodici. Un largo sorriso… ed è subito simpatia.
“Chi chioda è uno stro…!” Questo epitafio compare scritto sull’attacco della via. Mi sento gelare… Ragazzi, sul traverso del secondo tiro ho piantato di nascosto un chiodino a lama piccolo piccolo; anzi: solo psicologico. Ho detto che era per Andi. Non è vero… Mea culpa.
Si continua. Incastro i primi dadi che entrano benissimo. La Fessura della Serpe Fuggente la superiamo in scioltezza. Vedo il Popi che si batte come un vichingo in un camino strisciando come un anguilla… Mi immagino già trasformato in un enorme “Nut” umano, incastrato per secoli nella spaccatura.  Gli alpinisti futuri, mettendomi un cordino al collo per passare, si diranno: “Questo era il Don… Se andava!”
Entra in gioco l’esperienza e decido di passare all’esterno alla “Dulfer”, e mi sento un leone…. Andi, caricato a dovere con due zaini, (la gavetta s’ha da fare!) passa altrettanto splendidamente…
E’ il nostro momento: placche, cengette, lame, sole, alberi, diventano un vortice di gioia. Vorremmo raggiungere Pol, Dan, Giovanni e Pietro che sicuramente hanno attaccato al mattino, ma purtroppo li incontreremo… lunedì per telefono. Siamo in cima, Andi è il ritratto della felicità.
– E’ caduto uno sulla Luna Nascente!
Mi si accappona la pelle: penso a Dan, Pol, Pietro e Giovanni. Corro su per i sentieri e, in mezzo ad un gruppo silenzioso, scorgo il ferito. Non lo conosco… egoisticamente mi sento sollevato e mi dò mentalmente del cretino. Sono scherzi dell’amicizia!
Inizia per tutti il lungo calvario della discesa, con le calate del malcapitato che stoicamente non si lamenta. Briciola? Dove sono Briciola e Barbara? Abbandono ancora il gruppo e di corsa ritorno all’uscita di Kundalini.
– Briciolaaaa!!
– Sono qui Don; che tiro!
Siamo insieme. E’ ora di pensare agli altri…
Guardo Barbara ed Andi, forse è il primo ferito della montagna che vedono da vicino. Più che tesi, si sentono coinvolti e danno una mano. Finalmente i prati! Cristian, Tiziana e Brugo si mostrano preoccupati. Il ferito se ne va, portato da Jacopo e dal suo amico. L’abbiamo visto sorridere e ringraziare un po’ tutti. Tiriamo il fiato, se la caverà con poco.
Dovevamo mangiare un enorme polenta verso le 15 ed ora sono le 18. Sogni di una notte di fine estate. Si va di pastasciutta condita da una gigantesca allegria. Andi le prende da tutti; con mezzo chilo di pepe nelle narici, batte il record mondiale degli starnuti. Brugo di siede di fronte alla Cristian senza speranza, Briciola imperversa sotto gli occhioni della Tiziana, Barbara osserva con distacco, ed io penso con un po’ di malinconia alla coda della statale 36… Ma che importa! Per un giorno ci siamo riempiti gli occhi di bellezza!
Don


Una triste immagine dell’arrampicata moderna: ciò che resta della quercia di Solitudine…
la quercia

solitudine

Spatapim-pum-pam

Spatapim-pum-pam

Ivan_GueriniIl 22 Gennaio era cerchiato in rosso sul mio calendario come una data che scotta. Più o meno a Dicembre mi aveva telefonato Ivan Guerini: «Ciao Davide, mi hanno invitato a Lissone per presentare un film sulla Val di Mello: Patabang. Io il film non l’ho mai visto, ma me l’ho ha chiesto un amico e penso di andarci. Mi hanno chiesto una foto per la locandina: mi giri quella fatta alla sosta sull’albero?»

Colto completamente alla sprovvista ho risposto ad una domanda con una domanda: «Ma… Ivan, sei sicuro di voler presentare quel film?» In realtà la cosa mi preoccupava e divertiva allo stesso tempo: la miscela che stava per essere innescata era davvero esplosiva!

“Patabang” è un film del 2013 realizzato da Andrea Frigerio, “Uomini e Sassi” invece è un film del 2004 di Luigi Cammarota. Il primo ha vinto il premio Orobie Film Festival nel 2014 mentre il secondo ha vinto lo stesso premio nel 2010. Nel primo compaiono Jacopo Merizzi e Paolo Masa con il commento di Simone Pedeferri. Nel secondo Ivan Guerini, Monica Mazucchi ed i Melàt. Entrambi i film descrivono la “vera” storia della Val di Mello. La cosa curiosa è che, salvo lo stesso granito su cui sono ambientate, le due storie appaiono assolutamente diverse, a tratti opposte!!

All’epoca avevo visto “Patabang” pochi giorni prima di conoscere Ivan Guerini sulla Panzeri al Pizzo d’Erna. Attraverso il film, che ruota attorno ad Ivan senza che lui compaia mai una volta, mi ero fatto un’idea ben precisa, ma assolutamente scorretta, di chi fosse il Profeta della Val di Mello.

Dopo aver conosciuto Ivan e Monica, due persone la cui complessa semplicità è il cuore e lo spirito della magia che fu della Val di Mello, non potrete rivedere Patabang senza provare un latente senso di  fastidio. Io non ho idea di cosa davvero sia successo in quegli anni, ma ci sono passaggi e battutine di Patabang che mi paiono a tratti ingiustificati e provocatori.

Il mio affetto per Ivan è innegabile. L’idea che avesse l’opportunità di “parlar chiaro” mi eccitava ma avevo anche il timore che un fiume di ricordi e tristezza potesse travolgerlo, ferirlo. Non sapendo bene cosa fare ho fatto quello che faccio di solito e che mi riesce meglio: “vis pacem para bellum”. Ho contattato la squadra ed ho chiamato a raccolta il nostro gruppo: Mav, Andrea e Brambo oltre a Bruna, Gio, Paola, Giusy e Maurizio.

I Badgers si sono schierati ed hanno riempito la seconda fila del teatro. Via le luci dalla sala, parte il film. Bruna al mio fianco mi stringeva il braccio ogni volta che mi irrigidivo. Con Ivan ho arrampicato, mi sono sbronzato, ho scherzato e discusso seriamente. Conosco bene il suo sorriso e con ansia ho osservato il suo viso illuminato dal riflesso dello schermo. Il suo sguardo era serio, a tratti nostalgico: per quanto mi sforzassi non riuscivo a comprendere quale fosse il vortice di emozioni che lo attraversava. «Amico mio, cosa hanno fatto ai tuoi sogni?»

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Luce in sala. Ivan Guerini e Luca Pedeferri si alzano in piedi e raggiungono il presentatore della serata. Ecco la domanda fatidica: «Ivan, tu non avevi mai visto il film: cosa ne pensi?» Attimi infiniti di tensione, Bruna mi stringe la mano, Ivan prende il microfono: «Credo che questo film non rispecchi la val di Mello, ma solo le persone che nella valle si specchiano».

SPATABANG! Guero spara una bordata di gran classe da tre punti! SixOneNine con FrogSplash dalla terza corda!! Quel vecchiaccio è leggenda vera!!!

Poi entrano nel dettaglio: Patabang inizia con un cartone animato in cui un Hippie stilizzato tira una pietra ad una statua eroica di un alpinista. Crea un parallelo tra la contestazione del ‘68 e le trasformazioni dell’arrampicata. “Guero”, decisamente contrariato, cerca di raccontare come lui non sia mai stato un contestatore della tradizione alpinistica, come non abbia mai sentito il bisogno di entrare in competizione o, peggio ancora, deridere gli alpinisti che lo hanno preceduto. A conferma di questo, se ce ne fosse bisogno, la maggior parte dei suoi attuali scritti sono una paziente opera di conservazione e valorizzazione delle storie e degli uomini che sono alla base della tradizione stessa.

Qualcuno dalla platea però contesta: «Perchè le due visioni non possono coesistere e confrontarsi?» Ivan, assolutamente sereno, si è limitato a rispondere «Tu potresti coesistere con qualcuno che, appropriandosi della tua casa, la stravolgesse completamente rendendola per te invivibile?»

Io ho “intravvisto” la Val di Mello di Ivan confrontando i suoi racconti con i miei ricordi della valle di Mathanter in Pakistan (all’epoca ancora inesplorata e popolata solo da pastori di capre). Credo che la Val di Mello contemporanea sia lontana anni luce dalla sua visione originale. Ormai ridotta ad un concentrato di finto anticonformismo autenticamente elitario, il palcoscenico dove coloro che vogliono sentirsi diversi si riuniscono per fare tutti la stessa cosa, vestire, parlare ed atteggiarsi allo stesso modo. Il trionfo commerciale di una schiavitù culturale spacciata ed ostentata per libertà. Tutto questo mi disorienta, non è un posto che fa per me, non è un luogo in cui posso sognare di perdermi…

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“Crik e Crok” se la cantano ammiccando piacioni a favore di telecamera per tutto il film. Si sono autoproclamati iconoclastici eroi della valle, infarcendo tutta la questione di retorica, goliardia provinciale e pseudo ideologica. Pare piacciano a tutti, sghignazzando hanno fatto la storia, ma onestamente non godono della mia simpatia…

Discorso diverso per Simone Pedeferri. Mi conoscete: c’erano i presupposti perchè mi risulatasse antipatico ma, a sensazione, mi ha sorpreso e piacevolmente incuriosito. Nel film, ma anche durante la serata, è sempre stato molto genuino ed onesto nel trasmettere le proprie sensazioni ed emozioni. Credo che come molti della nostra generazione possieda più dubbi che certezze, che nonostante la sua straordinaria esperienza stia ancora “cercando”. Questa sua inquietudine ha vinto la mia diffidenza rendendomelo simpatico. Contro ogni previsione ci siamo abbracciati scattando insieme una foto: un gesto semplice di amicizia tra due sconosciuti che si incrociano per caso. Mi è piaciuto incontrarti: se vuoi esplorare “trad” sull’Isola Senza Nome sei il benvenuto!

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Comprendere il sogno originale della Val di Mello senza conoscere Monica è quasi impossibile: Ivan è solo metà della storia. Così, per avere una visione femminile, il giorno dopo ho chiesto consiglio a Bruna, mia moglie. Lei ed Ivan a volte vanno d’accordo e a volte si detestano: di sicuro è più imparziale di me. «Bru, dammi una mano a capire: tu cosa pensi della serata di ieri?» Gli uomini hanno la chiave della vita, ma le donne quella della conoscenza: «Sono davvero due modi di fare diversi. Ivan non è uno a cui interessa la conquista, a lui interessa davvero esplorare e conoscere, scoprire i dettagli della roccia. Entrare in sintonia con la natura, vivere l’avventura. Davvero. C’è chi scopa e chi fa l’amore: due modi diversi di fare la stessa cosa». Io non avrei saputo riassumerlo meglio.

Ringrazio il Cai di Lissone: gli organizzatori sapevano benissimo cosa stavano combinando ed hanno dato vita ad una serata davvero storica e piacevole!

Davide “Birillo” Valsecchi

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– Il vero segreto della Val di Mello è una storia d’amore –

ivan e monica«Le prime vie le iniziamo a tracciare insieme. Non saprei dire se visto dall’esterno potevo sembrare più innamorato di lei o di quello che stavo facendo. Certo è che anche lei si innamorò di quello che stavo facendo. Arrampicare in coppia vuol dire amare talmente tanto da non temere per l’altra persona. Le situazioni estremamente serie facevano pensare che la ragazza era meglio non venisse con te, e invece era troppo forte l’impulso di andare assieme con la ragazza a fare queste cose. Tant’è che la vera ragione per cui in quegli anni non ci successe mai niente fu proprio perchè non eravamo complici di una meta da raggiungere, ma eravamo estremamente legati ed uniti a quello che facevamo.» I.G.

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Il vento sta arrivando

Il vento sta arrivando

San-Giuseppe-Due-Baia-ParadisoLa brezza è una massa d’aria in movimento che può essere originata da un insieme di concause davvero più disparate e imprevedibili. E’ una forma di energia che non sai mai da dove arriva e che di mezzo in mezzo passa attraverso l’etere e continua. Osservando il suo comportamento si parla di effetto farfalla quando si descrivono le piccole condizioni iniziali che possono variare di molto quelle di un intero sistema.

Pier Luigi Airoldi, non sa quale magia da lontano muova il suo cuore, ma come una brezza alpina, che scende e che sale, che vorticosamente si agita senza lasciare campo a sosta alcuna, desidera proseguire il suo cammino e non può farne a meno.

Così, con il suo sguardo semplice, si trova sotto al torrione Costanza. Si tratta probabilmente del campanile più bello, ma anche di uno dei più severi di tutta la Grignetta. La prima salita risale al non lontano 1914 e nel’33 vi è stata la storica scalata della cordata composta da Cassin, Mario dell’Oro “Boga” e Mery Varale.

Dal quel momento sono state aperte svariate linee sulle pareti tra cui la via “Gatti”, che ancora oggi ha pochissime ripetizioni. Adesso è il momento di Luigino, che desiderar ripetere questa magnifica linea insieme all’amico Roggia. E’ una via difficile e Luigino vuole farcela. S’impegna e vince tutte le lunghezza fino ad uscirne in cima nonostante il poco materiale che ha con sé. Nell’ultimo tiro non mette alcunchè e va da sosta a sosta senza piazzare protezioni, arrampica in libera senza chiodi a cui attaccarsi, con la corda che pende come un vello inerte.

Quando arriva in vetta ci trova Mario Dell’Oro in persona, insieme agli amici Piloni e Butti che subito lo rimproverano per lo slancio ardito, ma molto pericoloso dell’ultimo tiro! Parlano un po’ e fanno amicizia, poi scendono ai Piani Resinelli. I tre veterani li portano a mangiare a Ca di Zòcui, cioè la “Società” o “Casa”, “degli zoccoli”, dove i Ragni di Lecco vanno dopo le salite. E’ un incredibile onore secondo le classiche regole non scritte del “popolo” degli alpinisti e delle relative “bande”.

Il gruppo “Sempre al Verde”, èun team di fortissimi scalatori fondato nel 1946 da Giulio e Nino Bartesaghi, Franco Spreafico, Emilio Ratti e Gigino Amati. Si tratta di arrampicatori molto esperti ma giovani, con pochi mezzi di sostentamento e tantissima voglia di dire la propria nel mondo alpinistico dei numi tutelari. Al gruppo si aggiungono dopo poco altri alpinisti come Gigi Vitali, ed il nome viene modificato in “Ragni della Grignetta” conosciuti anche come “Ragni di Lecco”. Presto anche Riccardo Cassin, Carlo Mauri, Casimiro Ferrari e altri ancora vestiranno l’identificativo maglione Rosso.

Per uno scalatore che sogna l’infinito, come Luigino, i Ragni costituiscono un punto di riferimento davvero notevole. All’inizio degli anni ’50 Riccardo Cassin propone ad Airoldi di entrare nel gruppo e lui si presenta- Non sono facili le candidature e i membri non lo conoscono alpinisticamente. Luigino perciò non viene ammesso subito, ma entra l’anno successivo insieme all’amico Annibale Zucchi.

Questo è uno passaggio tratto da “Inseguendo la brezza”, un libro in cui Christian Roccati racconta e descrive le avventure di Pier Luigi Airoldi. Io ne ho una copia autografata da Luigino che conservo gelosamente. Ogni tanto, quando la quotidianità mi spinge alla deriva nella bonaccia, ne leggo qualche pagina e riprendo a sognare, a credere in nuove avventure. Oggi mi è bastato un alito di vento per scuotere le mie vele, per alzare lo sguardo verso nuovi orizzonti: a volte è sufficiente una piccola speranza per scuotere una mente intorpidita ed immobile.

Ho aperto il libro a caso e sono capitato su questa storia. Ho voltuto trascrivere qui questo passaggio quasi come un rigraziamento per l’inaspettato incoraggiamento che ha saputo darmi. Inoltre credo che ai Badgers possa piacere conoscere la storia dei “Sempre al Verde” e delle “bande” del popolo delle montagne.

La barca nella fotografia? E’ la San Giuseppe Due, la prima imbarcazione italiana ad aver raggiunto l’Antartide. Luigino Airoldi, che non era mai salito su una barca, fu un membro dell’equipaggio italiano protagonista dell’impresa. Il suo viaggio in mare, salpato da Ushuaia, aveva incredibilmente avuto inizio molti mesi prima in un solitario ghiacciaio dell’Alaska. Come era stato possibile che, disperso tra i ghiacci dell’estremo nord del mondo, si era ritrovato imbarcato verso i ghiacci dell’estremo sud? Bhe, la vita è un viaggio inaspettato: a volte si deve davvero dare ascolto alla brezza.

Davide “Birillo” Valsecchi

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“Per me l’importante era prendere e partire, non si sapeva come e quando, poi in qualche modo si faceva”. Luigino Airoldi

I Ragazzi della Grignetta

I Ragazzi della Grignetta

i ragazzi della grignettaL’eccitazione è dovuta al fatto che stringono finalmente tra le mani la loro prima corda: 50 metri di cotone di 12 millimetri di diametro. Qualche moschettone l’avevano già comprato. Insomma, lo spartano equipaggiamento ora appare loro completo. Adesso possono cimentarsi su qualche via, arrampicare sul serio! Resta da decidere da dove cominciare. Le guglie della Grignetta le conoscono bene, dal basso. «L’altra domenica ho visto due che salivano sull’Angelina», dice Villa. E’ fatta: Guglia Angelina, via normale.

Il Boga ricorda che la prima ascensione è del 1911, fatta da Fanton e Andreoletti; quest’ultimo battezzò il pinnacolo col nome della madre. Lo ha letto sul bollettino del Club Alpino. Ed eccoli lì, risalire in sei verso la Val Tesa e il Canalone Valsecchi. Boga capocordata, Villa viene scelto come secondo in quanto conoscitore della via perché aveva visto la cordata salirla; poi seguono Cassin, Comi quindi gli altri. Pronti via, poco dopo la partenza sale la nebbia, fitta, densa, che non permette di vedere a più di due metri. Ma chi può arginare l’entusiasmo degli esordienti?

Comunque in qualche modo arrivano a un terrazzino dove possono radunarsi, seppure molto stretti. Boga guarda Villa: «E adesso?» «Non so, forse bisogna andare a destra. O magari a sinistra.» Dell’Oro scuote la testa: «Ho capito», dice e parte verso destra. Arriva su un’altra piccola cengia e con la corda fa salire Villa. Intanto Pino Comi sale sulla sinistra, sparisce nella nebbia, si affaccia sulla parete est e grida: «E’ di qui, l’ho trovata. Riccardo vieni su a vedere, che andare da solo non mi fido.» C’è un momento di confusione giù sul terrazzino, perché dall’altro lato chiama Boga: «Non è di qui, è un passaggio difficilissimo. Attenzione che faccio riscendere Mario.»

Cassin decide di salire fino da Comi, guidato dalla voce dell’amico. Lo raggiunge, è fermo davanti a una strozzatura. Riccardo si fa aiutare da lui e la supera, poi si gira e gli dà la mano così che lo possa raggiungere. Adesso sono sulla cresta est e arrivano facilmente in vetta. Lo annunciano agli amici: «Ehi, siamo su, siamo in cima.» «State lì che arriviamo», urlano dal basso. «Mi vien da ridere – dice Comi a Cassin – la corda ce l’hanno loro, dove vogliono che andiamo?»

«Mario, ci sarà poco da ridere se non arrivano fin qua», ribatte Riccardo. «Perché da qui, senza la corda, per scendere dovremmo avere le ali.» In mezzo alle folate di nebbia, però, ecco comparire un’ombra. E’ Dell’Oro che si tira dietro come una chioccia gli altri tre compagni legati alla sua corda. Nessuno sa come si scende. «M’hanno detto che è stato piazzato un anello nella roccia, per far passare la corda quando si scende», sostiene Boga. Riccardo cerca sulla piccola vetta e, sulla parte opposta a quella dove sono sbucati, lo trova: «Eccolo qui.» Fanno un nodo a metà della corda in modo che non possa sfilarsi. «Vai tu per primo, io faccio l’ultimo», dice Cassin.

Dell’Oro scende utilizzando metà corda e Riccardo lo assicura con l’altra metà, sparisce nella nebbia. Un po’ di ansia: arriverà sul terrazzino o la corda sarà troppo corta? Cominciano a valutare la loro imprudenza. Poi giunge la liberazione dalla voce del Boga: «Son giù!» Uno dopo l’altro, lo raggiungono tutti. Riccardo disfa il nodo, non avrà nessuno a fargli sicurezza! Tiene in mano i due capi della fune, che passa libera dentro l’anello di calata, le afferra e si lascia scivolare nel vuoto. La cima sparisce nella nebbia, la parete è ora davanti agli occhi; poi, sotto, le figure sfuocate dei compagni, fino al “Ci sei” del Boga.

Cassin a quel punto tira un capo della fune che, sfilandosi dall’anello, precipita con un fischio sul terrazzino. La loro prima ascensione era, in qualche modo, compiuta.

– Tempo fa avevo letto uno scritto in sui si raccontava di come Cassin e Boga, quando non arrampicavano insieme, si contendessero come “secondo di cordata” un alpinista locale di grande pazienza e capacità. Un alpinista famoso di cui, tuttavia, non ricordo il nome (credo fosse Giuseppe Comi). Cercando in rete quell’articolo mi sono imbattuto in questo passaggio tratto da “Cento anni in vetta. Riccardo Cassin. Romanzo di vita e alpinismo”, un libro scritto da Redaelli Daniele per Alpine Studio (Link IBS).

Senza volerlo ho trovato qualcosa di altrettanto prezioso: il racconto della prima salita di Cassin e compagni.

Davide “Birillo” Valsecchi

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