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Vergine d’oriente

Vergine d’oriente

 

Sabato mattina sguscio fuori dal letto e guardo attraverso le finestre: prima a sud e poi a nord. La neve è arrivata sull’Isola Senza Nome a metà settimana, ma la pioggia a bassa quota mi aveva sempre scoraggiato dall’andare a curiosare tra le nuvole. Ma oggi non piove, forse è la volta buona! La neve sull’Isola è qualcosa di speciale, un evento che accade due o tre volte l’anno e che svanisce in fretta. Così, nel nuovo millennio, apro Internet e do un’occhiata alle webcam e agli “inviati speciali”. Da quando vivo sul versante Sud gli amici del versante nord mi fregano sempre: da Valmadrera salire ai Corni è più lunga che da Valbrona e sul lato nord, specie in val Cerrina, c’è sempre un sacco di neve in più. Qui al sud la neve inizia sempre molto in alto e per raggiungerla tocca affrontare lunghi tratti spesso sotto la pioggia. Questo lo so perchè sono nato e cresciuto al Nord, qui a Sud mi godo il sole ed il caldo  ma durante l’inverno pago pegno agli amici sull’altro versante.

Su Facebook ecco puntuali le foto di Ivano: caminetto, corno Occidentale e poi via, traversata verso il corno Centrale. Doppietta. Stefano invece pubblica una foto del crocifisso di legno: probabilmente affronterà la ferrata del venticinquennale e poi risalirà la cresta superando il Passo della Vacca. Andata anche questa! Resta forse la cresta integrale del Moregallo, forse… Per me è tardi: la “vergine bianca” sulle cime se la sono già presa tutta!

Come maschio adulto posso dirvi che una “vergine” è letteralmente il peggior guaio in cui abbia cercato di infilarmi da giovane: fortunatamente alla mia età simili rischi sono ormai scongiurati! Se devo essere onesto quella cosa del “paradiso con 70 vergini” mi pare più una spaventosa minaccia che un’invitante premio. Tuttavia se parliamo di roccia o neve incontaminata ed intatta, vergine appunto, è tutta un’altra questione! Alla mia età addentrarsi per primi in un universo bianco di morbide e vellutate linee è ancora un’eccitante attrazione!

Certo, ma in questo assalto generale dove cercare la propria vergine bianca? Così ho svegliato Bruna, che è astrologicamente vergine: “Hey Bru! Vieni a fare due passi nella neve?” Due ore più tardi, dopo brontolii ed interminabili preparativi, riusciamo ad uscire di casa. Ormai sono le undici, decisamente tardi, ma il cielo è coperto di nuvole: l’unico pericolo è che la neve si sciolga prima di riuscire a raggiungerla!

Da Piazza Fontana a Sambrosera il nostro è un piccolo intenso calvario: “Io non ci volevo venire!” “E allora perchè  mi hai detto sì?” “Perchè volevo fare qualcosa con te!” “Tipo brontolarmi contro tutto il tempo?” “Maledetto #$£*! Spero che nella prossima vita tu ti reincarni in una donna costantemente travolta dagli sbalzi ormonali!!” “Curioso… sai che una maga una volta mi ha detto che nella vita precedente ero una prostituta inglese che scriveva poesie… guarda, credo che con un paio di tette sarei irresistibile anche senza scrivere sonetti!” “AAAAARRRGH!!!” Fino a quando le endorfine non le hanno dato un po’ di gratificazione non c’è stato modo di vederla sorridere!!

Tuttavia io un’idea su dove trovare la mia vergine ce l’avevo! Da Sambrosera rimontiamo verso la cresta che dal Corno Rat risale al Corno Orientale. Sulla traccia ci sono già due piste: una persona con scarpe leggere è scesa ed un’altra, indossando degli scarponi, è risalita. Tuttavia sono abbastanza confidente: vanno e vengono dal Fo, il grande faggio ai limiti del val Ravella, non sembra gente che punti alla cima lungo la cresta!

Al bivio la mia teoria trova conferma: la cresta è vergine! Piano piano inizio a fare le traccia risalendo attraverso il bosco. La neve trasfigura ciò che ci circonda rendendo luoghi familiari quasi sconosciuti. Copre ogni cosa ma è ancora poca, non offre appoggio ma nasconde i sassi e le insidie. Sui lati della cresta il bosco precipita ripido e profondo, suggestivo ed inquietante: scivolare di sotto significa mettersi in guai davvero seri.

Per Bruna è dura, nei passaggi più complessi, attraverso le rocce ed i passaggi obbligati, devi infilare le mani sotto la neve, cercare qualche buona presa e piazzare bene i piedi cogliendo appoggi ricoperti di bianco. Dopo l’incidente non si fida ancora della roccia, ha sempre paura che crolli di colpo e di certo le mani intorpidite dal freddo non la aiutano. “Accidenti, che freddo alla mani! Ma perchè dovevo sposare un dannato alpinista! Perchè ti ho dato retta!”

Lungo la cresta ci sono un paio di lunghi passaggi attrezzati con le catene: possono essere aggirati ed evitati seguendo il sentiero ma con la neve quelle deviazioni, a sbalzo sul bosco verticale, mi sembravano persino più esposti e pericolosi del tratto attrezzato. “Te la senti di passar su di qui?” “Quanto è lungo” “Trenta metri, massimo quaranta” “Okay, proviamo!”. In realtà c’è gran poco da provare, la parete sale quasi verticale e se piombi arrivi a terra.

Le catene sono incrostate di neve ma non c’è ghiaccio, non fa abbastanza freddo. Tuttavia la placca è bagnata ed ogni appiglio è coperto e nascosto dalla neve. Parto per primo e cerco di fare pulizia, con la catena la difficoltà è azzerata …ma solo se hai forza e metodo per restarci aggrappato. Bruna mi segue, spinge e tira, ma a metà si blocca. Nonostante i guanti la catena è molto fredda ed anche infilare le mani nella neve non aiuta. Io sono tranquillo senza guanti, ho dovuto arrampicare spesso al freddo, ma lei non c’è abituata: il dolore alle mani la sorprende e la spaventa. Appesi a metà parete cerchiamo di risolvere la questione: un pezzo di corda mi avrebbe fatto decisamente comodo! Poi, ritrovato coraggio e determinazione, rimontiamo l’ultimo tratto della parete. Il resto della cresta ha ancora tratti esposti ma nessuno così continuo e lungo.

Giunto sotto lo sperone dell’anticima ci accolgono un paio di curiosi uccelli che paiono banchettare con i ciuffi d’erba che spuntano tra la roccia innevata. Un ultimo tratto di catene rimonta l’anticima portando direttamente alla Croce del Corno Orientale. Le catene rimontano una placca inclinata non particolarmente difficile, tuttavia rimonta verso il lato sud dell’anticima puntando alla parete aperta: dove la catena curva per piegare ad ovest ci si trova a sbalzo su un vuoto di quaranta metri che precipita verticale sulle piante. In estate, con la roccia asciutta, è un passaggio capace di mettere una certa inquietudine se affrontato senza lounge di sicurezza. Pensare a Bruna in quel passaggio slegata e con la neve mi metteva i brividi: così ho preferito aggirare per il bosco.

Quando siamo arrivati in cima al Corno Orientale sopra di noi si è aperto l’azzurro e le nuvole hanno reso surreale lo scorcio verso il Corno Centrale ed il pilastrello: un piccolo premio finale per la nostra piccola avventura prima di ripiegare verso la SEV in cerca di pastasciutta e vino rosso!

Davide “Birillo” Valsecchi

Il Paradosso del Cane

Il Paradosso del Cane

«Tu hai sempre dei cicli depressivi fasici, ma questo sta diventando più lungo del solito» Avere una moglie che è operatrice della riabilitazione psichiatrica spesso si rivela uno specchio fin troppo impietoso in cui osservare le proprie inquietudini. Sono ormai due settimane che l’influenza mi tiene prigioniero: non posso uscire e non sono abbastanza lucido per lavorare ai miei progetti, passo il mio tempo avvolto in una coperta guardando documentari sui soldati in Afghanistan e sulle truffe bancarie perpetrate contro la middle-class nel 2009. Bene, ma non benissimo insomma.

Così, in uno slancio suicida, ho infilato gli scarponi, due maglioni e sono uscito di casa. Più o meno all’altezza di “GianVacca” mi chiama Bruna al telefono: «Sei uscito?» «Sì – rispondo con il fiatone – ho fatto cento metri ed ansimo come un vecchio! Ho anche litigato con i cani!» Bruna dubbiosa «Come con i cani!? Quali cani?!» «No, no. Non per davvero: in modo metaforico, un paradosso della società contemporanea. Poi ti spiego, ora devo camminare: sembro una lumaca asmatica!» Bruna era un po’ perplessa, ma io avevo un sacco di passi ancora da mettere in linea.

Già, il paradosso dei Cani. Normalmente, quando sono in forma, i cani si guardano bene dall’abbaiarmi contro, specie quando sono solo. Credo sia l’odore o l’atteggiamento, qualcosa sentono di sicuro. In alcuni casi, con tanto di testimoni, è bastato che modulassi la voce in un certo modo per metterli in fuga spaventati. Deve essere qualcosa che ho sviluppato studiando Karate e passando tanto tempo da solo in montagna. Credo sia una forma di “presenza mentale” che a volte funziona persino con gli esseri umani ostili: ci ho vinto delle gare ed evitato persino qualche rissa.

Oggi però, una coppia di pastori tedeschi, ha sentito che ero malato e debole lanciandosi furiosi e vocianti contro la recinzione che costeggiava il sentiero. All’inizio la cosa mi ha infastidito, poi mi ha incuriosito e fatto riflettere. Quella recinzione serve a definire una proprietà dando ai cani la libertà di correre senza rappresentare un pericolo per chi passa: è una convenzione sensata, che dovrebbe tutelare tutti, padroni, cani, passanti, ma questi due idioti a quattro zampe non trovano di meglio che aggredirmi per divertimento. Già, perchè anche se sono malato, senza quella rete a proteggerli non avrebbero di certo avuto quell’atteggiamento tanto spavaldo.

In natura difficilmente gli animali diventano aggressivi senza motivo, quando lo fanno, anche in modo dimostrativo, hanno sempre uno scopo preciso. La natura non fa sprechi. Al contrario gli animali domestici, quelli “civilizzati”, quelli più umani, spesso lo diventano solo per noia o divertimento. Io stavo solo passando, non ero una minaccia nè per loro nè per la proprietà, perchè ribadire in modo tanto aggressivo la loro posizione, perchè utilizzare la recinzione per “spingersi oltre” a scapito mio?

Questa era la metafora della società contemporanea: cani che passano il proprio tempo al sole, con la ciotola piena e nessun problema, pronti a scattare contro chi si avvicina ai possedimenti su cui sono arroccati, a sfruttare tutele che dovrebbero essere reciproche per “spingere oltre” la propria aggressività, il proprio dominio. Tu puoi solo arretrare, perchè diversamente dovresti litigare con il cane, con il padrone, i suoi avvocati ed un esercito di integralisti animalisti. Tu stavi solo facendo la tua strada, senza pretese, ma devi stare in silenzio mentre quelli ti urlano contro, protetti dalla rete che dovrebbe proteggere te. Anzi se provi a rispondere finirai per certo nei guai. 

Non credete sia così? Guardatevi intorno: è pieno di cani che abbaiano nascondendosi dietro artificiose recinzioni! Il referendum doveva spazzare una classe politica quasi abusiva, li sentite come abbaiano minacciosi protetti dietro la loro inavvicinabile recinzione? E le banche? Hanno imbrogliato i risparmiatori, sono fondamentalmente dei ladri che hanno abusato della propria posizione dominante.  Hanno fatto una scommessa pericolosa, opportunista ed egoista, ed hanno perso.  Ma saranno i cittadini a salvarle, poco importa la crisi e le mille emergenze. Non importa neppure che la loro scommessa fosse dichiaratamente contro il bene comune e la nostra pelle: i soldi per le banche li hanno trovati subito, direttamente nelle nostre tasche. Provate ad opporvi: non li sentite ora abbaiare mentre in silenzio, a testa bassa e spaventati, arrancate come meglio potete sul vostro sentiero?

Di contro, come reazione, anche noi cerchiamo di diventare a nostra volta cani: spaventati cerchiamo una recinzione, anche traballante, dietro cui nasconderci per poter abbaiare a nostra volta. Avete presente quanto ridicoli siano certi cani di piccola taglia che ruggiscono nascondendosi dietro un niente? Ecco, quelli siamo spesso noi. Un ciclo che si ripete all’infinito in un latrato senza fine. Questa è la cosa più triste, perchè non ci rendiamo conto che quelli chiusi in gabbia sono loro, che senza quella recinzione, che serve ormai più a loro che a noi, sarebbero solo degli stupidi ed inutili cani viziati che abbaiano contro dei leoni. Vorrei proprio vederli aprire bocca senza quella recinzione garantista…

Già, il paradosso del cane: visto che mi sento come Van Gogh in procinto di tagliarsi un orecchio, credo che la febbre abbia iniziato a risalire. La situazione poi si è fatta ancora più grave perchè, nonostante tutti i buoni propositi, ho lasciato il sentiero infilandomi nel bosco ed al momento sono guidato dal suono di un pianoforte che vibra tra i miei pensieri. Bene, ma non benissimo in effetti….

Forse però è questo che cerchiamo nella montagna, non la libertà, ma l’onestà di cui siamo privati. Se provi ad abbaiare alla montagna nascondendoti dietro un effimera recinzione questa, con i suoi tempi, finirà immancabilmente per prenderti a calci in culo. E’ fatta così, brutalmente onesta, mai equa, pesa il tuo cuore ad ogni passo: ma forse è questa la libertà. “Vieni a me, così come sei…”

Io, ormai fradicio di sudore, arranco su pendii gelati inseguendo effimere cascate di ghiaccio. «Birillo, è tutto ghiacciato, il sole se ne è andato e non tornerà fino a domani. Se combini qualche casino, qui, ti addormenti per sempre! Sei ancora mezzo malato e ti metti a far canali di ghiaccio con una vecchia racchetta da neve?» La mia coscienza è il compagno di viaggio più petulante e fastidioso che mi potesse capitare! Sebbene non a piena forza, il mio motore sembra girare bene. Il mio giudizio, se non proprio lucido, è adeguatamente allineato.

Il ghiaccio è affascinante, anche se praticamente non ho quasi nessuna esperienza in materia. Certo, nel 1985 avevo gradinato con martello e scalpello la cascata di ghiaccio dietro casa e mio padre, sebbene avessi nove anni, era pronto a farmi sicura dal pollaio con la corda per la legna se mia madre non si fosse opposta quando ero più o meno a quattro metri da terra. Tuttavia non posso definirmi un’esperto di cascate di ghiaccio, forse è per questo mi sono limitato ad arrampicare sulla roccia accanto….

Un grosso boccione è volato di sotto rimbombando, certo, ma in linea generale la roccia era curiosamente solida e lavorata. Il ghiaccio però non sembrava “legarla” abbastanza da ignorarne la fragilità: posto decisamente curioso e selvaggio. Per raggiungere la base della cascata più grande dovevo risalire un muro roccioso incrostato di ghiaccio ed erba, avevo individuato il punto in cui riuscire a passare con pochi passi ma la coscienza continuava a protestare.

«Tu accampi solo scuse per tirarti indietro. Io dico che si passa e da lì, dal boschetto appena sopra, è tutta dritta fino al cuore della gola»
«Scuse!? Ma quali scuse!! Scemo, guardati intorno! Dovevi andare in cima al Corno Rat seguendo il sentiero, una passeggiata per anziani: come accidenti abbiamo fatto a finire qui?! Ammesso che tu riesca a salire senza cadere, come farai a scendere? Sei ancora mezzo malato, se finiscono le batterie prima che finisca l’ingaggio? Non c’è assolutamente modo di uscire da sopra e siamo su un pendio di paglione gelato che precipita in un canale buio e pieno di ghiaccio. Vuoi che faccia l’elenco di tutti i “modi brutti” in cui puoi lasciarci la pelle oggi?»

La mia coscienza ha un’aggressività latente davvero disdicevole.
«Sì, vabbè, però ormai son qui…»
«Certo! Ma davvero ti lasciano uscire da solo?! Sei un pericolo! Dovrebbero rinchiuderti e lasciarti abbaiare dietro una recinzione!»

Oilà, questa era buona e paradossale allo stesso tempo!

Okay, non sono tanto fulminato da avere amici immaginari con cui andare a passeggio, ma l’economia generale dei miei pensieri era più o meno quella. Così, visto che davvero le mie batterie iniziavano a scaricarsi e l’impegno era significativo, ho girato i tacchi e piano piano mi sono riportato tra la civiltà, sogghignando felice…

Forse è solo una coincidenza, una fortuita casualità, tuttavia sono ripassato davanti a quei due idioti a quattro zampe: sono corsi come dei forsennati verso la recinzione ma, curiosamente, si sono ben guardati dall’aprire bocca questa volta. Cosa era cambiato? Niente, è bastato guardarli con occhi diversi. Già, divertente: forse ho ancora l’influenza ma tutto sommato credo di essere guarito.

Davide “Birillo” Valsecchi

Introduzione all’alpinismo Invernale

Introduzione all’alpinismo Invernale

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Due cordate impegnate nella prima salita invernale della cresta Sud del Pizzo Coca, nelle Alpi Orobie (foto S. Calegari)

Dicembre 1968 – Chiedendomi di scrivere qualcosa sull’alpinismo invernale l’amico Luciano Viazzi mi ha messo – certo senza volerlo – in imbarazzo. Si tratta, infatti, di un argomento complesso e molto, molto vasto (basta considerare la mole – quattrocento pagine – del mio libro “L’alpinismo invernale dalle origini ai giorni nostri”, uscito proprio in questi giorni per i tipi dell Baldini & Castoldi). Un discorso sull’alpinismo invernale interessa una serie di temi e di problemi diversi (taluni dei quali dibattuti, e causa di polemiche), che non è certo facile schematizzare e sintetizzare: perché si pratica questa forma di alpinismo? Come è nato l’alpinismo invernale, e quando?  Quali le caratteristiche ambientali e climatiche in cui esso si svolge? E d in quale periodo di tempo lo si può praticare (d’inverno, d’accordo ma bisogna considerare obiettivamente cos’è e quanto dura l’inverno alpino)? E ancora, quale equipaggiamento ed attrezzatura sono necessari all’alpinista invernale moderno?

Una serie di quesiti cui hanno risposto – un po’ per uno, e ciascuno a modo proprio – gli oltre duemila alpinisti che, compiendo delle “prime invernali” sulle Alpi e sugli Appennini, hanno scritto la storia dell’alpinismo invernale fino ad oggi.

Comunque, considerata l’estrema attualità dell’alpinismo invernale (che oltre di stagione è anche di moda ora) ed il suo innegabile interesse, possiamo almeno cerca insieme di avvicinare questo multiforme argomento esaminandone gli aspetti essenziali

La pratica dell’alpinismo invernale ebbe inizio nel 1832 nell’Oberland Bernese ad opera del professor Hugi il quale, per verità, salì in montagna per studiare il movimento dei ghiacciai nella stagione invernale. Poi però, presoci gusto, tentò niente meno che l’Eiger! Trent’anni più tardi anche Kennedy affrontò d’inverno l’alta montagna: ma col solo intento di evitare le scariche di pietre che battevano i fianchi dell’allora inviolato Cervino.

Nel frattempo, però, Simony e Francisci avevano raggiunto, da soli, le cimi del Dachstein e del Klein Glockner. Gli alpinisti, ora, percorrono l’alta montagna invernale alla ricerca del nuovo: nuovo ambiente, nuove difficoltà, nuove sensazioni. A questo punto, e cioè fra i quattro episodi iniziali che restarono isolati e le imprese degli inglesi nell’Oberland e nel Delfinato (Moore e Walker, nel 1867), che segnarono l’inizio della conquista invernale sistematica delle Alpi, si colloca la prima ascensione invernale italiana. Protagonista il valdostano Antonio Laurent, che sa solo salì alla Testa Grigia nel 1864 (cioè dieci anni prima dell’impresa di Vaccarone, Martelli e Castagneri all’Uia di Mondrone, fino ad oggi ritenuta erroneamente la prima invernale italiana).

Lo sci- alpinismo nacque nel 1893 e contribuì in misura notevole alla conquista invernale delle Alpi. Ma, esaurita nel periodo tra le due guerre la sua impronta esplorativa, esso prosegue ora limitandosi al percorso degli itinerari più remunerativi già noti.

L’alpinismo invernale è nato sulle alte Alpi ghiacciate, e solo più tardi si è diffuso verso oriente, dapprima nelle Alpi Centrali, poi sulle Prealpi ed infine nelle Dolomiti: ed è naturale, perché sui colossi di ghiaccio gli alpinisti erano abituati alla neve che, viceversa, in Dolomiti non è certo un elemento fondamentale del paesaggio e dell’arrampicata. Viceversa, l’alpinismo invernale su grandi difficoltà, nato sulle Alpi calcare austro-tedesche ed affermatosi sulle Dolomiti – in due tempi: 1938 (Kasparek e Brunhuber) e 1950 (Buhl e Rainer) – si è poi esteso ai grandi itinerari in alta quota della Alpi Occidentali.

“L’alpinista è un vagabondo” ha scritto Mummery: e scarseggiano ormai le novità in fatto d’alpinismo, ecco che le scalate invernali consentono ancora di vivere l’avventura. Anche se, in fondo, le invernali sono soltanto scalate effettuate in particolari condizioni (taluni itinerari, infatti, posso rivelarsi più impegnativi in estate che non in inverno). Innegabilmente, però, l’alpinismo invernale ha contribuito ad un rinnovamento dell’alpinismo moderno, ampliandone il terreno di gioco che andava esaurendosi, affinandone la tecnica (anche in funzione dell’attività extra-europea), ed avvicinando fra loro, almeno al vertice delle difficoltà, gli opposti indirizzi di scuola “orientale” ed “occidentale”.

Le scalate invernali – si sa – richiedono una preparazione, un impegno (ed un equipaggiamento), certamente maggiori che non nelle estive: così, l’alpinismo invernale rappresenta il vertice della attività alpinistica ed insieme una magnifica e seria palestra di formazione.

La valutazione dell’impegno richiesto da una scalata invernale, a parte ogni altra evidente considerazione, deve spesso tenere conto dei problemi relativi all’accesso ed alla via di discesa perché, in inverno, la montagna può mutare aspetto profondamente. Così, anche la valutazione delle difficoltà tecniche può riservare, d’inverno, delle sorprese. Come sui versanti settentrionali, dove vie di roccia di 4° grado “estivo” si tramutano in vie di temibile “misto”. Ed allora è indispensabile che l’alpinista conosca profondamente tutte le caratteristiche dell’inverno alpino, onde prevedere le condizioni della montagna invernale.E qui si innesta un altro discorso: quello relativo alla delimitazione del periodo di tempo valido per l’attività alpinistica invernale. Purtroppo, sono discorsi troppo lunghi per essere riassunti qui in poche righe… Oggi, inarrestabile progresso della tecnica alpinistica ha trovato nelle scalate invernali un banco di prova formidabile: purchè non prevalga lo sterile tecnicismo! E se non si accettano i chiodi ad espansione, il cordino per il rifornimenti dalla base, il finanziamento pubblicitario delle imprese a lungometraggio, il “sistema” di tipo himalayano, se ci si vuole fermare insomma ai cosiddetti “sistemi tradizionali”, allora l’alpinismo invernale (e l’alpinismo stesso) è finito?

Io non credo. Perché, ad esempio, nel 1964 i 1700 metri della famosa parete orientale del Watzmann sono stati percorsi in invernale da una comitiva di ben cinquantasei alpinisti. E perché, sempre ad esempio, c’è ancora una parete Sud del Cervino che attende i suoi conquistatori…

Ercole Martina

Dicembre 1968 – Articolo pubblicato su “Rassegna Alpina”.

La Cresta Ovest del Moregallo

La Cresta Ovest del Moregallo

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Sabato sera io e Bruna siamo andati al cinema a vedere “DeadPool” in una sala affollata da ragazzini accompagnati da adulti: io, per l’appunto, ero accompagnato da Bruna! Il film è uno spasso ed anche Bruna si è divertita parecchio. «Probabilmente la tua ragazza, che ti ha accompagnato al cinema, starà pensando “Questo è un film di supereroi, ma quel tipo in tuta rossa ha appena trasformato quell’altro tipo in un fottuto Kebab”. Sorpresa, questo è una storia diversa sui supereroi.»

Finito il film ci siamo fiondati al TrueBeer. Lì ci aspettava una significativa rappresentanza dei Badgers, compresa la fazione ribelle (sì, la nostra giovane compagine è nella sua fase adolescenziale!!). Ero contento di vederli tutti, così come sono contento che alle volte non siano d’accordo con me: siamo un branco di lupi, non un gregge di pecore. Io devo solo funzionalmente tenerli uniti, ma senza trattenere il loro slancio anarchico e “Rock ‘n’ LoL”: è così che mi piacciono!

Fabio, uno dei due fondatori del TrueBeer, casualmente indossava la maglietta celebrativa stampata per il mio matrimonio. Questo ci ha permesso di ricordare che sabato eravamo sposati esattamente da sei mesi: manco a dirlo mi sono sbronzato! Prima con pinte di Cascadian e poi con una bottiglia di grappa al mirtillo (che Fabio ha lascivamente appoggiato sul tavolo). Demolito e dilaniato sono stato trasportato a casa unicamente grazie al gentile supporto di mia moglie!

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Il giorno dopo, verso mezzogiorno, mi sono ritrovo nel letto i gatti che, appollaiti sulla testa, mi hanno svegliato con un concerto di fusa (e morsi!). Ho preparato il caffè e dato un occhiata fuori dalla finestra. Corni e Moregallo erano coperti dalla nebbia: sapevo che la neve c’era ma non sapevo se valeva la pena e quali fossero le condizioni sopra la nebbia. Il bollettino nivologico era chiaro: pericolo 4 sopra i 1300 metri su ogni versante. La gente si lascia prendere dall’isterismo quando arrivano queste nevicate estemporanee e mi scoccia dare il cattivo esempio. Tuttavia i Corni sono 1.373 metri mentre il Moregallo è 1.273: potevo anche starci…

Ivano di Valbrona, come sua encomiabile consuetudine, era salito per primo sulla cima del Corno Occidentale ed aveva pubblicato le sue foto su Facebook. Questo mi permetteva di sapere, con buona precisione, lo stato della neve e del tempo (Grazie Ivano). La cresta del Occidentale? Il Centrale? L’attraversata? Non sapevo bene cosa fare, questo è il mio primo inverno a Valmadrera ed ero piuttosto indeciso.

Inoltre mi scocciava piantare in asso Bruna lasciandola sola tutto il pomeriggio. Tuttavia, proprio in quel mentre, la mia mogliettina si è lanciata in cucina canticchiando e facendo il balletto di Arlecchino: “Vado a Bellagio con la Ross! Vado a Bellagio con la Ross!”.  Povero maritino solo ed abbandonato: “Vabbè, amore, allora io andro a fare due passi dietro casa…”

Equipaggiamento leggero, 30 metri di corda nello zaino (tanto per non averne bisogno), e via. Da Valmadrera alla cima del Moregallo sono mille metri tondi di dislivello. La neve ha cominciato a farsi vedere dopo il Tecc di Port mentre la nebbia è sparita una volta raggiunta la bocchetta delle Moregge. La cresta ovest è decisamente esposta, discontinua ed impegnativa. Nel senso: se hai il passo saldo vai abbastanza tranquillo, diversamente c’è il rischio di farsi drammaticamente male. Inoltre con una quantità maggiore di neve tutta quella zona, soprattutto il sentiero normale, richiedono un’attenta lettura della situazione perchè il rischio di piccole slavine sui pendii erbosi esposti a sud crea una pericolosa miscela con i canali sottostanti.

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Fatte queste dovute riflessioni ci si ritrova in uno scenario dal fascino alpinistico che a tratti, con lo sfondo del lago, ci trasporta tra i fiordi nel profondo nord. Un paio di passaggi delicati, soprattutto perchè esposti sulla valle delle Moregge, ed un breve tratto attrezzato. Curiosamente la neve non era vergine, vi era infatti già una traccia di qualcuno che ha percorso la cresta in discesa. Il sentiero normale e quello che poi scendeva verso Preguda erano invece abbastanza battuti. Sono arrivato in cima più o meno alle quattro e, giustamente visto l’orario, ero lassù assolutamente solo (…approposito di cattivi esempi: è decisamente preferibile salire la mattina ed in gruppo).

Nei versanti al sole (anche nella parte nord)  la neve ormai gocciolava vistosamente lasciandosi andare sulle pareti, mentre nei lati al buio iniziava già a ghiacciarsi croccante. Il Moregallo, rispetto ai Corni, è uno scenario decisamente più complesso dal punto di vista della neve: ero curioso di osservarne le dinamiche. Con una nevicata più abbondante quella montagna a sbalzo sul lago può diventare davvero una grande avventura!!

Questa è la prima nevicata di Marzo, io credo che prima di Aprile la neve farà ancora altri regali ai Pirati dell’Isola Senza Nome: testa sulle spalle e godetevi la bellezza delle nostre montagne!

Davide “Birillo” Valsecchi  

L’effimera cascata di Valbrona

L’effimera cascata di Valbrona

01Passano gli anni, tutti sanno che esiste, o che è esistita, ma solo in pochi l’hanno vista davvero ed ancor meno possono raccontare di averla salita. Quest’anno, all’improvviso, è apparsa di nuovo: la cascata di ghiaccio di Valbrona.

Questa volta il primo a salirla è stato “Sisso”, poi la voce ha iniziato a correre. Quando l’ha saputo Fabio mi ha telefonato: «Birillo vieni a farla?» Le cascate di ghiaccio non fanno per me e stavo rientrando da una giornata d’arrampicata al Moregallo. Il momento però era topico, non potevo lasciare che l’occasione cadesse nel vuoto: «Naaa, io non ho nemmeno le picche adatte… Però chiama Mav e Brambo! Loro sono alle prime uscite ma hanno tutto il necessario! Chiamali ed arruolali!»

Il giro di telefonate si allarga. Le conferme rimbalzano sulla rete GSM e a me non resta che aspettare l’esito sperando per il meglio. La sera, rientrando dalla Valtellina con Bruna, allungo fino ad Erba per far tappa al TrueBeer. «Allora?» «Fatta!»

La cascata di Valbrona è alta una sessantina di metri e, stando alle cronache, si forma ogni 15/20 anni dando mostra di sè per qualche giorno prima di crollare. Esposta a nord si trova tra i 300/400 metri di quota. Delicata, effimera e fragile. Fabio, viste le condizione e l’esperienza dei compagni, ha scelto con saggezza di risalirla corda dall’alto: grazie per l’opportunità che hai dato ai nostri due tassi da ghiaccio!

Sono proprio contento che i miei amici siano riusciti a cogliere questo effimero regalo dei Corni!
Bravi!!

Davide “Birillo” Valsecchi

TopRopeDown della cascata di Valbrona: domenica 24/01/2016
Fabio Gobbi, Maurizio “Mav” Cairoli, Alberto “Brambo” Brambilla.   

Pizzo dei Tre Signori – via del Caminetto (invernale)

Pizzo dei Tre Signori – via del Caminetto (invernale)

Innanzitutto un enorme ringraziamento a «San Simone da Cranno» per aver recuperato la squadra che, costretta dalla nebbia ad un clamoroso «atterraggio fuori sede», si è ritrovata ad Ornica, nella bergamasca.

Partiti alle cinque e mezza abbiamo attaccato dal secondo ponte di Introbio alla volta del Rifugio Grassi. Da qui, mentre l’eclisse di sole iniziava a mostrarsi al di sopra delle nubi, abbiamo cominciato la nostra “cavalcata” lungo la cresta che conduce alla vetta del Pizzo dei Tre Signori.

La neve, intonsa e vergine, era abbastanza compatta per sostenere il peso dei nostri passi. Solo dove il vento aveva creato grandi accumuli di neve si affondava fino oltre il ginocchio. La lunga salita attraverso le creste ed i canali prevede un “menù” a base di traversi violenti ed intensi passaggi su roccia. Ovunque ti volti trovi Immensi ed infiniti cananoli che, invasi dalla nebbia, sembrano pronti ad inghiottirti. Dio abbia davvero pietà di chi sbaglia!

Viaggiamo slegati sulle creste alternando neve, roccia e paglione: non ci sono passaggi banali ma solo passaggi esposti sulle nebbie insondabili. «Le Medie Montagne in questa stagione assumono proporzioni spazio-temporali assai più vaste e impegnative» Ciò che ci circonda nel suo intimo possiede tutta l’intensità indomita delle montagne più alte, e più giovani, che troneggiano nei rotocalchi sponsorizzati: a due passi da casa non mi aspettavo una salita tanto strepitosa!

Arrampichiamo in libera tra roccia e neve, sulle asperità dei conglomerati poligenetici, il cosiddetto “verrucano lombardo”. Per i figli del calcare marmorizzato dei Corni è quasi un’emozione. Immerso nella neve, sospeso sopra gli abissi, lascio che la serenità mi pervada mentre con calma “esprimo” ogni movimento con attenzione: «Forza Birillo, tutto quello che devi fare è continuare a salire, senza sbagliare». Forse davvero non esiste libertà più grande.

Caminetto: estate -inverno
Caminetto: estate -inverno

Il famoso caminetto è quasi irriconoscibile dalla quantità di neve che lo invade. Alla base il vento ha creato un’alta cornice che si deve superare per entrare nel camino, espostto direttamente sul canale sottostante. La neve ammassata è enorme tanto che la sola roccia affiorante è quella che forma la parte esterna e sommitale del camino stesso. Affondando fino ai fianchi risaliamo sfruttando la spalla rocciosa. Poi ancora creste e finalmente la croce!

Giunti in vetta sembrava che le difficoltà maggiori dovessero essere concluse. Tuttavia il tempo sembrava non essere d’accordo e la nebbia, che fino a quel momento aveva sembre offerto piccole schiarite, si rinforza nascondendo ogni cosa. Il “WhiteOut” è arrivato quasi all’improvviso, sembrava di galleggiare in un indefinito universo bianco: c’eravamo solo noi e tutto intorno il nulla più assoluto.

La nebbia era tale che il cervello, osservando l’orizzionte in cerca disperata di punti di riferimento, scivolava in piccole vertigini mentre la nausea faceva capolino allo stomaco. Una sensazione, per chi non l’abbia mai sperimentata, piuttosto inquietante. Non vi era modo di orientarsi e lanciarsi alla cieca era davvero la scelta peggiore. La nostra unica risorsa valida era una traccia ben evidente che scendeva dal lato opposto della croce. «Non abbiamo altra soluzione che seguire questa traccia ed abbassarci. Nel caso peggiore finiamo alla Falc e dobbiamo smazzarci la traversata della Val Varrone. Qualsiasi altra scelta significa rischiare la pelle!» Così, pazientemente, abbiamo cominciato a seguire la traccia sperando in una schiarita che non è mai comparsa. Val Biandino, Val Varrone, Val Gerola: eravamo pronti a tutto. Purtroppo l’opzione peggiore non era la Falc ed il lago Inferno: no, l’opzione peggiore era la val Inferno e la bergmasca!

Dopo un paio d’ore nella nebbia abbiamo finalmente capito di essere “dispersi” in una zona a noi assolutamente sconosciuta. Quando la nebbia si è finalmente alzata ci siamo ritrovati ad avanzare in una valle ignota in cerca di un contatto con la civiltà. Sarei un bugiardo se vi dicessi che quella situazione era priva di un intenso fascino! «Lo so, qualcuno dovrà venire a recuperarci e noi dovremo mostrare un’adeguata afflizione per l’accaduto. Però, ammettiamolo, è davvero una figata vagare nell’ignoto!»

Dopo un’ulteriore ora nella neve ormai marcia siamo giunti al piccolo paesino di Ornica. Qui il segnale GSM ci ha permesso di chiamare in nostro soccorso il buon Simone, marito di mia sorella e compagno di spedizione. Finito l’orario di lavoro è potuto partire per il “recupero”. Nell’attesa un signore di Ornica, davvero molto gentile, ci ha dato un passaggio fino a Piazza Brembana aiutandoci ad accorciare i “tempi tecnici” che ci separavano dalla nostra macchina ad Introbio. Finalmente, alle 23:30, ho potuto infilarmi nella vasca da bagno!

Bagai che giro! La salita ha richiesto sei ore, 1700 metri di dislivello ed quasi 12km di sviluppo. La discesa, tutta alla cieca, è stata di 1500 metri e 7km di sviluppo. Sebbene imprevista abbiamo realizzato una traversata invernale da antologia: che ravanata!

Davide “Birillo” Valsecchi

Pizzo dei Tre Signori – via del Camino – Traversata Introbio-Ornica (invernale)
Venerì 20-Marzo-2015
BadegerTeam: Matteo “Sem” Galli – Davide “Birillo” Valsecchi
Simone “Scintilla” Rossetti per il recupero

Cerrina Backcountry

Cerrina Backcountry

Il giorno di SanValentino Bruna si è presentata furente alla porta di casa con la chiara e ferma intenzione di svuotare gli armadi e portar via tutte le sue cose. La bergamasca era furente per via di un curioso circolo vizioso emotivo in cui eravamo precipitati: lei era arrabbiata perchè nelle ultime tre settimane non mi sono quasi fatto vedere ed io, percependo maretta in porto, nelle ultime tre settimane ho prudentemente navigato ben al largo.

Fortunatamente, grazie al mio trascendente fascino, ho prontamente risolto la questione già sull’uscio di casa. Questo ci ha permesso di festeggiare degnamente la festa degli innamorati con una romantica cenetta a base di  birra, gazzosa e pizza d’asporto. Gli appassionati lettori de “La Gazzetta Rosa di Cima-Asso” possono quindi stare tranquilli!

Il giorno successivo, mentre eravamo placidamente avvolpacchiati sottole lenzuola, suonano alla porta: «Perchè fare figli quando hai i Badgers che ti rompono le palle la domenica mattina?». Infilo i calzoni ed apro la porta a Boris. Cinque minuti dopo anche Mav ed Andrea cominciano a telefonarmi per sapere “Il piano del giorno”.

Fuori a tratti piove, a tratti nevica. Qualcuno prudenzialmente propone di andare a Lecco ad arrampicare alla palestra dei Ragni. Io taglio corto: «Siete fuori! Se c’è la neve ai Corni non ci si mischia con i tira-plastica di città: si va a batter la bianca nel cuore delle terre selvagge!!»

Così, dopo un bacio a Bruna, io e Boris ci spostiamo con il Subaru a Valbrona e dalla piazza della chiesa attacchiamo i Corni passando per la Val Cerrina. La neve è ancora ben salda sulle piante ed i rami, per il peso, si flettono sul sentiero. Più saliamo, più aumenta la neve, fino a sprofondare quattro dita sopra il ginocchio!

Nella pineta la salita si fa surreale. I grandi ed alti alberi cominciano, tutti insieme, a liberarsi della neve che li opprime. Questa precipita dritta verso terra e per la velocità acquisita “soffia” in tutte le direzioni come un irruento vento atipico: come essere sotto un bombardamento siamo avvolti e travolti dai turbini!!

«Hey Birillo, in linea d’aria siamo a meno di due chilometri dalla cività ma sembra di essere fuori dal mondo!» Boris si libera dalla neve che lo ha investito ed io rido alla sua frase: «Beh Boris: benvenuto ai Corni!»

Dai 490 metri di Valbrona battiamo la traccia fino ai 1200 di Pianezzo e, finalmente, varchiamo la soglia del Rifugio Sev. Dietro il bancone un buon e vecchio amico di Cantù: «Una lattina di birra, una bottiglietta di gazzosa ed un boccale grande!» La mitica Panachè dei Corni!

«Guardati intorno, amico mio. La neve è la poesia dell’inverno, la sua invincibile estate»

Davide “Birillo” Valsecchi

La cresta dei Corni

La cresta dei Corni

«Nella casa della formica, la rugiada è un’inondazione» Il sole è sorto solo da una ventina di minuti ma il versante Nord del Corno Occidentale è ancora completamente in ombra. Oltre la cresta si vede brillare il sole attraverso la neve che il vento innalza nel vuoto. Già, la neve, finalmente è arrivata e per la sua effimera natura resterà sulle rocce dei Corni solo per qualche giorno, rendendo la sua presenza un tesoro prezioso da cogliere al volo.

Sono il primo, ho battuto la traccia fin qui e davanti a me la neve appare intatta, vergine. Uno strato di crosta ricopre l’inconsistente e spessa polvere bianca che ricopre ogni cosa. Non è neve “buona”, non è in grado di reggere peso o sostenere il lavoro dei ramponi o della piccozza. Non è neve “sicura”, è bastato un giorno di sole dopo la nevicata perchè i canali slavinassero verso il basso. Questa è la neve dei Corni, non ghiaccia, non consolida, appare per qualche istante e poi scompare dando vita ad un infinità di piccoli inverni all’interno di una singola stagione.

Ogni passo va ponderato e sprofonda ricoprendoti di neve mentre avanzi nel bianco. Metto mano alla picozza ma per quanto la affondi non regge, uso la punta sulle rocce, la incastro dove tiene: nulla più.

Per raggiungere la cresta si sfila sotto tre canali. Quello più a sinistra è molto verticale, ospita due piante lungo il suo sviluppo, spesso è usato dal soccorso alpino per le esercitazioni invernali di calata. La neve al suo interno è già slavinata ed ammassata sul fondo: solo rocce ed erba schiacciata appaiono tra le striature di bianco. Il secondo canale è molto più stretto e molto meno marcato, corre a destra di una cresta di spuntoni rocciosi. Verticale e “duro” mostra già i primi segni di cedimento e le prime piccole slavine. (Ahimè, è passato solo un giorno!). Il terzo canale è più appoggiato, colmo di neve e porta diritto all’uscita della ferrata. Potrei salire da lì ma il sole ed il vento mi chiamano sulla cresta, sulla linea di confine tra luce ed ombra.

Attraverso verso destra, superando i due grossi alberi che portano al tratto strapiombante. Vorrei puntare diritto attraverso spazi verticali ma mi riprometto di tracciare come si deve, di scegliere una buona linea che non tragga in inganno quelli che proveranno a seguirmi. Nel giro di qualche metro oltre le piante l’esposizione aumenta e sotto di me si apre un ragguardevole vuoto.

Raggiungo l’imbocco del “sentiero delle capre” che porta alla base del secondo tratto della ferrata. Finalmente sono sulla cresta, supero un primo muretto e davanti a me si mostra finalmente la linea di luce ed ombra che la neve ed il vento hanno tracciato sul Corno Occidentale. Affondo con le braccia ed i piedi cercando appigli solidi: non è una progressione su neve ma un arrampicata su roccia innevata.

Raggiungo l’uscita della ferrata e piego verso sinistra, superando la strettoia tra due sassi e tornando nell’ombra della piccola cresta attigua. Ancora un muretto e sono nuovamente sulla cresta principale avvicinandomi al punto più esposto, il Passo della Vacca.

Da un lato ci sono oltre cento metri di vuoto che, precipitando lungo il Camino Gandin, portano alla grande cengia Sud del Corno. Sull’altro lato si al di sopra della volta di una grotta passante che attraversa da nord a sud tutto il corno e che è il tratto finale di un canale che risale dalla base. il passo è una grande “V” che su un ponte di roccia dove il vento accumula la neve coprendo le rocce nei modi più artistici.

Passo della Vacca Invernale

Ci si sporge sulla roccia dapprima verso sinistra, quindi verso il vuoto della val Ravella, e poi ci si infila in discesa in uno stretto diedro che scende a destra verso il canale. Il diedro è stretto ed il lato sinistro è una lunga lastra rocciosa che spesso si copre di ghiaccio. Faccia alla roccia mi abbasso incastrandomi in opposizione tra le due pareti. Infilo alla cieca le mani sotto la neve cercando con le dita prese sulla roccia. Piano piano, con un po’ di mestiere, mi abbasso fino al piccolo terrazzo. Poi, saldo su un lato della “V”, mi apro cercando appigli sul lato apposto: per un istante sono sospeso nel vuoto, il sole in faccia, il buio alle spalle.

Piano piano avanzo sull’altro versante cercando nella neve instabile appoggi sicuri per i piedi. Di nuovo all’ombra mi alzo verticale incunendomi nel successivo stretto diedro che si forma tra il crinale ed una grande roccia. Finalmente torno alla luce, di nuovo sulla cresta non mi rimane che raggiungere la croce.

Dalla cima del Corno Occidentale osservo quello centrale fantasticando sui suoi canali che, ahimè, non vanno mai in condizione. «Nella casa della formica, la rugiada è un’inondazione» Domani, o al più tardi il giorno dopo, la neve scomparirà da queste rocce e la cresta, per quanto mai banale, tornerà ad essere quella che tutti conoscono e spesso sottovalutano. «La farfalla non conta gli anni, ma gli istanti: per questo il suo breve tempo le basta» Questo è il senso della neve dei Corni.

Mi abbasso verso il caminetto osservando la singola traccia di passi che risale: non sono l’unico ad aver colto il miraggio della neve vergine ai Corni. Siamo in pochi, ma decisamente fedeli.

Davide “Birillo” Valsecchi

A conferma di quanto sia importante cogliere l’attimo sabato mattina, con lo scarto di mezzora tra noi, io ero sulla Cresta (vergine), Ivano sul Caminetto (vergine) e Luca sulla Ferrata (vergine).

Considerazioni: conosco la cresta quasi a memoria e l’ho percorsa più volte completamente vergine ed in solitaria. La considero una delle più belle salite che abbia avuto l’opportunità di fare. Le difficoltà sono oggettive ed in buona misura legate all’esposizione ed alla condizione della neve. Quello che posso dirvi, senza mancare di rispetto, è che il Couloir Zucchi sul Grignone non ha pompato nemmeno la metà dell’adrenalina e della soddisfazione che scatenano in me la Cresta.

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