Category: XPlore

«A detta degli apritori la via volle essere un invito a raggiungere, per tutti i frequentatori della valle, un felice equilibrio con la natura, libero da qualsiasi desiderio eroico, competitivo e di conquista».

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No Way Out

No Way Out

Sì, quella nella foto è la bomba “inesplosa” della prima guerra mondiale che ho trovato a dieci anni. Sì, se quella volta avesse deciso di smettere di essere “inesplosa” probabilmente non avrei potuto vivere o raccontare nessuna delle mie avventure successive. Non la vedevo da anni ma mio padre sta sistemando il vecchio archivio di diapositive ed un sacco di storie passate stanno tornando alla luce.

Ma andiamo con ordine. Qualche settimana fa mi ero infilato in quello che chiamo il “canalone degli inganni” sul San Vittore. Poco prima della fine del canale le difficoltà e le incertezze mi hanno fatto optare per una ritirata strategica: non sapevo se dall’alto fosse possibile uscire dal canale e così sono tornato indietro tra gli sfasciumi. L’altro giorno Giuseppe D’Ambrosio, un appassionato dell’esplorazione selvaggia come me, ha completato quello che io avevo lasciato a metà. Non solo ha scoperto il nome ufficiale di quel canale, “Canale Kurt” (probabilmente in dialetto “canale corto” per distinguerlo da quello più lungo della Val Farina), ma ha anche fotografato l’uscita del canale. Guardando le sue foto ho compreso quanto, dalla distanza, avessi frainteso le difficoltà che mi attendevano più avanti. Sempre nella foto è possibile vedere la pericolante “spaccatura a fulmine” di cui mi avevano parlato Ivan Guerini e Paolo Console. Grazie a Giuseppe ed allo spirito di collaborazione che è proprio dell’esplorazione, posso tornare in quel canale con maggiore consapevolezza, oppure dedicarmi con serenità all’esplorazione di qualcos’altro nella zona.

Tutta questa storia mi ha però fatto ricordare un episodio della mia gioventù che ha un ruolo decisamente importante sulle mie scelte quando mi trovo in un canale simile. Risale a quando avevo otto o dieci anni: insieme alla mia famiglia decidemmo di andare in cima al monte Avanza, nelle alpi Carniche, attraverso la Cengia del Sol e Passo Cacciatori. Passavamo giornate intere a raccogliere funghi alle pendici dell’Avanza ma non eravamo mai saliti in cima ai suoi contrafforti rocciosi. Per questo all’epoca non conoscevamo affatto il percorso migliore per la vetta: come spesso accadeva (ed accade tutt’oggi) ci siamo limitati a salire cercando a vista un passaggio “alla moda vecchia”.

Seguendo dei bolli colorati ci siamo infilati un grande canale dove, ben presto, i bolli sono spariti abbandonandoci a noi stessi. Il monte Avanza era stato teatro di grandi scontri durante la prima guerra mondiale: il Piave nasce praticamente alle sue spalle ed in tutta la zona sono ancora ben evidenti le fortificazioni dell’epoca. Noi bambini eravamo abituati a cercare vecchi reperti: suole di scarpe, lattine arrugginite, filo spinato ma a volte anche qualcosa di più prezioso come cerchi di stufa, bossoli, schegge di granata o di bombe più grosse. Il canale che stavamo risalendo doveva essere davvero poco frequentato perchè, sebbene in pessime condizioni, quel giorno trovammo un vecchio elmetto italiano, una vera rarità sfuggita ai cercatori professionisti.

Pensavamo di essere stati davvero fortunati ma la fortuna stava decisamente cambiando: quel giorno trovammo il reperto più straordinario e pericoloso di tutta la nostra carriera da cercatori. Tra i sassi mio padre trovò un bomba da mortaio inesplosa, già, esattamente quella grossa della foto! Molto spesso questi residuati bellici attendono pazientemente decine di anni per poi esplodere al semplice tocco dello sfortunato che li trova. Fortunatamente per noi non ci fu il botto, ma la situazione rimase pericolosamente esplosiva!

I miei genitori decisero che la soluzione migliore “per scappare” da quel pericolo fosse risalire il canale, uscire dall’alto per poi scendere da un altro versante. In questo modo se l’oridigno avesse deciso di svegliarsi avremmo avuto più possibilità di non essere colpiti tanto dall’esplosione quanto da eventuali crolli o frane. Era un buon piano, ma la fortuna, dopo averci graziato, non intendeva renderci la vita facile. Risalimmo per quasi due ore il canale, cercando di non far cadere sassi animati dalla continua angoscia della bomba alle nostre spalle. Il canale però si restringeva in un susseguirsi di salti di roccia, l’ultimo di questi era verticale e superava i cinque metri. Mio padre riuscì a rimontarli quasi tutti ma, davanti al muro finale, dovette arrestarsi. Forse, rischiando un po’, poteva riuscire a passare ma anche usando lo spezzone di corda che avevamo sempre con noi sarebbe stato impossibile per me e mia sorella, all’epoca bambini, fare altrettanto. Eravamo in un vicolo cieco stretti tra le pareti del canale: davanti un muro insuperabile ed alle spalle una bomba inesplosa.

Non rimase che una sola opzione: scendere, ripercorrere tutta la strada fatta in salita, superare nuovamente la bomba, e darsela a gambe più in fretta possibile cercando di uscire dal canale verso valle. Quando siamo finalmente siamo giunti alla stazione dei Carabinieri per denunciare il ritrovamento era ormai buio ed avevamo nelle gambe 12 ore di montagna ed ansia: un’esperienza decisamente formante.

Nel 2012 sono tornato a curiosare in quella zona, ci sono andato da solo caricando lo zaino soprattutto di ricordi. Nel passaggio chiave del “muro” ora ci sono un paio di vecchi spit ed uno sbrindellato cavo metallico. In paese mi hanno raccontato che i “locals”, negli inverni con tanta neve, quel canale lo discendono con gli sci e quei vecchi ancoraggi servono per calarsi oltre il salto roccioso. Riguardando quel muro, con gli occhi da adulto, ho potuto comprendere le difficili scelte fatte da mio padre quel giorno, stretto con due bambini tra bombe assassine e salti rocciosi. Ero deciso a ritrovare la mia bomba inesplosa ma, a distanza di anni, si deve essere nascosta altrove e forse ha continuato a ridere alla mie spalle tutto il tempo in cui le ho gironzolato intorno.

Per questo oggi, ogni volta che affronto un canale, faccio grande attenzione a non superare difficoltà e passaggi che possano essere ripercorsi anche in senso inverso. Conviene essere prudenti: troppo spesso la vita ci spinge in pericolosi vicoli ciechi anche senza metterci del nostro. “Il modo migliore per parare un pugno è non esserci quando arriva.”

Grazie per la foto Giuseppe! E’ un grande piacere sapere di non essere solo in questo “Club degli Esploratori del Lario”!

Davide “Birillo” Valsecchi

Gli Offspring? Solo una reminiscenza degli anni 90 che ha suggerito il titolo: “No way out, Same old stuff always drags me down, No way out, Never gonna get it!!”

I Fratelli Corvo

I Fratelli Corvo

Scrivere, scrivere, scrivere: c’è sempre bisogno di scrivere ma mai tempo per farlo. Così rinunciò all’ultimo giorno di sole prima della grande pioggia per riordinare le idee, le foto ed i ricordi in questa odissea di cose in cui sono immerso. Sabato mattina lavoravo a “L’albero dei Chiodi”, un mio progetto all’interno delle iniziative che ruotano attorno all’imminente “ValmaStreetBlock” del 1° Aprile, un “segreto” a cui sto lavorando ormai da qualche mese.

Poi, per pranzo, è arrivato Joseph. Insieme ci siamo fiondati in trattoria a confabulare: sembrava di essere tornati ai tempi delle “Zie” ed all’epoca dei grandi viaggi: magnifico! Qualche giorno prima, sempre in trattoria, avevamo fissato “nero su bianco”, rigorosamente su una tovaglia di carta macchiata di sugo e vino rosso, le nostre “fantasie” per l’arrivo della nuova primavera. Già, Le fantasie sono “materia” strana in questo universo, spesso una stretta di mano è semplicemente il primo passo per renderle reali! (Enzo, stramaledetto fabbro sciamano, se leggi dall’Africa sappi che c’è un ruolo anche per te in questa avventura!)

Poi suona il telefono: “Biru! Tra due ore dalla vecchia!”. Guero e Paolo hanno ripreso ad arrampicare insieme. Guero aveva promesso a Paolo una salita piacevole e non pericolosa ma ovviamente, come era prevedibile, aveva tirato fuori quattro tiri infernali da “guerra e pace”: “Lasciate ogne speranza, voi ch’ intrate.” Guero è il Virgilio dell’arrampicata, devi essere pronto a trasfigurare tutto te stesso per riuscire a seguirlo nel suo viaggio, per elevarti dagli ignavi alla conoscenza. Così, per seguire l’onda, dalla trattoria mi sposto in birreria.

“Monica mi ha mostrato le tue foto della Nord del San Vittore”– attacca Guero – “ma lo sai che quel canalone è pericolosissimo? Che è originato da crolli e che c’è un distacco imminente con una frattura a fulmine assolutamente spaventoso? Se sei lì dentro quando viene giù tutta quella massa di materiale non ti troveranno mai più!” Quella del Guero non è un’ansiosa predica, è più una semplice ed intensa “nota informativa”. Anche Paolo mi conferma la cosa “Noi l’abbiamo visto da sopra, ma è un posto davvero repulsivo e la spaccatura è davvero impressionante”. Già, io standoci dentro ero afflitto da una “pensante inquietudine”. Purtroppo nessuno dei due ha saputo confermare se il Canale degli Inganni “esca” senza salti di roccia finali. Un mistero sempre più fitto. Il canale adiacente però, quello della Val Farina che esce sotto il torrione Diaz, pare invece sia percorribile e che ci siano persino dei tratti attrezzati. Tutto da verificare però.

L’idea di infilarmi di nuovo nel canalone alla cieca mi alletta un po’ meno e così ho deciso che è necessario un sopralluogo strutturato: Pizzetti + Val del Verde a salire e Sentiero del GER a scendere, cannocchiale e macchina fotografica con teleobiettivo. Mentre preparo lo zaino mi telefona mio fratello: “Facciamo qualcosa insieme domani che sono libero?”. Keko, una specie di fotocopia più giovane di 16 anni, è sempre impegnato con le lezioni di musica Jaz, chiuso in “laboratorio” con la sua chitarra ed i suoi strumenti. Quando decide di venirmi dietro devo cogliere l’occasione al balzo: “Bruna è a Bergamo tre giorni con la scuola. Dormi da me questa sera che usciamo presto domani?” Mio fratello accetta ben volentieri, consapevole che faremo bisboccia tutta notte e che il giorno dopo ci sveglieremo comunque inevitabilmente tardi!

Il mattino successivo, quando il giorno è nato già da parecchio tempo e le brioche al bar sono ormai finite da ore, ci mettiamo in strada alla volta del San Martino. ValVerde + GER sarebbero un impropria ed immeritata “mazzata” per mio fratello e quindi opto per un giro ridotto ma comunque esplorativo.

Ci infiliamo su per la variante dei Pizzetti, quella che punta al canalone tra i due speroni, passando a fare visita alla grotta Rosa. Keko ha ricevuto l’addestramento Speleo di Base ed infilarsi in una grotta, sebbene di modestissime dimensioni, è un bel modo per iniziare il nostro giro. Lasciata la variante torniamo sul sentiero dei Pizzetti che, essendo domenica, è affollato di umanità varia. In questi mesi ho percorso spesso quel sentiero, quasi sempre nella più completa solitudine. Trovarvi così tanta gente è stata una novità, non sempre piacevole: “Deve essere il Sant di Ciuch – il protettore degli ubriachi – ad impedire che la metà di questa gente passi di sotto e finisca nel lago!”.

Finalmente arriviamo al Rifugio Piazza, nuova base operativa dei tassi sulle scogliere della sponda orientale: “Ciao, ci fai due birre e due panini?”. Io ed il Keko ci inabissiamo su una panchina osservando con il binocolo i prati verticali del Moregallo ed il pittoresco mondo degli escursionisti che circonda. Un “ragazzo” sulla quarantina ci si piazza davanti, armeggia con il cronometro, con il gps, con gli occhiali a specchio “che manco negli anni ’80” e la tutina aderente da corsa. Poi, appoggiandosi alla staccionata, comincia a fare stretching con sincero ed intenso impegno. Io e mio fratello, con la nostra lattina di birra ben stretta in mano, lo osserviamo con un’espressione degna di Jeff Lebowski e Walter Sobchak: “Vedi, fratellone, quelli sono gli atleti veri.” – Poi mi guarda e sogghigna allungando la latta – “Già, alla Salute!”

Torta, caffè e ripartiamo: evito i pizzetti in discesa ed opto per un tour sul lato est. Girovaghiamo per un paio d’ore ed alla fine, sfilando sotto la grande parete del San Martino torniamo con un ampio giro ad anello alla “tenda blue”. Bruna è rientrata da Bergamo: si torna alla base.

Svaccati sul divano ci addormentiamo davanti a Netflix fino all’ora dell’aperitivo. Poi, la squadra, inizia a contattare gli altri membri dei Badgers: “Appuntamento al TrueBeer”. TeoBrex ci aspetta al parcheggio e poco dopo arriva anche Andrea. Mentre ingollo CubaLibre ascoltando i racconti di TeoBrex (che ha superato le selezioni e che ora sta seguendo l’addestramento per entrare nel Soccorso Alpino Speleologico) mi vibra il cellulare. Ivo Ferrari, con cui spesso ho la fortuna di scambiare messaggi ed informazioni, mi invia alcune strabilianti foto del suo archivio storico di chiodi e materiale alpinistico: un vero e proprio museo per appassionati!

A volte sono sorpreso, sono probabilmente la persona peggiore e più fastidiosa che conosca, la più solitaria e scontrosa, eppure nonostante il mio caratteraccio, nonostante la mia cronica incostanza relazionale e le mie stramberie, sono circondato da persone speciali che mi sono affezionate: già, Birillo è un bastardo con una fortuna sfacciata.

Davide “Birillo “Valsecchi

Ps: la mia famiglia, i Valsecchi di Asso, in dialetto sono chiamati “Curbatei”, piccoli corvi. Per questo “Curbatei Brothers”.

La Nord del San Vittore

La Nord del San Vittore

Forse il mio è tutto un pretesto, qualcosa che non ha nulla a che fare con l’arrampicata o l’alpinismo: il disperato tentativo di scoprire se questo mondo è ancora in grado di custodire segreti, grandi o piccoli, che valga la pena svelare, per cui valga la pena sognare. Forse è per questo che più un posto è rognoso e dimenticato più sembra affascinarmi.

Risalgo lungo il sentiero dei Pizzetti, la mia prima tappa è il Rifugio Piazza e poi la Val Verde.  Ho imboccato la variante a sinistra, quella lungo il canale scoperta qualche giorno fa: è un po’ più impegnativa, decisamente meno frequentata. Ignorando le catene è anche molto più arrampicabile e godibile. “Jesus don´t want me for a sunbeam. Sunbeams are never made like me” Fischietto una canzone dei Nirvana che ormai ha quasi venticinque anni. Kurt Kobain si sparò in bocca con un fucile giusto sei mesi dopo averla cantata: insomma, bene ma non benissimo.

Mi sento a pezzi: ieri sera sono stato agli allenamenti di Karate-do e poi dritto dritto al Consiglio del CAI. Ho i muscoli vuoti ed una violenta fame latente. L’ultimo pasto è stata una pizza ai wurstel a pranzo del giorno prima ed ora sono in piedi a tazze di caffè e gallette di crusca d’avena, roba di Bruna, su cui ho spalmato un ignota marmellata di fichi trovata in dispensa. Una parte di me vorrebbe mollare il colpo e fiondarsi con i piedi sotto il tavolo di qualche trattoria. Un’altra parte di me invece è più possibilista: “Andiamo solo fino all’attacco del canale, facciamo un sopralluogo e torniamo indietro: solo una passeggiata”. Tuttavia c’è una parte di me che non parla mai, che si limita ad agire: ecco, quella è la parte che mi preoccupa.

Supero il rifugio Piazza e mi inoltro lungo il sentiero della Val Verde: il piano è semplice, ma la zona è complessa. Dal Belvedere del Pradello tempo fa avevo infatti visto delle grandi pareti che, nascosti nel cuore del Coltignone, si innalzavano dalle valli sottostanti restando sempre in ombra. In particolare la grande parete più a sud che potremmo considerare la Nord del San Vittore o del Regismondo.

Quindi dovevo solo capire quale fosse il lungo canale che si innalzava verso la cresta.Tuttavia, quando ci sei dentro, la faccenda non è così scontata come potrebbe apparire da lontano: tutta quella zona è un susseguirsi di parete e quinte rocciose che si alternano ed intersecano confondendo ogni geometria e prospettiva. Ci sono tre grandi canali di cui ancora conosco poco e nulla. Uno di loro ha un nome, “valle della farina”, e risale verso il Torrione Diaz, uno è quello che sto cercando e l’ultimo è un grande canale che però va a morire contro una grande parete senza raggiungere la cresta. Il sole però schiaccia roccia e paglione confondendo i bordi e trasformando le creste in un unica parete compatta.

Perdermi andando a caso non sarebbe una buona prospettiva ma la fortuna sembra venirmi incontro. In pratica è quasi impossibile sbagliare canale: è enorme!! Il sentiero della Val del Verde lo attraversa abbassandosi lungo i suoi lati grazie a delle catene fisse. Mi aspettavo una valle dal fondo roccioso (ed ostioso) ed invece è un ghiaione molto ampio stretto tra due pareti verticali. Completamente in ombra è decisamente più freddo di quanto mi aspettassi: mi infilo un maglione ed inizio a curiosare.

Il ghiaione è piuttosto inquietante, nulla che non abbia mai affrontato ma decisamente più soffocante. Si muove praticamente ogni cosa e ci sono grossi sassi “pestati” un po’ ovunque. Mi ricorda il Canale Masciadri sul versante Nord del Moregallo, solo più grande, più verticale e più cupo. Risalgo a quattro gambe cercando di “non scuotere troppo la montagna”,  dall’ alto appare un camoscio che, vedendomi, lascia il canale inerpicandosi per la parete erbosa che porta alla cresta di sinistra: “Mancava giusto un cornuto a mollar giù sassi in ‘sto casino!”

Non sono molto sicuro di quello che sto facendo, continuo ad avanzare solo per raggiungere il successivo punto di osservazione e scoprire come prosegue il canale. Tuttavia, in mezzo a quella ghiaia, ormai ho macinato un bel dislivello, decisamente più di quello che spetterebbe ad una semplice “occhiata di sopralluogo all’attacco del canale”. Nello zaino ho una statica da 30 metri e qualche fettuccia, ma non era nei piani cercare di risalire il canale ed uscire in cresta. L’idea di tornare indietro però non mi alletta, c’è la possibilità che qualche sasso smosso si affezioni e decida di rincorrermi mentre scendo. Così proseguo verso l’alto.

Un grosso masso sbarra il lato sinistro del canale. Sulla destra, in mezzo ad un marcione di erba e piante, probabilmente si riesce a passare ma decido di andare sul pulito e vedere se si riesce a rimontare lo sbarramento arrampicando. Un grosso masso di calcare su cui da migliaia di anni rotolano migliaia di altri sassi più piccoli ha la tendenza ad essere piuttosto levigato e privo di appigli: attaccato ad una piccola presa, lavoro di piedi riuscendo ad alzarmi senza precipitare rovinosamente verso il basso (che è tipo un pensiero fisso). Con una certa sorpresa ad una decina di metri sopra l’uscita del passaggio trovo legata ad una pianta una fettuccia blu: una calata.

Trovare una traccia umana da quelle parti è una buona ma anche una cattiva notizia. Avevano piazzato una calata, abbandonando una fettuccia: cosa stavano facendo? Era saliti come me ed erano stati costretti a ritirarsi? Il canale chiude prima della fine? Lo stavano scendendo dall’alto? Si erano calati attraverso vari salti ed erano giunti fin lì dall’alto? Perchè tagliare una fettuccia anzichè usare un cordino? Avevano finito il materiale? Perchè si erano calati e non avevano optato per il passaggio, ostioso, tra le piante? Erano venuti ad arrampicare qui da qualche parte ed avevano deciso di calarsi perchè carichi di materiale per la salita? Chi erano, cosa facevano, quale era la loro storia? In posti come questo ci si infilano solo Faraoni e Power Rangers, purtroppo quelli che battono queste zone spesso sono decisamente molto più forti di me: se si sono calati loro cosa c’è più avanti? Chiude? Cosa li ha respinti?

Il dilemma dei canali è sempre quello: se chiude e non si esce sei nei guai. Quindi il problema con cui devi convivere è il peso dell’ignoto. Puoi continuare a salire, salire e salire ma se ti imbatti in un’ostacolo prima dell’uscita hai due possibilità: tornare indietro o tentare il passaggio. Tornare indietro non è scontato, ci sono un sacco di difficoltà e pericoli che comunque vanno affrontati e controllati. Se invece decidi di affrontare il passaggio ci sono solo due possibilità: passi o piombi di sotto. Se passi è festa grande, ma se piombi di sotto la faccenda si fa spessa. Se non ci hai lasciato la pelle o stai soffocando nel tuo sangue, ti aspetta una battaglia per la sopravvivenza in stile Joe Simpson il cui esito non è certo scontato. Scendere il canale dopo esserti rotto qualcosa, anche solo una caviglia, è una piccola guerra da vincere. Sono solo, in un buio freddo, stretto tra due pareti cupe e spaventose: “Vabbè, andiamo avanti ancora un po’…”

Così continuo, cercando di capire se il canale chiude o meno. Mi alzo ancora, ormai a quattro zampe, cercando di guadagnare un nuovo punto di osservazione. Kurt Cobain continua a cantare nella mia testa mentre attorno a me è solo silenzio e sassi che rotolano: “Birillo, io per ammazzarmi ho fatto molta meno fatica” “Stai zitto Kurt, non parlare con la bocca piena!”

Rimonto un’altro grosso sasso cercando di guardare più lontano possibile, ma ancora non riesco a capire quale sia il finale della storia. La prospettiva comincia ad ingannarmi e la percezione delle distanze non più troppo affidabile. Sopra di me ad ottanta, forse cento metri (presunti) vedo un grosso masso scuro, forse in quel punto il canale si abbatte, ed alle sue spalle c’è una muro di roccia mista ad erba. Non capisco se quello sia il fondo o se il canale compia una esse a girare prima di proseguire. Sono combattuto: cento metri a salire e, se non si passa, cento metri in più a scendere. Sempre che tu non decida per qualche scelta stupida una volta lassù.

“Senti Birillo, se il canale esce possiamo scoprirlo anche dall’alto. La prossima volta facciamo il giro ed andiamo a vedere. Se però saliamo adesso e non si passa rischiamo fare un bel casino. Sei ben oltre i margini operativi della missione che ti sei dato. Doveva essere un sopralluogo, non puoi fare il presuntuoso e puntare risalire il canale al primo colpo, senza ancora sapere nulla di questa zona. Scendere è una rogna ma con calma, finché abbiamo benzina, ce la caviamo”. I pensieri sono i peggiori compagni d’avventura, soprattutto perchè tocca dargli sempre ragione.

Giro i tacchi e piano piano inizio a scendere. Il canale è un mondo instabile di sassi di tutte le misure. Alle volte affondo in un passo sicuro, altre volte tutto intorno a me inizia a muoversi e qualcosa persino a rotolare. Devo scegliere con attenzione le mie linee, alcuni sassi si muovono a scoppio ritardato e si mettono a rincorrerti. I più pericolosi sono quelli grossi, ma non per la ragione più ovvia. Alcuni di loro sono solidi e sono piacevoli isole su cui transitare ed aggrapparsi, altre invece sono delle trappole. Quando con il piede davanti ci poggi il peso cominciano a scivolare verso il basso, lentamente, i sassi più piccoli alle sue spalle sono come risucchiati dal movimento di quello più grosso e la tua gamba dietro inizia a sprofondare tra i ciotoli mentre cerchi di mantenerti in equilibrio. Più il grosso sasso scivola in avanti e più tu affondi: se il “livello” supera il ginocchio inizia ad essere catapultato in avanti dal peso e dalla morsa di quell’esercito di piccoli sassi in rincorsa. Ovviamente avere una gamba stritolata tra sassi in movimento è da considerasi “male, decisamente non buono”. Quindi essere letti e leggeri così come reattivi e rapidi diventa piuttosto importante da quelle parti.

Quando raggiungo la fettuccia azzurra devo affrontare un problema che, volutamente avevo accantonato in un angolo della mente: quelli avevano una o due corde per lo meno da 50 per arrivare a terra oltre l’ostacolo, la mia corda da 30 di certo non basta per una doppia. L’idea di abbandonare la mia corda è da escludere e così mi infilo nel ravano tra gli alberi sulla destra: “alla peggio attrezzo un paio di mezze calate tra le piante!” In realtà il passaggio si rivela molto meno complicato del previsto e le tracce del passaggio dei camosci mi indicano la soluzione più semplice. Strano che quelli della fettuccia non l’avessero vista: chi erano, cosa stavano facendo qui?

Manca un centinaio di metri e finalmente sarò di nuovo sul sentiero. Inizio a sentirmi più leggero anche se non posso ancora rilassarmi. Mi guardo in giro e trovo una zampa di camoscio che spunta tra i sassi. Qua e là altri “pezzi” del selvatico sparsi in trenta metri di ghiaia: “Questo giusto per tenere a mente che i professionisti sbagliano  alle volte!”

Il sentiero attraversa il canale nel suo punto più debole, oltre, verso valle, il canale compie una serie di agghiaccianti salti verticali prima di lanciarsi giù verso il lago. Mi siedo in un cantuccio riparato. Prendo un goccio d’acqua dallo zaino e delle fette di mela essiccata: “Dannazione Birillo, che fame!”

Davide “Birillo” Valsecchi

‘fuck you all, this is the last song of the evening’ – Kurt Cobain

San Vittore o Regismondo?

San Vittore o Regismondo?

Oggi volevo curiosare in qualche angolo sperduto, ma la pioggia del passato fine settimana e la luce cupa non sono state capaci di ispirarmi. Ho fantasticato sull’idea di andare comunque, poi però ho desistito seguendo più miti consigli ed approfittandone per studiare meglio la cartografia dell’ennesimo guaio in cui intendo infilarmi. Scartabellando tra le varie mappe ho trovato su MapQuest, un servizio simile a Gmaps, molti dei nomi che ero interessato a scoprire. Inoltre è riemerso un problema di cui già in passato avevo discusso con Ivan Guerini: il Corno Regismondo non è il Corno Regismondo!”.

Ivan infatti mi raccontava che quello che comunemente viene chiamato “Regismondo” in realtà sia il “San Vittore”. Io, come al solito, gli ho dato retta ma con il beneficio del dubbio: “Guero, ma i Beck che hanno sistemato i sentieri della zona sapranno ben loro i nomi?! Non è che arrivi tu da Milano e mi riscrivi la geografia…”. In una giornata di sole, durante l’inverno, mi ero messo a curiosare da quelle parti seguendo le scritte e le indicazioni per il Regismondo: ho evitato la prima ferratina interdetta, superato il successivo passaggio di catene, raggiunto il tavolino in legno, la madonnina che guarda verso la croce del San Martino e del Medale. Nel libro di cima, conservato in una cassetta con il logo dei Beck, ho lasciato anche un adesivo dei Badgers (non appiccicato ma lasciato come regalo tra le pagine del libro di vetta). Ho scritto un articolo su quella gita, “Corno Regismondo”, e nessuno di coloro che lo hanno letto ha contestato l’idea che quel Regismondo sia il Regismondo.

Sul sito “vie Normali” ho poi trovato una relazione, Normale al Regismondo (Beck), che sembra confermare in tutto e per tutto la mia salita alla teca con la madonnina: 
https://www.vienormali.it/montagna/cima_scheda.asp?cod=1474

“Ivan si sarà sbagliato: succede, in fondo è un vecchiaccio con milioni di salite alle spalle…” ho pensato. Con il senno di poi però credo di aver dubitato del mio vecchiaccio con troppa leggerezza. Forse invece ha ragione lui, forse mi è sfuggito qualcosa o forse l’abbaglio è più ampio e diffuso di quanto io possa credere. Sulle mappe, anche quelle satellitari, la forma inconfondibile del “presunto Regismondo” è segnata invece come Vetta San Vittore (…e questo fa tornare un sacco di altri conti fino ad oggi sballati!)

-click per ingrandire-

Risulta estremamente facile osservare come la sequenza da sud sia: San Vittore, Regismondo, Coltignoncino, Torre Diaz. Quindi la voce di Ivan trova forza in una cartografia che, per quando da verificare, conferma decisamente la sua idea. Tra l’altro è un contrappasso divertente che sia proprio una cartografia online a sostenerlo: tempo fa Ivan, come sempre a modo suo, scrisse a Google un’accesa email per gli errori topografici di GoogleEarth in val di Mello, contestando un modo approssimativo, impreciso e potenzialmente pericoloso di gestire le informazioni geografiche delle mappe on line… Ed io anche quella volta “…Ivan, nella teoria delle informazioni l’approssimazione e la gestione dell’errore sono parte integrante della conoscenza stessa. Il sapere digitale è complesso: è come il gelato, devi saperlo spalmare senza lasciare che si sciolga…”.

Nonostante questo mie divagazioni il problema resta: il tavolo dei Beck si trova sul San Vittore o sul Regismondo? Alla luce dei fatti io credo sia il San Vittore. Ora proverò a vedere se è possibile ottenere qualche informazione in più prima di andare a curiosare ciò che davvero mi interessa: la Parete Nord del San Vittore.

Davide “Birillo” Valsecchi

Aggiornamento:

Dopo l’articolo mi hanno scritto in molti e, in men che non si dica, il mistero è stato presto risolto.  Quello che per me era una domanda ingenua e funzionale pare invece aver centrato un argomento che nella zona di Lecco pare essere annoso ed ancora irrisolto. La cartografia infatti si scontra con la tradizione dei “vecchi” di Laorca, la frazione di Lecco. Il “Redesmund”, così come viene chiamato in dialetto, è da tutti considerato il Regismondo. Giancarlo Maver, uno dei fondatori dei Beck, mi ha scritto raccontandomi la storia della madonnina, di come sia stata posizionata oltre vent’anni fa da un “vecchio” di Laorca e di come sia stata proprio questa la spinta per risistemare il sentiero verso il “Redesmund”, oggi chiamato anche “Corno Beck”. Mi ha scritto poi anche Matteo Ratti offrendomi un ulteriore ed approfondita spiegazione: “Vetta San Vittore e Corno Regismondo, un quesito che fa discutere molti qua a Lecco. C’è stato un errore nella mappatura delle carte gpm che, a suo malgrado, ha cambiato l’ubicazione di alcune vette. Il primo esempio è il Crocione che è posto sul monte Crocione (nome originario) ma che é stato tramutato in monte San Martino. Infatti se si va a guardare l’altitudine si noterà che è sfalzata di 100 metri. Il San Vittore è un complesso che racchiude vetta San Vittore (dove comincia la ferratina Silvia) e Corno Regismondo (Redesmund per i locali, dove vi sono posti il tavolo e la madonnina). Andando verso il Coltignone abbiamo per ordine il Dente del Coltignone, il torrione Diaz e il Coltignoncino. Ho potuto appurare ciò, oltre che dalla mia famiglia che è cresciuta su quel monte, dalla guida del Saglio. La mappa è sbagliata ma la spiegazione è eccellente.” Ad ulteriore conferma mi ha scritto anche Ivo Ferrari confermandomi che i due nomi indicano la stessa montagna.

Io sono nato ad Asso e da qualche tempo vivo a Valmadrera: ogni volta che esco di casa le grandi e misteriosi pareti che si innalzano dal lago colpiscono il mio sguardo e la mia fantasia. Una zona affascinante, selvatica e complessa in cui avventurarsi solo il giusto atteggiamento: per questo, per riuscire ad orientarmi correttamente, avevo bisogno di comprendere con chiarezza la questione del Regismondo e del San Vittore. Grazie a tutti per l’aiuto!

Qui sotto trovata “embeddata” la mappa interattiva della zona. In alternativa potete visualizzarla direttamente sul sito di MapQuest usando questo link:
http://mapq.st/2dypPbv

Dentro l’Occhio del Ciclope

Dentro l’Occhio del Ciclope

Viviamo in un’epoca di avventure take-away, di emozioni in porzione singola. Bruna, la mia “attuale prima moglie”, dice che sono prigioniero dei miei archetipi. Da brava terapista cerca di analizzarmi senza comprendere che io non vivo in un mondo tutto mio: no, io sono “quel mondo”. I miei archetipi non mi vincolano, anzi, portati all’eccesso sono lo strumento con cui poter raggiungere un po’ di libertà in una realtà di costrizioni e limiti.

Già, ma la parola archetipo è interessante, complessa. Oggi, sul blog di Gogna, era riportato uno scritto del 1986 in cui Bonatti tira ballo Messner, Kukuczka e Cesarotto sul senso dell’alpinismo e dell’avventura. Si bisticciano tra loro senza accorgersi che sono stati proprio loro ad aver creato l’archetipo moderno, ed ormai antico, dell’alpinismo: il mito, la leggenda insuperabile. Si sono scontrati con i draghi più grossi e li hanno sconfitti, tutti. Non ne hanno lasciato neanche uno vivo. Oggi la maggior parte degli alpinisti di punta sono buffe caricature che gareggiano tra loro in duelli senza senso: chi la finisce prima, chi piscia più lontano, chi fa la stronzata più fotogenica o commercializzabile.

Siamo una generazione di sconfitti in un mondo di apparenze dove ogni gloria è già stata conquistata. Per questo molti di noi vagano raminghi, druidi tra le rovine di un tempo che fu, trovatori e cercatori che sembrano primitivi archeologi in cerca degli sbiaditi segni del mito.

Così l’avventura è forse tornata agli albori, ai gesti di sconsiderata generosità e coraggio vissuti nel silenzio di luoghi senza ormai più interesse, dimenticati. L’avventura abbandona l’oggettività della vittoria, del trionfo, dell’impresa per calarsi nella soggettività del pericolo, della difficoltà, dell’ignoto. Vincere quando si è forti è facile: essere scarsi e provare a non perdere, questa è la vera avventura!

Con questi pensieri mi sono messo in marcia: la grande parete del San Martino e l’occhio del Ciclope erano un’inutile mistero che doveva ancora essere risolto. Facendo qualche ricerca, dopo il mio primo sopralluogo, avevo scoperto che negli anni 80 una guida alpina aveva tracciato una ferrata per portare i propri clienti a visitare l’occhio. Viste le difficoltà del luogo, e la grande frana che aveva colpito la parete, tutto era stato inghiottito dal tempo. Non avevo idea di dove attaccasse questa ferrata ed andando a naso ero riuscito ad individuare la catena nella parte più esposta della salita. Purtroppo ero sul lato sbagliato di una valle verticale. Ero tentato di dare il giro alla valle e tentare sull’altro lato ma, tutto sommato, il mio avvicinamento sembrava ancora il più logico e sicuro: ci si alzava risalendo un comodo bosco e solo un traverso, tutto da valutare, separava dal muro verticale che porta alla cengia sovrastante. Il traverso, per quanto esposto ed invaso dai rovi, era una scelta difficile ma abbastanza certa. Così, ritrovandomi nuovamente su quella cengia più adatta alle bestie che agli uomini, ho tentato il lungo traverso.

Quaranta metri di giardinaggio verticale sopra uno strapiombo mi hanno consegnato sull’altro lato della valletta. Un viaggio impegnativo e soddisfacente quanto inutile: un cavo metallico, quasi inghiottito dalla vegetazione, rimonta infatti il lato destro della valle fino all’attacco del muro. Tuttavia non ero pentito della mia scelta che, nella sua genuina ignoranza, mi aveva portato esattamente dove volevo arrivare. Ora, teoricamente, non restava che affrontare il muro: l’unica soluzione possibile era purtroppo la vecchia catena ed il cavo metallico che gli correva accanto. Gli spit, su cui era frazionata la catena, erano di quelli autoperforanti piantati a mano. Avevano di certo i loro anni e di certo qualche buona sassata l’avevano presa. C’erano dei fittoni, alcuni in metallo, altri realizzati con vecchie punte del trapano. Non era uno scenario rassicurante visto l’esposizione e la verticalità del passaggio.

Prendo fiato e parto. Cerco di usare al meglio possibile i piedi per non pesare troppo sulla catena ma è davvero difficile: se salta anche solo uno spit riesco a tenere la sbandierata? Ho trenta metri di corda nello zaino ma anche una lounge da mezzo metro avrebbe fatto comodo. Rimonto e finalmente raggiungo l’albero a cui è fissata la catena. Il cuore batte forte, ma ormai il più è fatto… forse. Davanti a me l’occhio è trincerato dietro una cengia verticale, una pietraia sdrucciolevole invasa da una foresta di rovi: un inferno!

Da bambino, dopo l’asilo, avevo visto la bella addormentata nel piccolo cinema teatro di Canzo. Il pezzo più bello, ovviamente, era quello in cui il principe azzurro si lanciava con la sua spada attraverso i rovi affrontando il drago. Certo, poi baciava la principessa e partiva quella cosa noiosa  del “vissero per sempre felici e contenti”. Tuttavia, la settimana successiva, il principe azzurro avrebbe affrontato un’altra avventura, salvando e baciando un’altra principessa. Che dire, forse a quarantun’anni sono ancora questi gli archetipi che sanno consolarti quando ti trovi sovrastato da un labirinto di rovi.

Se i rovi sono una vera rogna, arrampicare sui sassi ostacolato dai rovi è un’odissea. Dopo mezz’ora avevo guadagnato solo una trentina di metri ed avevo speso letteralmente sangue e sudore per riuscirci. Non sapevo più in quale buco infilarmi ed ero sempre più stanco e coperto di tagli. L’idea di abbandonare si faceva sempre più pressante: “Se vai avanti così non ne hai più per scendere”Stavo per girare i tacchi sconfitto quando tra le spine ho intravisto un tronco, lungo poco più di mezzo metro e con diametro di una spanna. L’ho estratto dalle spire dei rovi ed ho iniziato ad usarlo come se fossi un naufrago nelle sabbie mobili. Lo lanciavo in avanti perchè schiacciasse i rovi e, a due mani, mi ci issavo sopra. Riaffondavo con le gambe tra i rovi e lo lanciavo nuovamente in avanti prima di issarmici sopra di nuovo. Una faccenda dannatamente faticosa ma funzionale!

Finalmente eccomi dentro l’occhio: che posto strano! All’improvviso i rovi scompaiono lasciando spazio solo a roccia arida e giallastra: si è al centro di una specie di forno solare e fa un caldo terribile. La volta è molto alta ed al centro dell’occhio c’è una specie di acquasantiera/terrazzo in cui cresce una grossa pianta nutrita dal costante stillicidio. Vorrei raggiungere la pianta ma dovrei arrampicare uno sperone di una quindicina di metri. La consistenza della roccia è strana e poco rassicurante: si sbriciola. Mi alzo sul lato destro della grotta ma desisto dall’idea di raggiungerne il centro e l’albero: “Birillo, c’è il viaggio di ritorno attraverso rovolandia: vediamo di concentrarci sul portare a casa la pelle ora…”. Così studio una linea che sul lato destro scenda attraverso le piante e gli spazi rocciosi lasciati liberi dai rovi. Ne scendo buona parte in libera ma comincio a sentirmi stanco ed il bordo della cengia è sempre più vicino: se scivolo e rotolo c’è buona possibilità di tuffarsi nel vuoto. Ad ogni passo i piedi sprofondano nei sassi e mantengo l’equilibrio attaccandomi dove posso. Cerco di ritrovare dall’alto il punto d’uscita della catena ma è nascosto dalla vegetazione. L’opprimente sensazione di essere in un pericoloso labirinto si fa più pungente delle spine dei rovi. Mi impongo di muovermi e pensare lentamente, ma la mente vorrebbe cavarsi in fretta. Tiro fuori dallo zaino la corda da trenta metri e la giro attorno ad una pianta per sfruttare un salto verticale privo di rovi. Piano piano mi calo a mano e, con circospezione, raggiungo finalmente la catena.

Pausa. Tiro fiato e mi impongo di riposare. Poi afferro la catena e comincio a scendere nel vuoto. Punto i piedi, lavoro d’impegno ma sono appeso, appeso a della ferraglia abbandonata tra i sassi ed i rovi. Arrivo alla base del muro con il fiato corto ed i respiri ritmati. Ansia! Mi obbligo a riposare ancora un attimo e poi comincio a seguire il cavo metallico. Più mi abbasso nella valle e più appare evidente come dall’alto sia una costante scarica di sassi. Il cavo qua e là è pestato, molto pestato, ed un paio di spit sono saltati lasciando il cavo lasco e quasi inutile. Sono attaccato a dei vecchi rottami metallici:  tutto sommato il mio traverso, logico e selvatico, sarebbe stata ancora la scelta migliore e forse più sicura!!!

Quando sono di nuovo ai piedi della valle mi riparo dietro uno sperone di roccia. Mi siedo e finalmente mi concedo un fiato d’acqua dallo zaino. Le braccia sono rosse di sangue, piene di tagli ma nessuno profondo: ho un sacco di piccoli buchi e tutti gocciolano coagulandosi. La tensione si allenta e per un attimo osservo le mani tremare: “Bella la vita quando ci si diverte!”. Mi guardo intorno, i problemi dovrebbero essere finiti e da qui dovrei poter raggiungere la falesia della Pala del San Martino. Non ci sono mai stato ma me ne hanno parlato: è una falesia a spit, sportiva, di sicuro c’è un sentiero comodo per arrivarci. Tra i sassi trovo il cranio di un piccolo animale: ad un primo sguardo sembrerebbe quello di un gatto (ai piedi del San Martino c’è un gattile) ma probabilmente è di qualche carnivoro più piccolo, una faina o qualcosa di simile. Lo infilo nello zaino: oggi è il compleanno del mio nipotino, regalo fatto!

Più rilassato studio il bosco e scopro che la Pala del San Martino è in realtà un grosso “sasso” appoggiato alla parete del San Martino tanto da formare una bella grotta passante e luminosa alle sue spalle. Inevitabilmente mi ci infilo e curioso un po’ quel strano scorcio ipogeo. Ho voglia di tornare a casa ma prima intendo dare un occhiata al grande camino della frana ed all’attacco della via Savini: famosa per le sue “soste a croce” e per il suo passaggio sotto un’ampio e caratteristico tetto. Rimonto quindi i sassi ammassi della frana fino ai piedi della parete: nel centro del grande crollo ci sono due infinite corde fisse che, in assenza di frazionamenti stretti, sembrano posizionate calandosi dall’alto (quindi più di trecento metri di corda stesa). Non sembra una faccenda da arrampicata, il tocco è più speleo o da disgaggiatore: probabilmente la parete viene, o veniva, monitorata. 

Per arrivare all’attacco della via Savini c’è una vecchia e marcia corda fissa, oppure un lungo giro tra rocce ed alberi. L’idea di ravanare ancora solo per vedere il primo fittone di una via non mi conquista: “Passo! L’attacco lo vediamo quando si torna a fare la via!”. Scatto qualche foto, mi godo per un istante il caldo del sole d’inverno ed i riflessi del lago: “Birillo, chi cerca trova, adesso però  andiamo a casa che è ora di pranzo: la tua avventura take-away finisce qui”.

Davide “Birillo” Valsecchi

Ps: ero così preso nel capire come affrontare il muro attrezzato che, salvo lo scatto alla punta del trapano, mi sono completamente dimenticato  (o disinteressato) di fotografare il passaggio. Incredibile… sto invecchiando! (cmq non è posto in cui infilarsi…)

L’occhio del Ciclope

L’occhio del Ciclope

Se potessi scegliere un personaggio omerico vorrei essere Ettore. Principe della potente città di Troia, eroe e protettore del proprio popolo, Marito, Padre, un valoroso guerriero che protegge ciò che gli è caro sfidando con coraggio un avversario invincibile. Una battaglia epica ed impossibile su cui quasi riesce ad avere la meglio e che solo l’ingerenza degli dei lo condanna alla sconfitta. Il suo corpo, trascinato per sette giri attorno alle mura, è a pezzi ma quella che doveva essere un umiliazione diviene il trionfo per una gloria, anche nella sconfitta, ineguagliabile.

Già Ettore, ma il destino ha voluto che io fossi Ulisse. Il re pezzente di un isola di capre, mal vestito, mal armato, un bugiardo che vive di espedienti, un vizioso, un egoista, un approfittatore, un irresponsabile che si abbondana all’avventura rotolando tra inganni e baruffe. Spezzerò il cuore a Penelope, spezzerò il cuore a Calipso, finirò in solitudine all’inferno e quella mezza sega di Dante Alighieri verrà a battermi la stecca prendendomi per il culo. Ecco, questo purtroppo sono io.

Forse è stata per questa mia deriva omerica che l’idea di andare a vedere l’Occhio del Ciclope sulla parete del San Martino si era fatta particolarmente intrigante. In questo periodo ho tante idee per la testa, sogni e progetti. Affollano i miei pensieri ed io cerco di tenerli ben stretti perchè si realizzino e non fuggano via. Per questo arrampico poco, non posso creare il “vuoto”, non posso liberare la mente ed affrontare le difficoltà delle esplorazioni con Ivan. Il vecchiaccio smania perchè ci sono “millemila vie” da aprire, ma finchè non risolvo un paio di questioni non posso rischiare la vita di entrambi andandogli dietro senza la giusta concentrazione.

Il San Martino però sembrava una buona opzione: “Prometto!! Solo una variante del sentiero dei Pizzetti, niente di più!”. Ovviamente già sapevo che non avrei mantenuto fede al mio proposito.

In Via Stelvio c’è una specie di gattile all’aperto. Faccio un paio di tornanti del sentiero dei Pizzetti ma mi annoio, così lascio il sentiero e mi infilo nel bosco. Punto a tagliare fino alla frana, per poi salire fino all’attacco della via Savini: avevo letto la relazione e quelle poche informazioni mi sembravano un buon punto di partenza con cui esplorare la base della parete.

Mentre risalgo tra le piante mi rendo conto che sono nella boscaglia alla periferia di una grande città come Lecco. Ogni dolina ed anfratto naturale pare “abitato”: ombrelli, materassi, vestiti, stracci e coperte. Sembra di essere in parco Sempione negli anni ‘80: sapevo della “tenda azzurra” ma fuori sentiero la faccenda si fa decisamente antropizzata.

Punto alla grande torre. Dal basso pensavo fosse un rudere di una fornace ma mi sbagliavo clamorosamente. Aggiro le reti paramassi e comincio a studiarla: una struttura tonda alta oltre venti metri, priva di qualsiasi porta, botola o scala d’accesso. Per costruirla è stato alzato alle sue spalle un’alto muro e tutto il piazzale circostante è ora invaso dai rovi. Ho curiosato da vicino ed appare evidente che l’edera è stata piantata (c’è ancora il nastro azzurro con cui era fissata) perchè, senza successo, ricoprisse e nascondesse tutta la struttura. Alta, in cemento e probabilmente cava: a che diavolo serve? Chi ha la risposta?

Abbandono la torre e mi dedico alla grande parete salendo dritto per dritto attraverso il bosco. La parete è imponente, ci sono tetti enormi ed infiniti tratti strapiombanti. Da lontano sembra un muro verticale e compatto, invece più ci si avvicina più ci si rende conto di come la parete si “muova” in cenge, canali, speroni e placche appoggiate. Ci si rende conto di come oltre agli strapiombi ed ai tetti impossibili ci sia un mondo di “possibilità”, durissime, ma possibilità!

Sono arrivato alla base emergendo dal bosco e non conosco abbastanza bene la parete per sapermi orientare adeguatamente senza punti di riferimento. Però quello che vedo mi intriga: c’è una specie di canale quasi verticale (ma non completamente verticale) che taglia in obliquo verso sinistra. Una salita decisamente rognosa ma fattibile. Mi sposto lungo la base cercando l’attacco del canale. Quando lo raggiungo vi trovo anche una vecchia corda fissa. La corda è in pessime condizioni, come cicca americana si allunga in modo poco rassicurante. Tuttavia, come pensavo, il canale sembra fattibile, una specie di tunnel che si innalza tra le piante come una “scorciatoia” verde tra due mari verticali di roccia gialla.

Un po’ incerto (il piano originale non era filarsi in mezzo alla parete inseguendo discutibili fisse!) ma comincio a risalire. Devo darmi da fare perchè il terreno è ripido, decisamente franoso e non posso fare alcun affidamento a quella corda. Devo ravanare e mastrufolare duro per salire ma ciò che mi preoccupa è la discesa: il canale non è verticale, ma è un misto di roccia e terra che frana, disarrampicarlo tutto può non essere uno scherzo. Se avessi un pezzo di corda buona, il mio fidato lasco da 30 metri, potrei sfruttare facilmente le piante o gli ancoraggi per calarmi, ma così, “nudo e crudo”, devo ponderare bene le mie scelte. Ovviamente non sono capace di tirarmi indietro quando sarebbe saggio farlo…

A metà del canale le fisse diventano due e biforcano. Una prosegue sulla sinistra, seguendo il canale e rimontando poi uno zoccolo, alla base di un crinale dove probabilmente qualche via risale poi tutta la restante parte della parete. L’altra corda, quella che poi ho seguito io, taglia verso destra raggiungendo un terrazzo erboso ai piedi di una bella placca che sembra puntare il grande tetto giallo sovrastante. Arrivo fino all’attacco della via e mi impongo di fermarmi: “Dove diavolo vuoi andare Birillo? Pensi di uscire verso l’alto? Organizzati piuttosto per scendere da qui!”

Faccio qualche foto e mi rimetto in moto. La discesa è in effetti una bella rogna. La corda è una potenziale trappola e nemmeno la tocco, il centro del canale è troppo franoso e così mi sposto sulla sinistra: a tratti è decisamente esposto ma la roccia, nonostante la terra che la ricopre, offre qualche buona presa tra una pianta e l’altra. “Dannazione, anche una stringa verrebbe a mano ora! Come fai ad uscire senza niente!” Una parte di me si lamenta, l’altra risponde rassegnata “Ti ricordi che dovevamo solo fare due passi prima di pranzo…”

Mentre discendo il canale trovo un’altra fissa, questa volta meno vecchia. Taglia verso sinistra abbassandosi verso la base di un’alta e compatta placca gialla. Vedo un bidone azzurro, forse qualcuno ci sta trafficando. “Bella forza! Con il trapano e chilometri di corda qui è uno spasso. Ma invece Birillo, che è un mona, ha deciso di venirci alla cieca e senza niente: così, giusto per mettersi nei guai da solo… Bravo Birillo! Continua così!  Campione del mondo…”

Nuovamente alla base del canale sono quasi tentato di tornarmene a casa. Tuttavia non ho ancora scoperto abbastanza della parete e all’occhio del Ciclope non mi ci sono neppure avvicinato. Così mi sposto ancora verso destra cercando di capire in quale punto della parete sono, aggiro uno sperone e mi trovo a sbalzo sopra una scogliera che precipita in una valle franosa. Finalmente comprendo a grandi linee la mia posizione: l’occhio, la grande grotta visibile da lecco, si trova verticale sopra la valle, un quaranta o cinquanta metri sopra di me. Il dilemma però è semplice: come arrivarci?

Davanti a me, sul lato sinistro della valle,  ci sono quaranta metri di rocce rotte che si innalzano ripide. Un carnaio di grossi sassi incastrati e piante. Una tribolazione impegnativa ma fattibile, una rogna che racchiude la possibilità di piombare abbasso abbracciato ad un frigorifero. L’incognita maggiore resta però la discesa: senza un pezzo di corda c’è il rischio di infilarsi in un drammatico vicolo cieco.

L’alternativa è strisciare tra i rovi e la roccia e forzare l’attraversata della valletta fino al fianco destro. Mi infilo in quella specie di buco fino a quando i rovi mi bloccano la strada. Forzandoli potrei passare ed infilarmi in un traverso su roccia e terra fino ad arrivare su un’ampio terrazzo erboso sullo sperone sull’altro lato della valle. “Sì ma poi?” Già, da quel terrazzo non ho idea di come si possa continuare  …ed in quale direzione. Forse mi sto incasinando solo la vita, magari all’Occhio si sale da qualche altra parte, qualcosa che non richieda numeri da circo tra il vuoto ed i rovi.

Ritorno sui miei passi e studio nuovamente tutta la zona. Non cerco una soluzione per passare, mi limito ad osservare cercando di imparare qualcosa su quel posto tanto complicato. Sull’altro lato della valle vedo una fessura a lama che sale una placca piuttosto liscia e raggiunge una grossa pianta. Quella fessura mi cattura perchè sembra fattibile. Poi guardo meglio e vedo una catena e dei pioli metallici. “Ecco il trucco! Eccolo lì dove si passa!” C’ero andato vicino, la tentazione di attraversare di nuovo è forte ma la mia fiducia in quella catena è piuttosto scarsa. “Sono una decina di metri verticali e lisci. Okay la catena, okay i vecchi pioli: forse è facile , forse riesci a salire, ma scendere? Se la catena è un rottame che fai? Ti appendi? Ora conosci la strada, portati un socio ed un pezzo di corda, non prendere altri rischi per nulla”. La voce della coscienza sembra avere la meglio. “Okay, hai vinto: andiamo a pranzo!”

Do un ultimo sguardo alla parete e, quasi all’uscita, vedo una serie di corde fisse appese: “Accidenti, questa non è una parete: è un cantiere a cielo aperto! Tutti mollano qualcosa a marcire appeso!!” Ritorno nel bosco accolto da uno strano fischio. Lo sento ma ancora non lo vedo. Sono sorpreso e lui continua a fischiare. Poi scatta e dandosela a gambe finalmente si mostra: un camoscio, non mi aspettavo di trovarne uno così in basso! Sull’Isola Senza Nome non ce ne sono e qui, alle porte di Lecco, si trovano già così bassi sotto la parete del San Martino. Incredibile!

Mi abbasso ancora seguendo vaghe tracce finchè non trovo una catena. Un sentiero attrezzato con tanto di scritta a vernice “Si consiglia il casco: caduta sassi!”. Incuriosito inizio a risalire seguendolo: credo sia l’originale sentiero dei pizzetti, o comunque una sua variante più impegnativa. Un bel canale roccioso molto divertente che, a metà, offre un’intrigante gita all’interno di una bella grotta rosa. Un grosso masso sbarra l’accesso ma, arrampicando un po’, sono andato a curiosare fino al fondo. Non era l’occhio del ciclope ma avevo comunque trovato una grotta in cui infilarmi!

L’uscita del sentiero è al bivio tra il sentiero Pietro Pensa e il Pizzetti classico. Da lì, ammirando il Moregallo, ho saltellato allegro fino alla macchina immergendomi nuovamente nei miei pensieri. Già, non credo sarò mai come Ettore, non sono il tipo che si fa spianare da un semidio davanti alla porta di casa. No, questo è per certo.

Quindi forse conviene arrendermi ed essere un buon Ulisse: a modo suo, quel re pezzente di un’isola di capre, ha vissuto, combattuto ed amato guidato dal desiderio di scoperta, prigioniero dell’ignoto e dei suoi sentimenti. Tutti conoscono la morte di Ettore, ma solo il Pascoli ci racconta la triste e sincera fine di Ulisse, il re vagabondo di un’isola di capre e mufloni:

Era Odisseo: lo riportava il mare alla sua dea: lo riportava morto alla Nasconditrice solitaria, all’isola deserta che frondeggia nell’ombelico dell’eterno mare. Nudo tornava chi rigò di pianto le vesti eterne che la dea gli dava; bianco e tremante nella morte ancora, chi l’immortale gioventù non volle. Ed ella avvolse l’uomo nella nube dei suoi capelli; ed ululò sul flutto sterile, dove non l’udia nessuno:— Non esser mai! non esser mai! più nulla, ma meno morte, che non esser più! —

Davide “Birillo” Valsecchi

Fiamme al Moregallo

Fiamme al Moregallo

Se ti chiami Birillo e giudi una brigata che porta il nome di “Tassi del Moregallo” non puoi tollerare che l’ignoranza abbia portato fiamme e cenere tra le tue valli: questo non è solo un incendio doloso, questa è una faccenda personale.

Ieri sera la sirena dei pompieri, poi oltre il profilo della Forcellina la notte si illumina di rosso: brucia la valle Due Pile, brucia il versante sud Moregallo. Dal terrazzo scatto qualche foto mentre su internet leggo che fino al mattino non sarà possibile intervenire. Alle quattro mi alzo in mutande e torno sul terrazzo: le fiamme, nonostante la foschia, sembrano essersi allargate inghiottendo tutte le creste.

Al mattino l’elicottero inizia il suo “vai e vieni” gettando acqua sui focolai che ancora fumano alti sulla cima del Moregallo: il fuoco, incastrato tra le pareti di roccia, ha consumato ogni cosa, non ha quasi più nulla da bruciare e sembra morire di di fare sotto i colpi dell’elicottero. Non posso che aspettare cercando di capire quale disastro nasconda la foschia. Poi l’elicottero smette di volare, il fumo sembra cessato: infilo gli scarponi e vado a vedere.

Incontro le squadre dell’antincendio che scendono lungo il sentiero “Paolo ed Eliana”. Chiedo loro come sia la situazione. L’incendio è spento, qua e là fuma ancora ma solo all’interno del perimetro già bruciato. Li saluto e li ringrazio per quello che hanno fatto: “Grazie? Siamo di Valmadrera, queste sono le nostre montagne: non potevamo fare diversamente!” Sorridono e scendono a valle: ancora grazie!

Incontro una coppia di carabinieri. Giacche grigie e scarponi ricordano la forestale: forse sono i primi “carabinieri di montagna” dopo l’accorpamento dei due corpi. Chiedo loro qualche informazione e racconto quello che so della valle e quello che ho visto durante la notte. “Posso fare qualche foto e guardare un po’ in giro?” Avevo paura di dare fastidio ai loro rilievi ma non hanno nulla in contrario se curioso in giro: le operazioni di spegnimento sono ormai concluse. Così li seguo sul sentiero che dal Forcellino taglia verso Sambrosera e poi, spinto da un richiamo a cui non riesco a resistere, mi infilo nella valle due pile e rimonto del mio adorato “ignoto” ormai in cenere.

Il fuoco sembra essere sceso dall’alto, scavalcando tutte le tre grandi creste che sulla sinistra scendono nella valle: è impressionante come abbia saputo salire per ridiscendere superando i salti rocciosi che si opponevano a barriera. Fortunatamente i due carabinieri/forestali non mi seguono: la valle è insidiosa normalmente, in quelle condizioni non ho idea di cosa mi attenda.

Supero il primo passaggio roccioso, il primo punto in cui tocca tenersi un po’, ed entro nella “piazza” dove i primi canali si incrociano. Il fuoco ha solo accarezzato le piante mentre correva furioso sul paglione consumandolo fino alle radici. In quel punto spesso cadono e muoiono molti mufloni ed il fuoco sembra aver scosso le piante che ne trattenevano i resti facendone rotolare a valle le ossa. Le fiamme hanno ingiallito quello che resta di un muflone maschio e più in alto di una femmina.

Devo fare attenzione a non muovere sassi in quella terra scossa e consumata dal calore. Le pietre ingiallite non sembrano dare alcun affidamento. Per essere più sicuro devo arrampicare quanto più possibile sulle placche e sui sassi più grandi ma la sensazione è strana ed inquietante. Con le dita scosto la cenere cercando appigli e appoggi in un silenzio surreale. I miei ricordi sono pieni di piante, a volte fastidiose, a volte amichevoli, che custodivano i segreti del cuore della valle: non c’è più nulla, solo cenere, spazi aperti e silenzio.

Mentre arrampico più o meno all’altezza dello “Zeppeling”, dove lo scorso gennaio abbiamo ripetuto la via “Biba e PoniPoni”, vedo affacciarsi sulla cresta una volpe. Ferma immobile lassù mi osserva per quasi venti minuti mentre salgo in silenzio. Immobile, arroccata sopra un’isola rocciosa circondata dalla cenere, uno scoglio sopra cui il fuoco non è riuscito a salire. Mi guarda ed io guardo lei: forse siamo i soli esseri viventi che si aggirano in quella desolazione. Ci guardiamo muti a lungo, quasi a cercare conforto e quel suo osservarmi impietrito senza riuscire a parlarmi: “Cosa è successo?” Mi piacerebbe dirle che mi dispiace, che quella è la nostra valle, ma lei domani dovrà andare altrove per sopravvivere. Forse non siamo stati in grado di proteggerla, di certo  daremo battaglia per vendicarla.

Birillo’s Crack è affumicata, lo stesso vale per lo Scoglio di Arianna e la cresta su cui corre Mozzo Fantasma. Il fuoco ha circondato la Pietra del Filosofo e lo Scoglio dei Tassi risalendo il verticale pendio erboso che avevo fantasticato di risalire con le picozze. Vorrei salire fino alla bocchetta di Sambrosera ma una strana inquietudine mi trattiene. Credo che il fuoco lo abbiano appiccato qui da qualche parte, lungo il sentiero che dalla palina della OSA risale verso la bocchetta. Probabilmente sono scesi da qualche parte nella valletta e poi hanno ripiegato in sicurezza oltre il crinale verso Sambrosera. Le creste hanno nascosto alla vista quello che accadeva fino a quando ormai è stato troppo tardi: “Figli di puttana…”

Mi guardo in giro ancora un po’. La terra è nuda e cotta, quando la pioggia pesante la colpirà in quelle condizioni non sarà affatto piacevole. Credo che molte cose cambieranno ancora: staremo a vedere. Quelle mezze seghe che hanno combinato questo casino forse pensano compiaciuti di aver abbrustolito la mia montagna, ma si sbagliano. Il Drago Verde ha sangue di fenice, risorgerà e sarà ancora più battagliero. Al contrario dovrebbero essere loro a preoccuparsi: i “duri della valle” non sono come gli altri, sono gente strana e toccargli la montagna è un’offesa imperdonabile. Tra i vecchi già gira insistente la voce, tra loro si domandano chi ha visto o sentito: è iniziata la caccia ed i pezzi vengono messi insieme. Il fuoco ha svegliato una rabbia bruciante che conveniva lasciare sopita.

San Primo, Palanzone, Pra Santo, Due Mani ed ora Moregallo: qualcuno pagherà e pagherà per tutto. Forse è meglio smettere di sentirsi intoccabili, smettere di comportarsi come degli idioti. Quello che accade nel bosco resta nel bosco: dio non voglia che qualcuno li colga sul fatto o tra la cenere non troveremo solo le ossa di muflone.

Davide “Birillo” Valsecchi

Il Paradosso del Cane

Il Paradosso del Cane

«Tu hai sempre dei cicli depressivi fasici, ma questo sta diventando più lungo del solito» Avere una moglie che è operatrice della riabilitazione psichiatrica spesso si rivela uno specchio fin troppo impietoso in cui osservare le proprie inquietudini. Sono ormai due settimane che l’influenza mi tiene prigioniero: non posso uscire e non sono abbastanza lucido per lavorare ai miei progetti, passo il mio tempo avvolto in una coperta guardando documentari sui soldati in Afghanistan e sulle truffe bancarie perpetrate contro la middle-class nel 2009. Bene, ma non benissimo insomma.

Così, in uno slancio suicida, ho infilato gli scarponi, due maglioni e sono uscito di casa. Più o meno all’altezza di “GianVacca” mi chiama Bruna al telefono: «Sei uscito?» «Sì – rispondo con il fiatone – ho fatto cento metri ed ansimo come un vecchio! Ho anche litigato con i cani!» Bruna dubbiosa «Come con i cani!? Quali cani?!» «No, no. Non per davvero: in modo metaforico, un paradosso della società contemporanea. Poi ti spiego, ora devo camminare: sembro una lumaca asmatica!» Bruna era un po’ perplessa, ma io avevo un sacco di passi ancora da mettere in linea.

Già, il paradosso dei Cani. Normalmente, quando sono in forma, i cani si guardano bene dall’abbaiarmi contro, specie quando sono solo. Credo sia l’odore o l’atteggiamento, qualcosa sentono di sicuro. In alcuni casi, con tanto di testimoni, è bastato che modulassi la voce in un certo modo per metterli in fuga spaventati. Deve essere qualcosa che ho sviluppato studiando Karate e passando tanto tempo da solo in montagna. Credo sia una forma di “presenza mentale” che a volte funziona persino con gli esseri umani ostili: ci ho vinto delle gare ed evitato persino qualche rissa.

Oggi però, una coppia di pastori tedeschi, ha sentito che ero malato e debole lanciandosi furiosi e vocianti contro la recinzione che costeggiava il sentiero. All’inizio la cosa mi ha infastidito, poi mi ha incuriosito e fatto riflettere. Quella recinzione serve a definire una proprietà dando ai cani la libertà di correre senza rappresentare un pericolo per chi passa: è una convenzione sensata, che dovrebbe tutelare tutti, padroni, cani, passanti, ma questi due idioti a quattro zampe non trovano di meglio che aggredirmi per divertimento. Già, perchè anche se sono malato, senza quella rete a proteggerli non avrebbero di certo avuto quell’atteggiamento tanto spavaldo.

In natura difficilmente gli animali diventano aggressivi senza motivo, quando lo fanno, anche in modo dimostrativo, hanno sempre uno scopo preciso. La natura non fa sprechi. Al contrario gli animali domestici, quelli “civilizzati”, quelli più umani, spesso lo diventano solo per noia o divertimento. Io stavo solo passando, non ero una minaccia nè per loro nè per la proprietà, perchè ribadire in modo tanto aggressivo la loro posizione, perchè utilizzare la recinzione per “spingersi oltre” a scapito mio?

Questa era la metafora della società contemporanea: cani che passano il proprio tempo al sole, con la ciotola piena e nessun problema, pronti a scattare contro chi si avvicina ai possedimenti su cui sono arroccati, a sfruttare tutele che dovrebbero essere reciproche per “spingere oltre” la propria aggressività, il proprio dominio. Tu puoi solo arretrare, perchè diversamente dovresti litigare con il cane, con il padrone, i suoi avvocati ed un esercito di integralisti animalisti. Tu stavi solo facendo la tua strada, senza pretese, ma devi stare in silenzio mentre quelli ti urlano contro, protetti dalla rete che dovrebbe proteggere te. Anzi se provi a rispondere finirai per certo nei guai. 

Non credete sia così? Guardatevi intorno: è pieno di cani che abbaiano nascondendosi dietro artificiose recinzioni! Il referendum doveva spazzare una classe politica quasi abusiva, li sentite come abbaiano minacciosi protetti dietro la loro inavvicinabile recinzione? E le banche? Hanno imbrogliato i risparmiatori, sono fondamentalmente dei ladri che hanno abusato della propria posizione dominante.  Hanno fatto una scommessa pericolosa, opportunista ed egoista, ed hanno perso.  Ma saranno i cittadini a salvarle, poco importa la crisi e le mille emergenze. Non importa neppure che la loro scommessa fosse dichiaratamente contro il bene comune e la nostra pelle: i soldi per le banche li hanno trovati subito, direttamente nelle nostre tasche. Provate ad opporvi: non li sentite ora abbaiare mentre in silenzio, a testa bassa e spaventati, arrancate come meglio potete sul vostro sentiero?

Di contro, come reazione, anche noi cerchiamo di diventare a nostra volta cani: spaventati cerchiamo una recinzione, anche traballante, dietro cui nasconderci per poter abbaiare a nostra volta. Avete presente quanto ridicoli siano certi cani di piccola taglia che ruggiscono nascondendosi dietro un niente? Ecco, quelli siamo spesso noi. Un ciclo che si ripete all’infinito in un latrato senza fine. Questa è la cosa più triste, perchè non ci rendiamo conto che quelli chiusi in gabbia sono loro, che senza quella recinzione, che serve ormai più a loro che a noi, sarebbero solo degli stupidi ed inutili cani viziati che abbaiano contro dei leoni. Vorrei proprio vederli aprire bocca senza quella recinzione garantista…

Già, il paradosso del cane: visto che mi sento come Van Gogh in procinto di tagliarsi un orecchio, credo che la febbre abbia iniziato a risalire. La situazione poi si è fatta ancora più grave perchè, nonostante tutti i buoni propositi, ho lasciato il sentiero infilandomi nel bosco ed al momento sono guidato dal suono di un pianoforte che vibra tra i miei pensieri. Bene, ma non benissimo in effetti….

Forse però è questo che cerchiamo nella montagna, non la libertà, ma l’onestà di cui siamo privati. Se provi ad abbaiare alla montagna nascondendoti dietro un effimera recinzione questa, con i suoi tempi, finirà immancabilmente per prenderti a calci in culo. E’ fatta così, brutalmente onesta, mai equa, pesa il tuo cuore ad ogni passo: ma forse è questa la libertà. “Vieni a me, così come sei…”

Io, ormai fradicio di sudore, arranco su pendii gelati inseguendo effimere cascate di ghiaccio. «Birillo, è tutto ghiacciato, il sole se ne è andato e non tornerà fino a domani. Se combini qualche casino, qui, ti addormenti per sempre! Sei ancora mezzo malato e ti metti a far canali di ghiaccio con una vecchia racchetta da neve?» La mia coscienza è il compagno di viaggio più petulante e fastidioso che mi potesse capitare! Sebbene non a piena forza, il mio motore sembra girare bene. Il mio giudizio, se non proprio lucido, è adeguatamente allineato.

Il ghiaccio è affascinante, anche se praticamente non ho quasi nessuna esperienza in materia. Certo, nel 1985 avevo gradinato con martello e scalpello la cascata di ghiaccio dietro casa e mio padre, sebbene avessi nove anni, era pronto a farmi sicura dal pollaio con la corda per la legna se mia madre non si fosse opposta quando ero più o meno a quattro metri da terra. Tuttavia non posso definirmi un’esperto di cascate di ghiaccio, forse è per questo mi sono limitato ad arrampicare sulla roccia accanto….

Un grosso boccione è volato di sotto rimbombando, certo, ma in linea generale la roccia era curiosamente solida e lavorata. Il ghiaccio però non sembrava “legarla” abbastanza da ignorarne la fragilità: posto decisamente curioso e selvaggio. Per raggiungere la base della cascata più grande dovevo risalire un muro roccioso incrostato di ghiaccio ed erba, avevo individuato il punto in cui riuscire a passare con pochi passi ma la coscienza continuava a protestare.

«Tu accampi solo scuse per tirarti indietro. Io dico che si passa e da lì, dal boschetto appena sopra, è tutta dritta fino al cuore della gola»
«Scuse!? Ma quali scuse!! Scemo, guardati intorno! Dovevi andare in cima al Corno Rat seguendo il sentiero, una passeggiata per anziani: come accidenti abbiamo fatto a finire qui?! Ammesso che tu riesca a salire senza cadere, come farai a scendere? Sei ancora mezzo malato, se finiscono le batterie prima che finisca l’ingaggio? Non c’è assolutamente modo di uscire da sopra e siamo su un pendio di paglione gelato che precipita in un canale buio e pieno di ghiaccio. Vuoi che faccia l’elenco di tutti i “modi brutti” in cui puoi lasciarci la pelle oggi?»

La mia coscienza ha un’aggressività latente davvero disdicevole.
«Sì, vabbè, però ormai son qui…»
«Certo! Ma davvero ti lasciano uscire da solo?! Sei un pericolo! Dovrebbero rinchiuderti e lasciarti abbaiare dietro una recinzione!»

Oilà, questa era buona e paradossale allo stesso tempo!

Okay, non sono tanto fulminato da avere amici immaginari con cui andare a passeggio, ma l’economia generale dei miei pensieri era più o meno quella. Così, visto che davvero le mie batterie iniziavano a scaricarsi e l’impegno era significativo, ho girato i tacchi e piano piano mi sono riportato tra la civiltà, sogghignando felice…

Forse è solo una coincidenza, una fortuita casualità, tuttavia sono ripassato davanti a quei due idioti a quattro zampe: sono corsi come dei forsennati verso la recinzione ma, curiosamente, si sono ben guardati dall’aprire bocca questa volta. Cosa era cambiato? Niente, è bastato guardarli con occhi diversi. Già, divertente: forse ho ancora l’influenza ma tutto sommato credo di essere guarito.

Davide “Birillo” Valsecchi

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