Monte Rosa: atto primo

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Giovanni voleva salire in cima al Lyskamm Orientale, un’affilata montagna di 4527 metri nel massiccio del Monte Rosa. Io conosco poco e nulla delle Alpi Occidentali e per questo ho accettato ben volentieri di fare cordata con lui. Come spesso accade ero più interessato alla “scoperta” che alla cima.

Le previsioni indicavano sabato come “coperto” mentre domenica avrebbe dovuto essere “buona” con un peggioramento nelle ore serali. La quantità di alpinisti che, loro malgrado, hanno scoperto quanto questa scommessa metereologica fosse inesatta sono stati parecchi. Tuttavia  credo siano stati davvero in pochi quelli che sono riusciti a fare tanto casino come me e il mio socio.

Quando abbiamo raggiunto Alagna Valsesia grossi goccioloni cadevano dal cielo ma, sempre stando alle previsioni, tutto ero come doveva essere. Quando, risalendo con la funivia, abbiamo raggiungunto Punta Indren il cielo era ancora chiuso, salendo dapprima al Rifugio Mantova e quindi alla Gnifetti si è via via aperto mostrandoci la bellezza delle montagna circostanti. La notte si preannunciava serena e così sembrava promettere il giorno successivo.

Io e Giò ci abbuffiamo e filiamo diretti in branda come due diligenti scolaretti. Quando la mattina suona la sveglia erano le tre e c’era già un’ammucchiata di persone che assaltava la tavolata della colazione. Scambiamo quattro chiacchiere con gli altri alpinisti ed infiliamo l’equipaggiamento. Con un certo disappunto tutti abbiamo constatato come il tempo non fosse un granché ma, essendo ancora buio, c’era la speranza migliorasse.

Al buio abbiamo iniziato a seguire la pedonata  (grande come un’autostrada) che risale per il ghiacciaio del Lys fino all’omonimo colle. Dopo mezzoretta di cammino, senza alcun preavviso, un rumore di neve che scivola su altra neve avanza rabbioso dal lato a monte. “Okkio Giò!” ho gridato al mio socio preparandomi a correre. Aspettavo di vedere l’onda di neve apparire dall’oscurità ma il rumore è proseguito oltre e senza che nulla apparisse nel cono di luce della mia frontale. “Cominciamo bene: molla alle quattro del mattino?!?”

Dopo quel preoccupante rumore ho studiato con vivo e rinnovato interesse la neve: nonostante l’ora la sua consistenza era effettivamente già uno schifo. “Sarà l’ondata di caldo di cui avevano parlato…”. Le possibilità di puntare al Lyskamm si stavano già facendo remote. Poco più avanti incontriamo una cordata che scendeva: “Oilà, buon giorno. Come mai tornate già?”. Il tipo è un trentino e mi risponde schietto: ”Eravamo in tenda al colle, è scesa la nebbia ed hanno cominciato a lampeggiare i fulmini. Avevamo in mente una salita ma non si può fare in queste condizioni. Torniamo a valle perché le altre cime le abbiamo già fatte. Ciao.”

Dopo la prima altre due cordate battono in ritirata. Io e Giovanni  ci avviciniamo per un consiglio di guerra. “Il Lyskamm è andato, però la visibilità è ancora abbastanza buona e la traccia chiara. Saliamo fino al Colle del Lys e diamo un occhiata: se le condizioni lo permettono ci facciamo una sgambata fino al Margherita”. Questo fu il responso del nostro concilio prima dell’alba.

Così, a testa bassa, abbiamo iniziato a macinare passi raggiungendo e superando le cordate che ci precedevano. Al colle del Lys la visibilità si è abbassata ancora un po’ ma Giò conosceva bene quella traccia e mi descriveva diligente ogni bivio che incontravamo. Quando raggiungiamo il Colle del Lys una tenda rossa sfidava il vento che iniziava ad soffiare più intenso. Le due picozze all’ingresso indicavano come gli alpinisti al suo interno avessero desistito dall’uscirne: forse non avevano tutti i torti!

Io e Giò ci sentivamo bene, io non conoscevo assolutamente nulla di quel posto ma Giò navigava bene per entrambi e così abbiamo proseguito. Dal Colle del Lys si discende leggermente per poi affrontare una successiva risalita. In quel tratto incontriamo alcuni “trenini” che, guidati dalle guide, scendono dalla Capanna Margherita. Sono tutti stranieri e piuttosto infreddoliti. Salutiamo e tiriamo oltre. Per arrivare il rifugio dobbiamo solo risalire una prima rampa, superare il piattone successivo e piegare verso est sull’ultimo strappo che porta alla punta Gnifetti ed alla Capanna Margherita. In mezzo ci sono un paio di grossi crepacci aperti ma ben visibili, il resto sembra solidamente chiuso.

Quando superiamo la prima salita il tempo però cambia: la neve, per effetto del vento che stava rafforzando, si  trasforma in piccole palline ghiacciate. Queste simpatiche palline inizialmente rotolano allegre poi, catturate dalle folate di vento, si alzano e bersagliano con forza e rabbia qualsiasi cosa incontrino. Nel corso di pochi minuti le folate di vento si fanno più intense e dolorose. Per cinque o sei secondi sembra di essere dentro una sabbiatrice pesante: nascondiamo il tronco dietro lo zaino mentre le gambe vengono percosse dalla neve. Una dannata punizione!!

Giò ed io facciamo di nuovo consiglio mentre il vento urla sulle nostre parole:”Bene, andiamo al Margherita e tiriamoci fuori da questo schifo!”. Nel punto in cui eravamo proseguire (in fretta) per il rifugio era senza dubbio la soluzione migliore.

Poco più avanti incontriamo due vicentini che, immobili nel vento, continuano a guardarsi intorno spaesati. Quando li raggiungiamo il rumore del vento è tale che dobbiamo urlare per sentirci. “Non siamo sicuri, non siamo sicuri!” continuavano a ripetere indicando punti nella nebbia che, lentamente, stava trasformando la luce del mattino nel temibile “white-out”. Giovanni li ascoltava scuotendo la testa. Io, non conoscendo la zona, non potevo aiutarlo in alcun modo. La traccia, travolta dal vento, era ormai quasi scomparsa e la situazione stava diventando preoccupante.

I due vicentini continuavano a gesticolare totalmente indecisi sul da farsi. Ho afferrato Giò per la giacca e gli urlato vicino alla faccia “La sai?”. Lui a sua volta mi ha afferrato urlandomi semplicemente “La sò!”. Per me andava bene.“Okay, allora togliamoci da qui!” Dopo l’ennesima scarica di neve e vento ho afferrato uno dei vicentini “Noi andiamo di là. Ci si vede: in bocca al lupo!”. Non era più il momento di fare conversazione…

La mia era una scommessa al buio sull’esperienza di Giovanni: nella tormenta e nell’ignoto, lui davanti ed io dietro. Alle nostre spalle, quasi inghiottiti dalla nebbia, i due vicentini seguivano le nostre tracce: anche loro stavano scommettendo alla cieca su di noi.

Arrancavamo in salita, ormai avevamo passato i 4500 metri. Erano le otto e venti del mattino, la traccia era ormai andata ma come per magia Giovanni ha trovato le bandierine del Margherita. Entrando nel atrio del rifugio ridevo felice come un bambino, eravamo coperti ed imbiancati dal ghiaccio ma eravamo a destinazione. “Bravo Giovanni! Bravo!” Ho assestato una sonora manata al mio socio abbracciandolo felice. Avevo scommesso bene!

Poco dopo anche i vicentini varcano la soglia ed insieme entriamo nel rifugio. La Capanna Margherita è il rifugio di vetta più conosciuto al mondo ed è quello posto alla maggior altitudine d’Europa (4556m). Ha novanta posti letto ed è una meta ambita e relativamente accessibile. Quando entriamo è totalmente e sconsolatamente deserta: siamo i primi a raggiungerla!

I tre rifugisti hanno raddrizzato le panche da sopra i tavoli e ci hanno servito del the caldo. La quota iniziava a farsi sentire ma cercavo di contenerne gli effetti mentre un tarlo iniziava rodere la mia mente: “Bene, ora siamo al rifugio. Ora come scendiamo?”

Poco dopo di noi un secondo gruppo di vicentini ha varcato la soglia. Come i loro compagni avevano perso l’orientamento ed avevano “pascolato” fino alle pendici della Punta Zumstein prima di trovare la strada per la Margherita: la loro faccia la diceva lunga su come se l’erano passata!

Ma la vera stella della mattina è l’ingresso di una guida italiana: capelli bianchi, profondi occhi azzurri ed accento indigeno. Con lui un cliente italiano con cui discuteva di gare di fondo. ”Perfetto” Lui sarebbe stato il nostro faro lungo la via di ritorno. Più rilassato ho appoggiato la testa sul tavolo, ho chiuso gli occhi e mi sono addormentato.

Quando ho riaperto gli occhi la guida se ne era andata e nel locale ristorante del rifugio erano rimasti solo i vicentini che, nemmeno troppo implicitamente, aspettavano noi per scendere. “Cazzo! Cazzo! No!” E’ stato il mio primo pensiero!

“Merda! Che prila! Mi sono perso la Guida!” Io e Giò rindossiamo l’equipaggiamento ed usciamo. Erano le dieci del mattino, il vento era diventato ancora più forte, iniziava a nevischiare e  la nebbia si era infittita. Dormire non mi aveva aiutato molto: avevo una pericolosa “voglia di scendere” e razionalmente sapevo quanto tale istinto fosse insidioso.

Appena fuori del rifugio Giovanni aggancia una falsa traccia che corre lungo la cresta verso sud. Entrambi ci accorgiamo di essere andati oltre la curva che verso destra scende ai piedi della rampa della Punta Gnifetti. “Siamo andati oltre, abbiamo perso la svolta. Dobbiamo tornare indietro” mi urla Giovanni mentre torniamo sui nostri passi: dannazione, avevamo toppato alla prima curva! Non era un gran inizio!

Propongo a Giovanni di rientrare: “Andiamo dentro, aspettiamo le undici e vediamo se sto vento cala!”. La quota e l’incertezza cominciavano a darmi davvero fastidio. Probabilmente al di sotto della vetta il vento era meno forte ma tutti i miei campanelli d’allarme era accesi. Non conoscevo assolutamente quel posto e durante la salita non avevo avuto modo di imparare un granché per via della scarsa visibilità. Il mio controllo sulla situazione era pari a zero e tutto il peso delle scelte stava per cadere sulle spalle di Giovanni.

Quando rientriamo nel rifugio i vicentini non ci sono più: riuniti in un gruppetto da cinque si erano fatti forza e si erano buttati nell’ignoto. Probabilmente mentre eravamo sulla cresta avevano imboccato la svolta giusta ed iniziato la loro perigliosa discesa. Per quanto ne sappia dovrebbero avercela fatta: quanto brutta se la siano vista non saprei dirvelo.

“Se la nebbia ti blocca a metà strada ed inizi a girare in tondo sei fregato, Birillo. Qui sei al caldo, sei al sicuro. La testa ti fa male e le tue scelte sono fragili. Lascia questo posto e te ne pentirai.” Questo era il pensiero che mi tormentava mentre la quota pulsava dietro gli occhi.

“Giò, ti offro il pranzo mentre decidiamo sul da farsi” Ordiniamo un paio di zuppe calde ed iniziamo a mangiare. Ingollo lentamente ogni cucchiaiata ma la zuppa sembrava far fatica a star giù. Stavo davvero uno schifo e non avevo molti assi da giocarmi. Così mi sono avvicinato al rifugista: ”Oilà, ciao. Sai mica dirmi che dicono le previsioni?” Lui mi risponde mezzo incazzato: la Svizzera promette bello mentre l’Italia minaccia tempesta. Nemmeno lui capisce che diavolo voglia fare il tempo, tutto ciò che sa è che tutte le prenotazioni sono state disdette e che lui non da consigli a nessuno.

“Evviva” mormoro. Nella mia testa c’era però il ricordo della sera prima, il sereno cielo azzurro sopra le montagne. In fondo non aveva nessun senso rischiare la pelle scendendo senza aver visto nulla del Monte Rosa: fanculo il vento, fanculo la nebbia, io voglio vedere qualcosa di queste montagne!

In tutto questo c’era un fattore curioso: alla macchinetta del parchimetro avevamo inserito quattro euro di troppo ed avevamo pagato un giorno in più. Non l’avevamo fatto apposta: avevamo letto male le istruzioni. Era semplicemente successo ed in quel momento era un fatto.“Giò, tu lavori domani?” Lui scuote la testa “No, attacco martedì”.

L’ultima funivia partiva alle quattro e mezza. Se fossimo stati in grado di scendere fino alla Gnifetti (cosa tutta da verificare!!) c’era il rischio di perdere l’ultima corsa e di dover trascorrere comunque la notte al rifugio più a basso ritardando di un giorno il rientro.

Una stramaledetta montagna di rischi ed incertezze mentre eravamo piacevolmente al caldo nel cuore della Capanna Margherita (con un mal di testa terribile ma nssun problema serio). Il rifugista accende lo stereo e partono a suonare i Creedence Clearwater Revival (un segno del destino!). Nel rifugio non è rimasto nessuno a parte noi: “Giò, ma a noi chi ce lo fa fare di rischiare il culo scendendo ora? Dormiamo qui e scendiamo domani?” Giò ha riso, non aveva mai dormito al Rifugio Margherita: quella era un ottima occasione.

A cuor sereno mi sono accordo con il rifugista per due brande nella stanza numero 5 (il mio numero fortunato). La mia scommessa era che entro sera, magari verso il tramonto, il cielo si acquietasse come il giorno precedente e che il successivo le condizioni fossero abbastanza buone da scendere con relativa sicurezza. Quello che non sapevo era che quella scommessa sarebbe stata la sola che in quel giorno avrei clamorosamente perso: il peggio doveva ancora arrivare!

Fine Atto Primo.

Davide “Birillo” Valsecchi

mappa ghiacciao del Lys

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