Soldà  al Baffelàn

Soldà al Baffelàn

E’ venerdì sera ed ormai sono le dieci passate. Sul tavolo un caraffa di “CoppaAurora”, sulle ginocchia la nana che sorride, alle mie spalle, oltre le finestre della sala da Pranzo del Rifugio SEV, la Parete Fasana e poco distante la grande Onda del Corno Orientale e la via che porta il nome di mio nonno. Davanti a me, attraverso il buio ed una piccola folla, scorrono le immagini e le parole luminose di Ettore Castiglioni che, con il Gruppo del Berio, aiuta Einaudi e gli altri profughi a fuggire attraverso le Alpi verso la Svizzera. Ettore Castiglioni, compagno di cordata con Detassis sul Brenta, di Bonacossa in Patagonia, dello “Zio Vitale” sulla nord Badile. Per un istante mi perdo: forse sono le parole di Ettore, forse il sorriso della nanerottola che con due mani succhia felice un pezzo di pane, forse il travolgente intruglio alcolico rosastro dei Corni… per un istante l’alpinismo, qualsiasi cosa sia, mi sembra qualcosa di più importante, qualcosa che si spinge oltre il grado o le cime o le pareti delle montagne. Qualcosa la cui forza autentica trasforma gli uomini: una catarsi che li rende al mondo con uno sguardo ed una volontà capace di cambiare anche la storia. Prendere posizione nonostante la gravità, nonostante le avversità, tenere la posizione senza perdere equilibrio ed umanità. Reggere ed avanzare. Questo forse è un alpinista.

Leonardo è un ragazzo di Montecchio Maggiore, nel vicentino: è uno che arrampica forte e parla chiaro, decisamente chiaro. Per qualche strano motivo ci siamo scritti qualche rapido messaggio in passato e da allora mi capita di curiosare tra le fotografie delle sue salite tra le montagne ad oriente. Recentemente ha pubblicato una fotografia accompagnata da una severa critica nei riguardi di nuove vie sportive che, “col mitragliatore a spit”, tagliano vecchie linee perdute di Gino Soldà, a cui si rivolge con evidente affetto. “Esporsi senza protezioni”, tanto sulla roccia quanto nella vita, sembra una curiosa caratteristica naturale degli appartenenti alle tribù “NoSpit”. Da fuori non ce ne si rende conto, ma osteggiare l’avanzata del trapano significa spesso circondarsi di inamicizie e pericoli, isolarsi. Forse è anche questo che spinge a cercare conforto nelle parole dei fantasmi del passato, coloro che spesso ci accompagnano nel silenzio dell’incertezza.    

Le parole di Leonardo mi hanno spinto a cercare in un vecchio libro. Un libro che, attraverso Ivan Guerini,  mi è stato regalato da Giovanni Rossi. Un libro del 1981, all’epoca venduto al nostalgico prezzo di 12.000 Lire: “Alpinismo perchè – Confidenze e opinioni di alpinisti a Marino Stenico”. Un libro davvero particolare: oltre 80 alpinisti hanno risposto a questa domanda, di ognuno di loro è riportata la risposta, una foto ed un autografo.

Credo che a Leonardo, se già non possiede questo libro, faranno certamente piacere le parole di Gino Soldà:

Ciò che ricordo, già dai primi contatti con la montagna, è la gioia. Questa sensazione è sempre stata la protagonista indiscussa nei miei contatti con la montagna. Naturalmente questo stato d’animo ha avuto forme e tensioni diverse. Ricordo che la prima volta che ho avuto occasione di vedere la roccia da vicino (le Piccole Dolomiti) è stato nella primavera del 1919, quando avevo 12 anni, prima non si poteva andare in montagna, perché era zona militare in periodo di guerra. Sono andato con i miei compagni di scuola. Avvicinarmi alle montagne e alle rocce, mi sembrava di assistere alla rappresentazione di uno spettacolo molto piacevole, che mi dava una grande gioia. Non riuscivo assolutamente a capire le distanze che mi dividevano alle cime delle montagne e dalle varie pareti. Sfuggendo all’attenzione del maestro e sopravanzando i miei compagni, io correvo a tutto fiato verso i costoni che mi separavano dalla cima più alta della montagna, credendo di poterla raggiungere in brevissimo tempo, invece raggiunto il crinale del costone, vedevo che dalla cima mi separava prima un profondo vallone, poi altri costoni e altri valloni, ciò mi eccitava, avrei voluto superarli tutti di corsa per arrivare proprio a contatto con la Cima, senza paraventi davanti, come se la Cima fosse una misteriosa Dea; ma non potevo allontanarmi troppo, non ero libero di sognare, dovevo fare ritorno tra i miei compagni di scuola. La mia passione per la montagna che era nata piuttosto focosa ed esigente, non mi permetteva di rimanere in quel gruppo a contemplarla da lontano. Vicino al Passo c’erano le pareti, sulle quali durante la guerra da pochi mesi terminata, avevano issato gli alpini scalette in legno, scalette con corde di ferro, corde passamano per le cenge, utili a raggiungere postazioni di mitragliatrici sulle pareti. Tutto ciò destava in noi scolari molta curiosità e alcuni, sempre di nascosto, ci siamo buttati verso questa insolita avventura, perché la consideravamo un gioco attraente. Io mi lanciavo su per le scalette sempre di corsa anche se erano malandate dal tempo. I miei compagni mi seguivano per un po’; ma poi mi lasciavano andare, perché pensavano che fosse troppo pericoloso, invece io continuavo, salivo sempre più in alto, questo gioco mi piaceva molto, il vuoto mi eccitava e mi dava tanta gioia, probabilmente rispetto ai miei compagni io non avevo più coraggio, ma più incoscienza. Anche i miei primi approcci con vere pareti, a 16 anni, ma non può essere una ragione sufficiente, per affrontare tutto ciò che la montagna riserva a chi vuole misurarsi con lei fino ai limiti estremi. Io penso che questo desiderio di lottare con la montagna affondi le radici nei tempi, quando l’uomo viveva con la natura, aveva bisogno della natura e aveva necessità di dominarla per poter sopravvivere. Nell’uomo non si è mai spento l’amore per la lotta, per il rischio. Difatti un rocciatore sale volentieri sulla vetta della montagna per la via facile, ma preferisce salire per la via difficile per provare l’emozione del rischio e per l’aspirazione innata di salire sempre più in alto e sempre sul più difficile. La meccanizzazione per salire la roccia, io l’ho seguita da quando andavo in parete prima con le scarpe chiodate, poi con le pantofole dalle suole di sacco e con la corda della “liscia” (del bucato) senza chiodi, poi con i chiodi per sicurezza, (mai per appoggio. Ci si slegava e si passava dentro la corda). Più tardi io mi son fatto dei pezzi di ferro a forma di coda di porco, che dovevano servire da moschettoni, ma salendo certe volte la corda restava dentro, e certe volte veniva fuori, la sicurezza era quindi sempre incerta. Seguirono scarpette di manchon (pedule) veri moschettoni, ammesso l’appoggio sui chiodi, in qualche raro caso quando le difficoltà erano forti e in seguito, per superare difficoltà maggiori, si è cominciato ad usare le due corde. L’uso delle due corde è stato forse il passo più decisivo verso la meccanizzazione delle attrezzature per arrampicare. Avere una sola corda per salire uno strapiombo, e averne due, la differenza è enorme, perché con due corde, su una si resta appesi trattenuti dal compagno e l’altra libera si inserisce comodamente nel chiodo superiore, mentre con una sola corda durante l’azione di mettere la corda sul chiodo superiore, il peso del corpo bisogna sostenerlo sullo strapiombo con una sola mano, il che normalmente è piuttosto difficile. In seguito per gli strapiombi sono nate le staffe; le corde di canapa da 11 mm. sono state sostituite da quelle di nylon o perlon, perché le corde di canapa quando erano bagnate, passavano con molta difficoltà e richiedevano sforzi per passare attraverso i moschettoni in salita e rendevano la discesa problematica, perché non era possibile farle scorrere attraverso l’anello, quando si era fatta una corda doppia, mentre le corde di fibre artificiali scorrono in qualsiasi condizione di tempo e assicurano il ritorno a casa, e ciò è molto confortante. Anche le amache danno tranquillità nell’affrontare delle salite per le quali si prevedono dei bivacchi, perché non è necessario trovare un sia pur piccolo ripiano per evitare di passare la notte in piedi o su lacci di corda, dato che anche in pieno strapiombo è sufficiente trovare da piantare un paio di chiodi per l’amaca, però che tengano, mettersi dentro e se non fa troppo freddo, addormentarsi e riposare quasi come in un letto. Io dalla arrampicata libera, solitaria, senza corda (che sarebbe stata utile per un eventuale ritorno), seguendo la corrente, sono arrivato alla salita in artificiale, con mezzi tecnici sufficienti per superare pareti molto difficili, l’uso delle due corde, chiodi un po’ variati, due staffe fatte di tre ‘‘asole’’ fatte con cordini annodati, pedule con la suola di manchon, fino al 1937, poi dopo la guerra, la tecnica si è ancora evoluta: corde di nylon, chiodi di svariate misure, cunei, staffe con gradini rigidi e lunghe talvolta alcuni metri, scarpe con chiodi di gomma, e per i bivacchi amache, duvet con piumino d’oca, cordino per issare dalla base viveri e indumenti. Anch’io ho voluto provare questi ultimi ritrovati e assieme a Lothar Brandler e Wulf Schàfler di Monaco sono andato a ripetere la via degli Scoiattoli, sulla parete Nord della Cima Ovest di Lavaredo, la via dei tetti. E una grande salita, occorre forza, abilità, abitudine al vuoto, resistenza. Avevo 53 anni. All’uscita del grande tetto, ero un po’ stanco e, nel punto più faticoso, per superarlo, ho approfittato di ciò che offrivano i mezzi moderni, un seggiolino. Al momento di lasciare il Rifugio Locatelli per andare all’attacco Pepi, il gestore del Rifugio osservando i miei capelli che biancheggiavano, pensò di venirmi in aiuto e mi disse: «Cino (come pronunciano loro) prendi questa tavoletta, ti servirà, l’ha adoperata René Desmaison quando ha fatto la sua via sulla Ovest». Io senza molta convinzione la presi e poi mi accorsi che Pepi aveva veramente ragione, mi è servita per rimanere fermo seduto all’attacco dello strapiombo anche ore, finche il capocordata Schàfler superava il suo tratto di corda e si metteva in sicurezza, e poi per timore di sprecare troppe energie all’uscita del tetto che è il tratto più faticoso, approfittando della tavoletta, aggeggio semplice ma molto efficace, ho superato questa grossa difficoltà, seduto sul seggiolino. Ora io sono dell’avviso che quando i mezzi ci sono, vengono usati, prima per estrema necessità e poi per abitudine. Pensando che dal semplice chiodo per sicurezza e non per appoggio, si è arrivati gradatamente ad un così alto grado di artificialità, da passare su pareti strapiombanti e molto lunghe, con un certo conforto e un certo limite di sicurezza, penso che non si dovrebbe oltrepassare questo limite, già troppo avanzato e non abbandonarsi alla tentazione di fare dei fori artificiali sulla roccia, pur di non tornare indietro o pur di procurarsi maggiore sicurezza. Le attrezzature per fare i buchi verrebbero sempre più perfezionate e a mio parere sarebbero la fine dell’alpinismo. Come ripeto, con i mezzi artificiali siamo già troppo avanti; ma c’è ancora possibilità di misurarsi con la montagna, soprattutto quando si parte da una base sicura; ma per superare le difficoltà ci si innalza su chiodi malsicuri, si prova pian piano ad appoggiare il peso sul chiodo per vedere se resiste, poi si carica tutto il peso sperando che il chiodo non si levi, altri chiodi malsicuri, finché con un sospiro di sollievo non si arrivi a piantare un buon chiodo sicuro. Altre volte invece il chiodo si leva di scatto, un voletto più o meno lungo, e se tutto va bene, un brusco arresto a penzoloni nel vuoto, oppure una botta sulle rocce sottostanti. Quando tutto è andato bene, si ritenta di nuovo e se non si può proprio passare, allora si rinuncia. A questo punto, se invece di rischiare o ritornare, ci mettiamo a fare dei buchi artificiali, nei primi tempi saranno guadagnati e sudati e forse anche malsicuri, come talvolta è già successo, ma in seguito col perfezionarsi di questa tecnica, sarebbe come portarsi dietro un ascensore. Io trovo che il maggior fascino è dato dall’arrampicata libera, effettuata su tratti verticali o leggermente strapiombanti, esposti, con piccoli appigli, che per superarli occorra buona forma, abilità, equilibrio, coraggio. Questo modo di salire più d’ogni altro dà l’emozione, la sensazione, la gioia di arrampicare. Ricordo che dopo due bivacchi in parete sulla Nord della Cima Ovest di Lavaredo, il terzo giorno, nella parte alta della salita, abbiamo trovato una bella parete verticale con buoni appigli e mi è uscita spontanea un’esclamazione: finalmente si arrampica! Questo sfogo uscito genuino dall’intimo dell’animo, dà la misura della differenza tra l’arrampicata artificiale e l’arrampicata libera.

Mezzo Corno di Fuoco

Mezzo Corno di Fuoco

«La prima arte che devono imparare quelli che aspirano al potere è di essere capaci di sopportare l’odio» (Seneca). Domani sarà il mio 42° compleanno, il 19° anniversario della prima salita di Cima-Asso in Pakistan, il 10° da quando ho aperto questo blog, il 13° da quanto è morta mia madre, il 2° con mia moglie, il primo con la piccola Andrea. «Io vengo in pace, ma sono sempre pronto alla guerra» Questo è Birillo, il nostromo dei Tassi del Moregallo. Ma in questi lunghi anni ho forse compreso cosa sia il potere? L’odio, la pace o la guerra? Quanta strada per imparare così poco… Ho osservato il potere in molte forme, ma niente possiede la possanza della natura: una forza così assoluta da travalicare il tempo e lo spazio in modi per noi mortali inimmaginabili. La Natura non conosce pace o guerra, vittoria o sconfitta, la natura conosce solo l’equilibrio, essa stessa è Equilibrio. Un’equilibrio che scorre identico tanto nel mondo delle formiche quanto nel reame dei giganti di granito. La Natura non conosce né amore né odio: sono stati gli uomini, nella loro mancanza di potere, nella loro mancanza di equilibrio, ad aver creato amore ed odio. «Io vengo in pace, ma sono sempre pronto alla guerra» Dopo tanti anni è ancora vero? Possiedi ancora la distaccata serenità della pace? Sei pronto ad abbandonarti alla furia irresponsabile della Guerra? Le mie gambe non funzionano più: la caviglia è rigida, i polpacci tormentati dai crampi. Zoppico, arranco, spesso ho persino le vertigini. “La mente è il motore, il resto è un optional”. Forse, ma mi sento come uno rottame vagante, un vecchio camion sfuggito alla demolizione. “La guerra più difficile per l’essere umano è la guerra contro se stesso. La storia è piena di uomini e di donne che hanno vinto il mondo ma che sono crollati di fronte a loro stessi e alle loro debolezze. La debolezza è ciò che porta l’ignoranza, la convenienza, il razzismo, l’omofobia, la disperazione, la crudeltà, la brutalità, tutte cose che non faranno altro che tenere una società incatenata al suolo e il piede inchiodato al pavimento.” In gioventù aspiravo all’invincibilità di Achille, ora spero di avvicinarmi alla dignità di Ettore. Mi hanno chiamato ignorante, maleducato, provocatore, invidioso. Quante volte è già successo? E lo hanno sempre fatto indignandosi davanti alla folla come vittime innocenti. Ciechi alle proprie colpe, si sono sempre nascosti dietro i giornali, dietro gli azzeccagarbugli, dietro ai codici che essi stessi avevano travisato. Quante volte è già successo? Perché l’equilibrio scorre attraverso un dedalo di possibilità fino a scovarti, perché ti insegue nonostante tu ti nasconda in isole sempre più piccole? Birillo, la risposta è nell’equilibrio stesso: tu non concederai mai a te stesso la possibilità di perdere, per questo sulla tua strada il destino pone solo chi ha l’arroganza di voler vincere sempre. Ora però, a quarantadue anni, cominci ad intravvedere quanto logorante sia questa tua natura patetica. Ma non ho cuore di essere troppo crudele con te perché, con onestà, ogni tuo “ultimatum”, per quanto ruvido, conteneva implicitamente ed esplicitamente un opportunità di pace, un cammino possibile al dialogo, alla mediazione. Non hai mai attaccato nessuno a tradimento, attraverso i letali sentieri delle ombre, senza lasciargli la possibilità di difendersi. Ma forse è questo che vuole l’equilibrio: non potrei considerare un nemico colui che, dritto davanti a me, pronto a tutto, mi spiegasse la forza delle proprie ragioni guardandomi negli occhi. Non potrei muovere guerra contro una persona tanto simile a me. “Io ho il consenso e faccio quello che voglio” ti ha risposto qualcuno tanto tempo fa. “Io ho gli avvocati gratis” più recentemente. Già, perché il modo più semplice con cui gli uomini possono ottenere un potere simile a quello della natura, valicare i limiti dell’individuo, è ingannando i propri simili. Gli esseri umani vivono di credenze. E le credenze possono essere manipolate. Il potere di manipolare le credenze diventa quindi l’unica cosa che conta. La magia della parola è anche questo, il suo terribile e spaventoso lato oscuro, capace di corrompere e travolgere. Ma anche in questa magia scorre l’equilibrio, perché la parola possiede il potere stesso della creazione. Ma un potere simile richiede sufficiente forza per essere usato con onestà di intenti. Io possiedo ancora forza sufficiente per inseguire la verità con la parola? Le cicatrici, la mia debolezza, le mie gambe rigide, faranno cadere la mia voce in quel brulicare di vermi che, rumoroso e convulso, corrompe la parola in brusio? Tre giri attorno alle mura delle mia città al traino della biga dell’eroe trionfante, un padre in lacrime a reclamare le spoglie per un triste funerale prima che la fortezza sia vinta. A modo suo anche Ettore ebbe la croce. Io, nemmeno inchiodato a testa in giù, smetterei di sbiascicare insulti ed agitarmi: no, non ho la stoffa del martire. “Non puoi vincere, non puoi perdere: Birillo, tu sai solo ciò che non puoi…”  Fottuta incolmabile ignoranza, morde più della fame. Beati coloro che sanno sempre tutto, che sono sempre nel giusto, che con altezzosa e sprezzante superbia ti guardano dall’alto. Forse è vero li invidio, ma non per le meschinità che mi attribuiscono. Li invidio perchè la loro ignoranza spesso li consola mentre la mia non smette mai di tormentarmi. 

Il sole è ormai alto. Mi sono attardato nei pensieri ma scrivere, lasciar scorrere l’equilibrio attraverso la parola, era ormai un esigenza fisica. A lungo mi sono trattenuto: era necessario lasciar cadere la spada, appoggiare la penna, ritrovarmi sulla via della mano vuota. Speriamo di avere ora sufficiente forza per seguire la giusta via tra caos ed ordine. Oggi pranzerò con mia moglie, giocherò con la piccola, poi aspetterò la frescura del pomeriggio per salire, zoppicando, ai Corni. Settimane fa un’anziano dell’Isola mi ha chiamato: “Birillo, non ci sono più gli spit!!”. La notizia mi ha colto impreparato. “Sei sicuro?” “Credo di sì, ma devi andare tu a controllare. Io non potevo salire a vedere quando li hanno messi. Io, dove mi hanno detto che erano, ho visto solo buchi vuoti…”. Questo accadeva due settimane fa, questo dovrebbe darvi l’idea di quanto deboli siano le mie gambe: in altri tempi sarebbero passate solo poche ore. Curiosamente, in modo specularmente opposto a quanto accaduto lo scorso inverno, salgo di nuovo ai Corni per controllare una voce.  “Io porto la guerra, ma sono sempre pronto alla pace”. Vedremo cosa accadrà…

Davide “Birillo” Valsecchi

La Falesia che non c’è

La Falesia che non c’è

La sezione di Lecco “Riccardo Cassin” del Club Alpino Italiano, fondata il 30 giugno 1874, è certamente una delle più importanti a livello nazionale. E’ quindi facile comprendere come il loro Notiziario Sezionale, a differenza di quello delle sezioni più piccole, non sia un “ciclostile” in bianco e nero ma una vera e propria pubblicazione con cadenza quadrimestrale. Ogni “numero”, oltre alle comunicazioni della sezione, raccoglie articoli e racconti, sia contemporanei che storici, arricchiti da immagini e fotografie. Io, purtroppo, non ne possiedo nemmeno una copia cartacea ma, grazie alla potenza del web, è possibile accedere all’archivio on line dove, con qualche mese di differita, ogni numero viene ripubblicato in formato digitale. Qui potete trovare l’archivio on line: Archivio Notiziario Cai Lecco.  

L’ultimo notiziario reso ora disponibile sul web risale a Maggio 2018, sulla sua copertina fa bella mostra di sè il “Bivacco Ferrario”, l’astronave della Grignetta, ed all’interno della rivista è possibile rileggere la storia della sua costruzione.    

Tra quelle pagine, inaspettatamente, ha trovato spazio anche un articolo dedicato ai Corni di Canzo. Una riflessione, ponderata e precisa, su qualcosa che ha decisamente agitato gli animi alla fine del 2017. Confesso che per me, tutt’oggi, è ancora impossibile affrontare l’argomento con moderazione: la mia indole mi impedisce di soprassedere a certe cose. Tuttavia, visto che il mio pensiero è ormai ampiamente noto, ho pensato che fosse interessante riproporre qui, su questo piccolo blog che in “attesa” si è fatto silente, il pensiero altrui.   

Link Originale: Notiziario Cai Lecco 01/2018 

Riflessioni sulla nuova iniziativa dei Ragni al Corno di Canzo Occidentale
(Sergio Poli)

Negli ultimi mesi del 2017 sono apparsi sulla stampa locale diversi articoli che parlavano di una “nuova falesia sui Corni di Canzo” in via di realizzazione da parte dei Ragni di Lecco. La falesia si sarebbe chiamata “K90”, in onore dei 90 anni di fondazione dell’industria lecchese Kapriol, leader nella produzione e commercializzazione di attrezzature e abbigliamento da lavoro, che sponsorizza l’attività di alcuni Ragni.

Sembra impossibile che ci siano pareti, o almeno porzioni di esse, ancora non vergini sulle montagne attorno a Lecco, dopo decenni di sistematiche esplorazioni di ogni struttura rocciosa e di apertura di vie sempre più difficili, in luoghi dove un tempo nemmeno si pensava di poter passare. Eppure, ogni tanto salta fuori qualche sorpresa, come questa.

Infatti, sorpresa è stata: proprio sulla conosciutissima parete sud del Corno Occidentale, una struttura in magnifica dolomia, già attraversata dalla “Ferrata del Venticinquennale”, i Ragni hanno visto la possibilità di realizzare una serie di vie d’arrampicata di grande difficoltà, che nell’insieme avrebbero formato una falesia di tutto rispetto anche in un territorio già quasi saturo come il nostro.

I Corni di Canzo rappresentano di per sé un pezzo di storia dell’alpinismo lecchese, e più propriamente valmadrerese: sulle pareti dei Tre Corni – che in realtà sono quattro, comprendendo a pieno titolo il Corno Ratt – sono state aperte decine di vie di tutte le difficoltà, sia classiche che moderne e sportive, e quel gruppo montuoso ancor oggi è un banco di prova di tutto rispetto per chi vuole confrontarsi con le proprie capacità arrampicatorie. Basti sfogliare il bel volume “L’Isola senza nome’ uscito nel 2005 a cura delle Sezioni CAI di Oggiono e Valmadrera, ripubblicato e aggiornato nel 2015 con le nuove vie, per rendersene conto.

Dicevamo anche della Via Ferrata del Venticinquennale: realizzata dal CAI Canzo nel 1972 sul Corno Occidentale per celebrare i 25 anni della fondazione della locale sezione, viene percorsa da centinaia di appassionati ogni settimana e rappresenta una delle vie ferrate più frequentate di Lombardia. La ferrata è stata quasi completamente ridisegnata nel 2008: il tracciato originale percorreva, nel tratto intermedio, l’ampio zoccolo che taglia orizzontalmente il Corno, mentre nella nuova versione compie un lungo traverso in piena parete, aggiungendo notevole difficoltà tecnica, e interesse alpinistico, all’itinerario.

Fin qui la storia. Tornando alla “falesia”, le cronache raccontano di una scoperta quasi casuale di quel settore di parete, grazie al rinvenimento di chiodi lasciati da qualcuno durante precedenti tentativi di apertura delle vie. Ma questo è alla base del gioco dell’arrampicata: da sempre, come diceva qualcuno, “le montagne sono lì”, è l’uomo che le vede con occhi diversi, non più come grossi sassi inerti ma come mondi inesplorati da conoscere e sui quali provare a divertirsi. Logico quindi che qualcuno abbia pensato di salirci senza farsi troppe domande, tanto più che su quel sasso in particolare c’era già una via ferrata molto conosciuta.

E così che ha sempre funzionato l’arrampicata in ambiente: si trova una bella parete e ci si prova a salire, esprimendo così la propria libertà creativa. Semplice.

Detto fatto, i Ragni hanno iniziato ad attrezzare una via lungo la parete, proprio sopra la via ferrata, come primo itinerario della futura falesia, che stando ai programmi avrebbe dovuto arrivare a 15-17 tiri in totale, di difficoltà crescente. Fin qui, niente di diverso dal solito, si è sempre fatto così.

Invece, qualcosa di diverso c’è: ci sono delle tutele che riguardano l’interesse di tutti.

Anzitutto, c’è una considerazione da fare sulla proprietà: un conto è aprire una via come libera espressione della propria libertà, un “atto unico” conseguenza di un momento di creatività, un altro è pianificare e realizzare una serie di vie, magari attrezzandole dall’alto, creando una struttura permanente destinata ad un uso collettivo. E’ la stessa differenza che c’è fra salire un giorno su un albero e realizzare nel bosco un jungle-rider park. In questo secondo caso, è difficile pensare di non dover chiedere il permesso al proprietario dell’albero. Specialmente se l’albero, pardon, la parete, come tutto il versante sud del Corno occidentale, è proprietà di Regione Lombardia, cioè di tutti noi.

Altra considerazione: l’intera foresta regionale, compresa quindi la parete del Corno, appartiene alla rete europea Natura 2000 in quanto ZPS – Zona di Protezione Speciale – “Triangolo Lariano”, cioè è tutelata come zona importante per l’avifauna. Nella vicina foresta e sulle pareti sono infatti stati segnalati falco pecchiaiolo e pellegrino, nibbio bruno, allocco e picchio muraiolo, oltre al rarissimo succiacapre. E sicuramente la frequentazione della parete da parte degli alpinisti, compresi i fruitori della ferrata, può dar fastidio ai rapaci e agli altri uccelli che vivono nell’area. Gli alpinisti sanno che su un’altra parete della zona, quella del Buco del Piombo sopra Erba, l’arrampicata viene vietata nel periodo di nidificazione del falco pellegrino.

Ancora: le rocce calcaree ospitano un tipo di vegetazione particolare, ricca di specie rare ed endemiche quali la peonia, la primula di Lombardia, l’erba regina, che nel loro insieme costituiscono un habitat piuttosto delicato e raro, che va giustamente tutelato e protetto. E ancora una volta, il ripetuto passaggio di persone in ambienti così fragili può rappresentare una seria minaccia per la sopravvivenza di queste specie.

Infine, esiste un imprescindibile tutela, quella della sicurezza e incolumità delle persone che frequentano la montagna: le vie in progetto dovrebbero tutte attraversare – e letteralmente incrociano – l’esistente traverso della via ferrata, creando potenziale pericolo per caduta di sassi, oggetti e magari persone che volano sulla testa dei passanti, ma soprattutto inediti grovigli fra corde di alpinisti e imbraghi di ferratisti, con conseguenze facili da immaginare. Una cosa tecnicamente improponibile, mai vista finora su nessuna parete, e vista come molto negativa dalle scuole di arrampicata delle sezioni CAI della zona.

Tutte le considerazioni esposte sopra valgono anche per la ferrata, che anzi porta in parete molte più persone all’anno rispetto alle poche decine in grado di salire le difficilissime vie d’arrampicata. Ma la ferrata c’è dal 1972, esisteva già da trent’anni quando la foresta venne dichiarata ZPS nei primi anni 2000, quindi non si può pensare di chiuderla: è arrivata prima della tutela. AI limite, si potrebbe pensare ad una sua regolamentazione, almeno nel periodo di nidificazione – tipo Buco del Piombo – non certo ad una chiusura. Sembra corretto dunque non aggiungere disturbo a disturbo, evitando di realizzare una nuova falesia che fatalmente aumenterebbe la frequentazione dell’area.

Anche il CAI nazionale in diversi documenti (dal Bidecalogo in poi) scoraggia la proliferazione delle vie ferrate, imponendo un’attenta manutenzione di quelle già esistenti, sia in termini di sicurezza che di inserimento ambientale. Insomma, le ferrate sono tollerate, ma non certo caldeggiate. E non si può che essere d’accordo con questa visione: forse le ferrate hanno fatto il loro tempo.

La vicenda della ipotizzata falesia sul Corno offre lo spunto per una riflessione moderna sul rapporto uomo / montagna, alla luce di un nuovo modo di vedere il territorio montano: non più esclusivo terreno di gioco per pochi, ma prezioso angolo di tutela della natura per tutti. Ci auguriamo che i Ragni di Lecco, con il grande prestigio e autorità di cui sono eredi, siano i primi a rendersene conto.

[Tramonto d’inverno nella suggestiva solitudine serale del Corno Occidentale (2013). La famosa falesia avrebbe dovuto sorgere sulla piccola parete sotto questa pianta. Non serve forare la roccia se davvero si desidera arrampicare su quella parete. Serve pazienza, amore e rispetto. La bellezza non esige rumore. Davide Birillo Valsecchi

Charlie nel vento

Charlie nel vento

La situazione è surreale: ho bevuto una fila di birre a stomaco vuoto e sono fermo ad un semaforo, aggrappato al volante della mia scassata subaru. La mezza notte è appena passata ed un fitta pioggia distorce e confonde luci ed ombre della città. Davanti a me, immobile nella pioggia, una minigonna rossa fuoco e due infinite gambe nude reggono orgogliose e salde un motorino nelle intemperie. Riccioli biondi dal casco scivolano sulle spalle accompagnando lo scorrere dell’acquazzone. Piego la testa di lato e per un secondo mi scuoto dai miei pensieri: “Figa. Figa bagnata. Letteralmente…”. Poi il rosso sfugge ed il verde brilla nei riflessi. L’amazzone, con caparbia tenacia, riparte per la sua strada ed io faccio altrettanto lasciando che la mia mente si disperda ancora: giorni fa ero in palestra… sì, vado in palestra, e lo faccio per tre motivi: primo, sono un vecchio spompato; secondo, è letteralmente davanti all’ufficio in cui passo 12 ore al giorno; terzo la gestisce un veterano del piolet traction con cui ci siamo subito intesi: “Negli ultimi 50 anni ho visto tutte le ultime generazioni di arrampicatori. Oggi sono forti, professionisti, campioni. Ma se prendi uno della vecchia scuola, tipo un Oppio, capisci subito che erano di un altra pasta”. Bhe… ero in palestra ed all’improvviso un ragazzo mi si avvicina: “Tu sei Birillo?”. Alle pareti ci sono le foto di Cassin e quella semplice domanda poteva essere l’inizio di un significativo guaio. “Dipende. Chi lo chiede?” “Ci siamo incontrati nel 2015 ai Corni per il simposio di arrampicata. Ci hai fatto le foto mentre arrampicavamo nel Diedro dell’Oro al Corno Orientale”. Ho sorriso: 100% friendly per fortuna. Abbiamo chiacchierato del più e del meno, del Moregallo e dell’arrampicata. Poi è apparsa un’increspatura, un’ombra di tristezza quasi tattile: “Non so se lo sai, ma giovedì a Calolziocorte fanno una serata per ricordare Giovanni. Era un mio amico. E’ salito sul Cerro Torre ma è stato travolto da una valanga in Grignetta”. No, non ero pronto. Non ero pronto per una cosa del genere. Certo che sapevo della serata, certo che conosco la storia di Charlie. Quello che non sapevo, per tanti motivi, era se ci sarei andato. Al suo funerale ero rimasto in disparte, lontano da tutti, non ero riuscito a parlare con nessuno. Senza rendermene conto, senza una volontà consapevole, allungo la mano e stringo la sua in un’inaspettato gesto di cordoglio. Sono finalmente le mie condoglianze? Così continuo: “Se vuoi possiamo trovarci qui in palestra ed andarci insieme…”. E così era successo, così mi ero ritrovato a Calolziocorte, in una sala che iniziava a gremirsi. Eravamo in anticipo, ma ci siamo attardati al bar chiacchierando dietro due birrette mentre ogni posto a sedere viene occupato. Il Presidente del Cai e “Rochi” danno inizio alla serata: sul palco salgono i protagonisti del presente e del passato. Le luci si spengono e scorre il video-racconto della spedizione. Sono in piedi accanto ad una delle porte laterali della sala. Nel video il vento patagonico scuote tende ed alpinisti mentre una brezza sempre più intensa scende alle mie spalla delle montagne. “Climbing in the wind”. Il vento aumenta e la tenda del teatro si gonfia come una vela avvolgendomi la schiena: spinge, si scuote, mi agita. Il vento racconta la storia sullo schermo, fino al suo tragico epilogo: Charlie nel vento. Allargo le braccia: mi immergo nel momento, mi abbandono al momento. Il vento ora soffia, insorge, ruggisce intenso mentre al buio brilla invisibile un inspiegabile sorriso sul mio viso. Poi, dal nulla, una donna si avvicina: “Possiamo chiudere la porta?”. La guardo sorpreso mentre la parafrasi dei miei pensieri scorre nei miei occhi: “Che cazzo vieni a vedere la Patagonia se ti da fastidio il vento?”. Ma nella sala non è la sola che inizia ad agitarsi. Non mi oppongo, faccio semplicemente un passo indietro ed esco sul portico, all’esterno dell’auditorium, mentre chiudono la porta a vetri davanti a me. Il vento rinforza e trascina con sé i lampi e la pioggia. Le porte si chiudono mentre la gente, assiepata sotto il portico, fugge e si accalca nella sala. All’improvviso, nel buio tra le colonne, ci ritroviamo soli in due: io ed il giovane compagno di cordata di Charlie. Ci salutiamo. Ci siamo già scritti in passato, ma non abbiamo mai avuto occasione di affrontare la questione di persona. Per un istante restiamo in silenzio, nessuno dei due è bravo in queste cose. Poi torna alla mia mente l’ultima chiacchierata via internet con Giovanni. “Non ci sono più gli alpinisti di una volta…” mi aveva scritto. “…vuol dire che ne costruiremo di nuovi” gli avevo risposto con la mia solita goliardica e complice arroganza. Ci siamo salutati scherzando. Davanti a me ora ho un giovane ragazzo, un giovane uomo, a cui la montagna ha sottratto un prezioso amico. “Hey, tienimi il posto che torno subito!” Mi fiondo al bar e riappaio con un paio di birre. In un improbabile solitudine osserviamo le immagini attraverso la porta a vetri: ora possiamo parlare, ora possiamo brindare, ora possiamo lasciar scorrere. “…entrare nei Gamma era il nostro sogno, purtroppo solo uno di noi due c’è riuscito”. La sua tristezza è una piccola cupa realtà in un momento che dovrebbe essere di gioia. Tiro un fiato di birra e con la bottiglia indico sghignazzando la Patagonia che brilla nella sala: “Amico mio, tu avrai anche preso la patacca… ma lui si è preso il Torre: devi così darti da fare sei vuoi eguagliarlo!”. Anche lui ora sorride, orgoglioso per l’impresa compiuta dal suo amico. Continuiamo a chiacchierare, sempre più sciolti. Nella mia testa scorrono però altri nomi, altri volti. Ancora una volta sono sorpreso dalla straordinaria forza dei Gamma: grandi talenti, grandi imprese, grandi perdite. Prendere così tanti colpi e restare saldi, continuare e continuare nel modo più difficile ma allo stesso tempo più semplice, genuino. Un grande scuola. La pioggia ora si placa un po’ ed il caldo all’interno della sala riapre le porte: torniamo al mondo in un clamore di applausi. Un minuto di silenzio in ricordo di Giovanni e qualche domanda dal pubblico. Qualcuno si alza e chiede come può un genitore, davanti alla tragedia, incoraggiare il proprio figlio all’alpinismo. Non so perchè abbia fatto una simile domanda, non mi è chiaro se gli interessi la risposta o semplicemente alzarsi in piedi. Rochi ed il Panz abbozzano qualcosa senza troppa convinzione. La domanda forse appare sciocca, ma è importante la ricerca che scatena, specie se hai una bimba di tre mesi, specie se è la figlia del nostromo. “Tutti dobbiamo morire: le montagne, per chi impara ad ascoltare, insegnano a vivere con dignità”. Charlie era nel soccorso alpino, Charlie è salito in cima al “Paracarro”, Charlie è stato tradito dalla “Sentinella”. Credo che Charlie, nel vento, abbia già iniziato a “costruire” i nuovi alpinisti.

Butta un occhio su noi scarasoni…

Davide “Birillo” Valsecchi

Corni Yosemite Style

Corni Yosemite Style

A Finale Ligure c’è un bel po’ di maretta recentemente: numerose associazioni locali hanno dato vita ad una sentita protesta contro l’apertura di nuove vie di arrampicata sportiva. In un’area dove esistono già oltre 3000 vie si contesta l’uso eccessivo del trapano e la volontà, ormai dichiarata, di trasformare tutta l’area in un “Parco Outdoor”, in un’attrazione turistica sportiva dotata di parcheggi interrati ed amenità simili. Onestamente non sono mai stato a Finale e non mi esprimerò su qualcosa che non conosco, specie laddove non sono indigeno.

Tuttavia la vicenda di Finale, per alcuni aspetti, ricorda quanto accaduto ai Corni di Canzo alla fine del 2017. Un improvviso ed invasivo “progetto” di chiodatura sportiva sul Corno Occidentale: quindici nuove vie, annunciate sui giornali, per un’estemporanea falesia realizzata al fine di celebrare l’anniversario di uno sponsor. Anche nel nostro caso le Associazioni locali si sono riunite, si sono confrontate ed hanno espresso nero su bianco le proprie osservazioni contrarie. Le autorità che presidiano la ZPS dei Corni (Zona Protezione Speciale), anche a seguito delle osservazioni raccolte, hanno bocciato il progetto: oggi non resta che decidere come comportarsi con le vie già realizzate prima che esso fosse reso pubblico. In particolare quelle linee che tagliano pericolosamente il traverso della ferrata del Venticinquennale. 

Incontrarsi è stata sopratutto l’occasione per valutare l’approccio migliore per l’Isola Senza Nome, per garantire la libertà di arrampicare nel rispetto della tradizione e dell’ambiente.  Sul Bidecalogo del CAI, ad esempio, è riportato chiaramente un principio di condotta per la realizzazione di nuove vie: “La costruzione artificiale di itinerari di arrampicata mediante perforazione della roccia sarà limitata alle pareti che già si sono prestate naturalmente, in passato, all’esercizio dell’arrampicata sportiva perché situate in prossimità di punti d’appoggio, pur appartenendo a strutture della cresta alpina.[…] L’apertura di nuovi itinerari di scalata dovrà basarsi sulla struttura naturale della montagna e sul rispetto delle vie logiche di salita. L’uso dei mezzi artificiali che comportano la perforazione della roccia dovrà essere evitato o limitato a casi straordinari, simili a quelli in cui essi sono stati tradizionalmente tollerati, ossia ai casi in cui essi consentono il superamento di brevissime interruzioni della linea di salita naturale, e ai casi di emergenza.” Un discorso sensato e che per questo ha portato anche la Commissione Centrale del CAI per la Tutela Ambiente Montano (TAM) ad esprimersi sulla questione dei Corni.

Da molti il Bidecalogo è considerato un’anacronistica presa di posizione dei cosiddetti “Caiani”, tuttavia queste persone dovrebbero visionare il regolamento dello Yosemite Park: uno dei templi dell’arrampicata nella terra della libertà.

Yosemite, politica di chiodatura (bolt) e nuove vie (Link): «le perforazioni per il posizionamento di protezioni per l’arrampicata sono permesse in Yosemite, purché siano fatte a mano. Perforazioni realizzate con il trapano sono proibite. Il National Park Service non ispeziona, non effettua manutenzione o riparazioni alle protezioni o alle altre attrezzature da arrampicata all’interno del Parco. Al di là di questa semplice regola, c’è una forte etica nella comunità in Yosemite. Se hai intenzione di effettuare perforazioni per una nuova via o di alterarne una esistente, parla con gli scalatori locali che hanno familiarità con la storia e le tradizioni di percorsi in Yosemite prima di alterare definitivamente la parete rocciosa. Nessuno vuole vedere la roccia danneggiata da protezioni posizionate e tagliate. Il “Giardinaggio” (il nome dato alla rimozione della vita vegetale nelle fessure) non è permesso in Yosemite. Molti alpinisti rimuovono occasionalmente erba o foglie per posizionare una protezione o trovare una presa, ma questo non è nulla in confronto al danno grave che si provoca creando una nuova via. Il danno causato dalla creazione di una nuova via è di gran lunga superiore a quello causato da ogni ripetizione successiva. Se stai pensando di crearne una nuova, chiediti: “Questa via vale il danno che provocherà?” “È una linea classica che gli altri apprezzeranno arrampicare, oppure sono semplicemente interessato a realizzare la mia via?” “Cosa penseranno gli scalatori da qui a cinquant’anni di questa via o di questo fittone?” “Ci sono già migliaia di percorsi in Yosemite, forse conviene provarne qualcuno prima di lasciare un nuovo segno nella natura selvaggia dello Yosemite”. Le ragioni: la maggior parte delle aree di arrampicata dello Yosemite si trovano in aree desolate e in queste aree non sono ammessi oggetti motorizzati, inclusi i trapani. Oltre a questo mandato del Congresso, il parco ha interesse a limitare gli impatti dall’arrampicata consentendo agli scalatori di godersi il parco. La regola risultante consente agli scalatori l’insolito privilegio di modificare permanentemente le scogliere di granito di Yosemite aggiungendo “spit” nel luogo prescelto, ma limita intrinsecamente il numero di tali “spit” richiedendo che vengano forati a mano.»

Idee semplici, ma efficaci: “SenzaTrapano”. L’Isola Senza Nome, negli ultimi dieci anni, ha rimarcato la propria natura consolidando una consuetudine che l’ha sempre caratterizzata e che oggi è ampiamente accettata e rispettata. L’ultima via con protezioni fisse realizzata sul Corno Occidentale è stata aperta rigorosamente dal basso, con spit a mano e realizzata da due veterani, all’epoca sessantenni, appesi in parete sui cliff e staffe. Tutte le altre vie recenti sono state aperte, sempre dal basso, senza lasciare traccia permanente.

Credo sia una piccola grande soddisfazione sapere che sull’Isola vigano le stesse regole etiche della Yosemite Valley e che allo stesso modo esista una comunità locale, agguerrita ed indomita, capace di esporsi a tutela del proprio territorio.

Purtroppo questa consapevolezza non si è ancora diffusa in tutto Triangolo Lariano. Oggi, approfittando della giornata piovosa, ho portato i Tassi a vedere la via “Molteni Valsecchi” ed il “Diedro Scarabelli” alla muraglia del Buco del Piombo. Nella Yosemite Valley, da regolamento, le corde fisse sono da considerarsi “abbandonate” se lasciate incustodite per più di 24 ore, i Ranger sono autorizzati a rimuoverle e sequestrarle. Nel Parco della Valle Bova c’è ormai un fiorire di ghirlande e piastrine: “cantieri” che saranno forse un giorno “liberati”. Da quando l’accesso al pubblico è stato interdetto anche la grande volta del Buco del Piombo, carica di storia e valore naturalistico, ancora ufficialmente inaccessibile persino agli speleo, è ormai sempre più tempestata di piastrine e rinvii appesi: tutto questo mentre le grandi classiche sono sempre più abbandonate a se stesse. 

Il diffondersi di una cultura richiede tempo mentre il trapano a batteria consuma spazi con ritmi incredibilmente incalzanti, spesso in modo irreversibile. Tuttavia possiamo e dobbiamo vigilare esprimendo, a volte anche con una punta di coraggio, il giusto disappunto affinché attecchisca un’etica moderna nell’utilizzo delle risorse naturali del nostro territorio.

Davide “Birillo” Valsecchi

Most of Yosemite’s climbing areas are in designated Wilderness and must remain “without permanent improvements or human habitation… with the imprint of man’s work substantially unnoticeable.” Wilderness, and climbing in particular, is not intended to be convenient or easy (ironically that’s why many are drawn to it). Please do your part to maintain Yosemite’s wildness. In 2001 volunteers and rangers removed over four thousand feet of trash rope from Yosemite’s walls, not including a few thousand feet of junk rope from the Heart Ledge rappels by conscientious climbers.

Storm Trooper

Storm Trooper

So far and so alone a million light years away, Storm Trooper back up from my door. I got my blaster set and I’m ready to start a minor war: this won’t be the day you were hoping for, so just walk away! Walk away! You want a battle? Well don’t look very far. You want to fight somebody? Come fight the superstar. Better run now cause your done, now cause your standing in a bad mans town. Boy, time to get back to my daily routine, have a beer at a bar on Tattooine.

Per non dimenticare:

Wake up

Wake up

Yeah!! Wake up, you son of a bitch! I wanna know who your with and why do you roll in and out at like six in the morning? I say wake up! My love of mine, why do you spend your time with these guys who don’t love you the way that I do? This time things gonna be changin’, start a new rearrangin’. I got a new girl, I’m seein’ just like the last one, jus’ like the first one. Live for today, not tomorrow: Keep movin’ away from sorrow, ain’t one to beg or borrow… Phone call! No mistakin’: She starts her head shakin’. Eyes open, now I’m awake and I’m gonna take it day by day now. Gettin’ high. Good times rollin’ on the side. Cities showin’ off somewhere new to be goin’ …so keep movin’!!

 

Wiki: IsolaSenzaNome.it

Wiki: IsolaSenzaNome.it

Cima-Asso.it, questo sgangherato blog che è diventato il diario dei Tassi del Moregallo, compie ora 10 anni di vita. Dieci lunghi anni, più di 1700 articoli pubblicati: racconti che spaziano in quattro continenti per aggrapparsi poi alle selvagge pendici dell’Isola Senza Nome. Nel 2008 i Social Network quasi non esistevano, i cellulari non avevano una connessione ad internet e la gente si scambiava ancora SMS a pagamento. Aprire un blog, pubblicare racconti con un telefono satellitare ed un pannello solare quando nelle case entravano le prime ADSL, è stata  un’avventura nell’avventura. Non esistevano “Influencer”, “Youtuber”, “Follower” o “Marchettari”: Internet era ancora una frontiera libera, “scrivere” significava lanciare un messaggio in una bottiglia ed affidarsi alle onde. Oggi le barriere sono cadute, i limiti e le difficoltà sono svaniti, il “canale” si è riempito di rumore, di sciocchi che strillano compiacendo ego e tornaconto: gli unici a prestare davvero ascolto sono i “robot” che ci spiano e profilano a scopo di lucro. La ragnatela, che brillava come un sogno nella rugiada del mattino, ha mostrato ora il volto del ragno famelico. Sono passati dieci anni, tutto è cambiato, anche io: ma non nei sogni nè negli ideali. Non mi interessa inseguire un pubblico, dare la caccia ai “like”, procacciarmi contatti e aderenze: tutto questo mi disgusta. Una parte di me è stanca e stufa, non vuole quasi più scrivere. Ma un’altra ancora crede nel sogno delle origini: un giorno, in un futuro lontano, le storie di “cima” sopravviveranno come graffiti analogici sulle pareti di un bunker post-atomico popolato da ribelli sopravvissuti. Quello che raccontiamo oggi vivrà nel futuro, nel cuore del “domani-domani”. Tutto il resto non importa, basta questo sogno per continuare. Così, più o meno una decina di mesi fa, più o meno a Luglio, ho deciso che era tempo di fare “ordine”, di dare forma e strutture a dieci anni di esplorazione, di rispolverare uno dei sogni più potenti che nei primi anni 2000 scuotevano Internet: la wikipedia. Già, la grande enciclopedia libera, la piccola rivoluzione di Jimmy “Jimbo” Wales che ha cambiato il mondo e che oggi diamo troppo spesso per scontata. Così nel cuore di “Cima”, pasticciando con il codice e la valanga di fotografie del mio HardDisk, ho tirato in piedi una piccola enciclopedia collaborativa interamente dedicata all’Isola Senza Nome. Uno spin-off della grande enciclopedia universale che sappia raccogliere ed organizzare la “conoscenza” del nostro territorio. Sulle pareti del Bunker ora tutte le tribù potranno scrivere e narrare la propria storia. Dopo dieci anni pianto un nuovo seme, con la speranza che anche altri mi aiuteranno a farlo diventare l’albero del mondo, del nostro mondo.

“L’Isola è la nostra casa, la pianura ed i laghi segnano i suoi confini. Ragazzo guarda all’orizzonte, ad oriente verso il grigio abbagliante delle Grigne, ad occidente verso la splendente muraglia bianca del Monte Rosa. A sud le punte del Resegone ed il miraggio delle Città. A Nord, oltre il culmine del Lario, la grandezza delle Alpi. Noi non siamo circondati, no, noi siamo al centro di ogni cosa. Qui, sull’Isola, viviamo in un mondo speciale, intriso di mistero e avventura. Ed ora, ragazzo, vieni con me. C’è ancora molto da fare: dobbiamo riunire le Tribù, fondare una Nazione…” – Il viaggio del Nostromo

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Davide “Birillo” Valsecchi

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