Bergamo non cede

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Frattura multipla, ma composta, dell’alluce con lacerazioni da scoppio. Sabato la nostra cordata è rimasta vittima di un piccolo ma importante incidente: fortunatamente le conseguenze non sono state troppo gravi e questo, per me, è il momento del debrifing. Il momento di capire cosa è andato storto e cosa è stato fatto per raddrizzare la situazione.

Io, Guero e Bruna volevamo festeggiare la primavera arrampicando un po’ insieme, per questo abbiamo scelto il Pizzo Molteni, la struttura rocciosa alla sinistra del Pizzo Boga. La natura a gradoni di quella struttura verticale offre la possibilità di frazionare la continuità dell’arrampicata facendo sosta su piccoli terrazzi. D’altro canto la natura di quella roccia, a volte splendidamente compatta, a volte spaventosamente instabile, rende la progressione tutt’altro che banale anche, ma forse soprattutto, dove la difficoltà sembrano apparentemente basse.

Abbiamo cominciato ad esplorare una zona vicina a quella in cui con Mattia, tempo fa, avevamo aperto un interessante monotiro (probabilmente sulla stessa linea di “Millenium” dei Condor di Don Agostino). Conoscevo la zona e non mi impensieriva l’idea di continuare ad esplorare. I primi due tiri, protetti a fettucce e friend, erano abbastanza buoni sebbene la qualità della roccia richiedesse una lettura che forse l’esperienza di Bruna non permetteva.

Ivan tirava davanti, io e Bruna seguivamo ognuno sulla propria mezza. Io disarmavo e seguivo da vicino Bruna indicandole dove andare e cosa evitare. A metà del primo tiro Bruna si schiaccia un dito della mano tirando una presa: niente di grave, un graffio che avvolgo con un giro di nastro adesivo.

Ivan risale un dietro, dall’alto butta giù qualche sasso instabile ma la nostra sosta è fuori linea e sicura. Mentre faccio sicura ad Ivan, Bruna si siede a prendere il sole ad occhi chiusi. Non mi piace che si distragga ma non posso essere sempre un brontolone petulante. Bruna è molto forte, forse più forte di me, ma la poca esperienza forse non le permette di comprendere la vera natura del “gioco”. Non siamo in una falesia “addomesticata”, stiamo arrampicando nel senso più profondo ed autentico del termine. Ci si può concedere momenti di distensione, di gioia, ma non si può abbassare la guardia: smettere, nel senso buono, di avere “paura”. Bruna non sembra essere in giornata, non sembra avere la testa per affrontare questa roccia. Forse è stanca, la sua mente non ha lo spazio o la libertà necessaria. Al prossimo tiro voglio parlare con Ivan: ripiegare verso le vie più battute del pizzo Boga.

Quando chiama la sosta ci prepariamo a ripartire. Ivan è molto più in alto, fuori dalla nostra vista, riusciamo a sentirci ma è molto distante. Bruna traversa e risale un muro di tre/quattro metri infilandosi in un diedro. Non vedo particolari difficoltà, smonto la sosta e mi appresto a partire. Poi tutto inizia a muoversi troppo in fretta. Due grossi massi appaiono e fuoriescono da dentro il diedro. Bruna si sposta di lato mentre il rumore di roccia spaventosamente in movimento irrompe sulla scena. Poi, mentre i massi precipitano nel vuoto per trenta metri, un’istante di irreale silenzio. Ma quei giganti silenziosi tornano a ruggire quando il loro schianto si fa fragoroso ed appocalittico piombando sugli alberi e sulla roccia sottostante.

Scatto e di slancio risalgo il primo muro quasi senza rendermene conto. “Sono qui!” Parlo a Bruna con il solo scopo per farle sentire la mia voce, non credo possa davvero ascoltare. Come uno scanner analizzo tutto quello che vedo: squadro le gambe, le braccia, il modo in cui si piega. Non vedo ferite ma c’è rabbia e dolore. Prima che possa intervenire Bruna slaccia le stringhe e toglie la scarpetta. L’alluce sembra aver preso una martellata ed inizia a coprirsi di sangue. La scarpetta era intatta, lo schiacciamento aveva creato le lacerazioni da cui perdeva sangue: la pelle era letteralmente scoppiata attraverso due grossi squarci.  Quei due massi erano crollati davanti a lei non appena li aveva toccati: era riuscita a spostarsi evitando che la travolgessero ma uno le aveva centrato la punta del piede prima di rotolare oltre.

“Merda!” lo penso ma non lo dico: devo darmi da fare. Le tolgo il giro di nastro che le avevo messo della mano e lo uso per “scocciare” l’alluce. Voglio chiudere quei buchi, subito. Dal suo zainetto prendo le sue scarpe da trekking e gliele infilo al posto delle scarpette da arrampicata. A botta calda mi serve qualcosa che contagna il piede e che lo protegga. Ivan, più in alto, non poteva vederci ma gli era chiaro che qualcosa era andato storto: ”Ivy!! Cala la rossa! La riporto in sosta!” Aiuto Bruna a muoversi, a spostarsi sul muretto. Tengo la corda mentre Ivan la cala fino al terrazzino sottostante. “Ora la Blue! Ivy! La Blue!” Prima che la corda vada in tensione disarrampico fino a Bruna. Piazzo un nat in una fessura a strozzo ed una fettuccia su una radice mettendola in sosta in un’angolo riparato del terrazzino. Le tolgo nuovamente la scarpa e le avvolgo il dito nella carte igenica (il primo emostatico fuoriuscito dal mio zaino) e lascio che lo stringa tamponando a mano. Dobbiamo ricompattare la squadra. Con un’altra fettuccia mi fisso ad uno spuntone: “Ivy!! Tocca a te!”

Ivan mi urla “Recupera le corde!”. Credevo si calasse in doppia ma le corde mi dicono qualcosa di diverso. Non capisco chiaramente ma le infilo in un moschettone e ne strozzo una in un mezzo barcaiolo. Poi capisco: Ivan non si sta calando, sta arrampicando in discesa rimuovendo le protezioni. Per questo a volte “chiede” corda mentre a volte devo recuperare in fretta: sta fecendo tutto da solo, la mia è solo una protezione formale. Solo a metà tiro capisco che ha trovato qualcosa su cui calarsi (un piccolo albero) e lo vedo riapparire nel diedro. Il vecchiaccio a volte può sembrare uno stramboide anacronistico ma posside davvero una classe infinita!

Tutti e tre di nuovo insieme in sosta iniziamo a “trattare” seriamente Bruna. Il sangue continua ad uscire. Diamo una pulita versando un po’ d’acqua. Poi, cerotto e nastro, impacchettiamo stretto dito e ferite. Il piede ha già iniziato a gonfiarsi e le sue scarpe sono ormai troppo strette. Togliamo la soletta ad una delle mie scarpe da avvicinamento e gli infiliamo quella (lei hai il 39, io il 43). Bruna, nonostante il dolore e le lacrime, continua a scusarsi senza senso: ”Vi aspetto qui, voi continuate, tornate a riprendermi dopo…” “Bergamo! Concentrati: dobbiamo andarcene da qui e devi aiutarci! Stiamo evacuando!”. Bruna capisce, finalmente entra in modalità da combattimento.

L’idea di calare Bruna nel vuoto non mi piace: è ancora spaventata e non sarebbe in grado di gestire la parte tecnica da sola. Mi serve una soluzione “low-tech”: scomoda ma sicura. Decidiamo quindi di ridiscendere un canale pieno di alberi, più scomodo ma più proteggibile. Ivan affianca Bruna mentre li calo. Bruna si muove bene, è dolorante ma riesce a sfruttare la corda ed il piede sano. Ivan la supporta e libera il canale da tutti i sassi instabili buttandoli giù. Più sotto si sopostano al riparto fuori dalla linea di discesa: è il mio turno. Tolgo la sosta a nat ed inizio a disarrampicare. Bruna ha le mie scarpe, io ho solo le scarpette d’arrampicata: fanno un male cane e scivolano sulla terra, ma sfruttando le piante riesco ad abbassarmi sulle roccette mentre mi fanno sicura da sotto. Quando li raggiungo ripetiamo la stessa manovra per altri cinquanta metri.

Bruna riesce ad appoggiare solo il tallone sostenendosi quasi a gattoni sulle mani. Nel bosco ha ancora la forza di scherzare: “Sembro quello del documentario. Quello che scendeva a gattoni nel bosco. Quello che ti assomiglia.” Per la cronaca si riferiva ad Alex Huber quando si infortunò in Yosemite allenandosi per il Nose (“Am Limit”, 2007). Superate le calate inizia la parte meno pericolosa ma decisamente la più penosa: lentamente, tremendamente lentamente, raggiungiamo insieme la macchina al parcheggio del Boga.

Infiliamo gli zaini e le corde alla rinfusa nel bagagliaio. Ho ancora ai piedi le scarpette d’arrampicata, ormai ridotte ad un paio di ciabatte, ma per guidare mi servono un paio di scarpe della mia misura. Quando Bruna mi rende le mie ho un attimo di esitazione. Una è inevitabilmente piena di sangue: mi concentro e la infilo, cercando di ignorare che quella liquida sensazione appiccicosa e calda è il sangue di mia moglie.

Al ponte della Gallina facciamo un’altra tappa. Prendo in braccio Bruna e la porto al lavatoio per mettere il piede sotto l’acqua corrente: è il momento di guardare cosa è davvero successo. L’acqua rende pulita la pelle e toglie emotività alla scena, tuttavia non ci sono alternative: è una faccenda che va sistemata, “rattoppata”. Bruna resiste mentre le fascio il piede per la terza volta. Lungo la strada lasciamo Ivan nei pressi della stazione e puntiamo all’ospedale di Lecco.

Ci sono volute due ore per tirarci fuori dal Pizzo Boga, ma ci sono volute otto ore prima di lasciare il Pronto Soccorso: la maggior parte del tempo lo abbiamo speso in attesa. Questa però non vuole essere una critica ai medici o allo staff del PS: ci hanno trattato al meglio nonostante quelle sale siano diventate un campo di battaglia durante l’attesa. L’ortopedico, che non era di turno, è entrato in servizio proprio per visitare Bruna: non riusciva a capacitarsi che fosse riuscita a fare tanta strada in quelle condizioni (… e non aveva nemmeno visto che tipo di strada era stata fatta!!) Le fratture all’alluce sono multiple, ma composte: questo dovrebbe semplificare di molto la guarigione. Le ferite, a scoppio, sono profonde ed in punti scomodi. Ci è voluto un po’, anche dopo le suturazioni, perchè smettessero di sanguinare. Servirà pazienza ed attenzione per farle guarire in fretta.

Sul Pizzo sapevo cosa fare, come muovermi e come valorizzare l’esperienza di Ivan. Bruna ha tirato fuori la sua parte “titanica” ed ha retto come meglio non sarebbe stato possibile. Ma in Ospedale, quando tutto quello che potevo fare era attendere, confesso di aver vacillato: la fame, la stanchezza, la tensione ed i dubbi si sono fatti pesanti. Quelli come me il destino o li annienta frontalmente o li logora a tradimento: le emozioni alla fine hanno spazzato la freddezza. Mentre Bruna era a fare i raggi non riuscivo a stare fermo, la mia mente ha dovuto arrendersi alla speranza ed è stata travolta da un unico pensiero: “Fa che non sia troppo grave, per favore, fa che non sia troppo grave”. Fortunatamente non lo è stato.

In salotto abbiamo steso un materasso tra i divani trasformando il soggiorno in una specie di “stanza-unica”. La notte i dolori si fanno sentire ma, con calma, ci stiamo attrezzando per completare la “riparazione”. Ci vorrà un po’, cercheremo di dare un senso a tutto questo tempo e a tutta questa storia.

Davide “Birillo” Valsecchi

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