Tarzan che Ride

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dscf6673“Dobbiamo risalire il ghiaione sotto il dente poi, sfruttando un passaggio segreto, usciamo dal canale e percorriamo un crinale che non conosco fino alla base della torre Trapezia. Quando siamo lì vediamo cosa si può fare per salire” Lasciamo alle nostre spalle il Boga-Kan ed iniziamo a salire tra piante e felci che manco nella giungla. “Tarzan”, là davanti con il suo zainetto arancione, ride divertito mentre attaccandomi alle piante cerco di stargli dietro. Non ci sono guide alpinistiche su questa zona, anzi, un volontario velo di silenzio sembra avvolgere tutte queste innumerevoli torri. Le voci raccontano di salite di Don Agostino, dei Ragni e di altre avventure a volte storiche, a volte brutalmente tragiche. La geografia che mi circonda è confusa, stretta tra la città, la valle, i Resinelli e le grandi pareti. Ma vi è una spiegazione perchè un’universo alpinistico tanto ricco sembra essere volontariamente dimenticato? Semplice: è un posto temibile sotto ogni aspetto!

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Sguero trova due gambe “sgranocchiate” di capriolo: “anima candida sguero” sembra turbato dal ritrovamento. Io invece, finchè stiamo nei reami delle bestie, non mi preoccupo poi troppo: quello è il mio ambiente. Storia diversa quando il “tarzan che ride” deciderà di puntare verso l’alto attraverso “una cascata di blocchi monolitici resi stabili dall’incastro meccanico del proprio peso”.     

Alla base della torre Trapezia il sole splende caldo mentre ci imbraghiamo: Sguero rimonta il filo di cresta con la consueta disinvoltura, scivolando sinuoso tra i grandi massi e le piante che benedicono la nostra cordata. Non sembra difficile ma come spesso accade l’apparenza inganna. La cresta che corre lungo il profilo della torre Trapezia racchiude un anfiteatro di roccia verticale quasi concavo, i bordi della cresta a volte sembrano instabili cornici di roccia protese nel vuoto. Sassi enormi che attendono solo il giusto stimolo per lanciarsi nel cuore del grande teatro.

La corda del Guero non segue mai il passaggio più ovvio, ma sembra cercare riparo tra le difficoltà. Per inseguirlo devo immergermi in movimenti complicati, devo spingere la roccia cesellando con il respiro ogni spostamento. Ai margini del mio filo di seta il mondo è fragile e feroce: “Birillo, non toccare nulla che ti possa crollare addosso” mi ripeto silenziosamente. Avete mai ballato al chiaro di luna su un tappeto di vetri rotti schivando pugnali volanti?

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Le soste sono su piccole ma fidate piante, la cresta però spesso mi nasconde il Guero mentre procedede. Alla cieca il rumore dei sassi che crollano con fragore verso valle è inquietante, solo la corda mi rassicura su quello che sta combinando il Guero. “Sai che non mi piace buttar giù sassi, ma appena ho messo le mani sulla destra e poggiato un piede sulla sinistra è venuto giù tutto…piuttosto impressionante” Come una flotta tra gli iceberg tracciamo la nostra rotta tra le difficoltà anticipando i pericoli e proteggendo in perenne diagonale la nostra linea. “Cazzo quant’è difficile! Fuuuuuuuu”. La punta delle dita ripuliscono dalla terra le tacche sempre più piccole a cui mi affido mentre le prese, quelle più grosse ed apparentemente godibili, si muovono e possono essere sfruttate solo in precise e limitate direzioni.

Afferro la copertina obliqua di un grosso libro alto come la mia coscia: sembra buono ma è un errore e si muove. Invece di tenermi sono io ora a tenere quel pezzo di lavagna. Muovo il mio peso sotto il blocco, rimonto e punto il ginocchio dove prima c’era la mano e sfilo il bacino. “Bhe, ora vai pure affanculo…” badabim bum bam!!

Poi però arriva la fregatura vera: la cresta è illuminata dal sole ma il passaggio per raggiungere quella che sembra una calda placca appoggiata è davvero tosto. Lo osservo da lontano pensando sconsolato: “Se non ci stanno un paio di chiodi con cavolo che rimontiamo!” Sguero, da vicino studia il passaggio. Potremmo calarci da una pianta e traversare in placca verso un diedro a sinistra della cresta, ma Sguero è preoccupato di come da secondo possa diventare rognoso quel passaggio. Scarte l’idea e decide di puntare nell’ombra, sfilare sotto la cresta inseguendo un paio di spaccature verticali fino alla pianta soprastante. Osservo stupefatto quella scelta: è un angolo di mondo buio e spaventoso, delle increspature di roccia mista a terra ed erba. Ho già visto qualcosa di simile ai Corni, nel giardino d’oriente, ed era terrificante!

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Sguero lavora con i friend, li accoppia, li sposta, li riprende. Poi, finalmente, a metà della “ruga” trova il modo di piantare un chiodo. Io da sotto lo guardo e come la piccola fiammiferaia esprimo due desideri: “Fa che Guero riesca a passare, fa che la corda salga dritta!” Sguero fa la sua magia impossibile e raggiunge la pianta. Tocca a me: la parte che più mi preoccupa è il piccolo traverso iniziale, se parto finisco oltre la cresta, nel vuoto, appeso ad una corda che si diverte a fiondarmi giù sassi dall’alto. “Porca eva… aderenza su rocce instabili” Non puoi tenerti, non puoi afferrare un mondo sfuggevole che va in pezzi, poi solo appoggiarti ed abbandonarti al tuo equilibrio da squilibrato: insomma, la metafora della mia vita…

Sono finalmente sulla verticale, c’è un chiodo a metà ed un friend che fa angolo prima dell’uscita: posso appoggiarmi alla corda ma non strapparla perchè se salta il friend prendo due metri di volo prima di caricare le pianticelle della sosta. “Okay Sguero, ora seguimi bene mentre mi alzo piano piano!”. Lavoro con i piedi mentre con le mani posso solo spingere verso il basso: sembro un contorsionista che cerca continuamente di sfilarsi i pantaloni!!

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Giunto in sosta sono cotto, mentalmente e fisicamente, fortunatamente lungo la cresta mancano solo due tiri al sole e siamo in cima. Un ultimo diedro, più godibile che difficile, e siamo finalmente su prato che rimonta la torre. Il sole d’autunno arrossa l’erba e seduti ci gustiamo tranquilli la bellezza dopo la tempesta. La Grignetta ci saluta illuminata mentre i torrioni che ci circondano si fanno più minacciosi tra le ombre. Ma ormai non importa più: ora dobbiamo solo rincorrere le tracce dei camosci per scendere lungo il crinale fino all’uscita del Boga. Ancora una volta ci siamo addentrati nelle terre di frontiera, ora torniamo a casa.

Davide “Birillo” Valsecchi

 

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