“Questa storia partecipa al Blogger Contest 2020” – (www.altitudini.it) – Regolamento-BC2020
MAGGIOCIONDOLO
Pizzo d’Eghen, un bastione di calcare al confine occidentale del Grignone che si innalza per oltre seicento metri sulla sottostante Valle dei Mulini. Riccardo Cassin e Giuseppe Comi vi tracciarono la prima “Via” il 4 settembre del 1932, seguendo le indicazioni di Eugenio Fasana che, già nel 1926, aveva individuato e percorso una linea di salita nel grande canale sulla destra. La “Filippo Corridori” (o Camino Cassin) corre per 300 metri in un grande camino verticale ed è rimasta irripetuta fino al 1975. La prima ripetizione è di Benigno Balatti e Sergio Lanfranconi ma, nonostante il prestigio della via, sono ancora pochissime le ripetizioni.
Grazie ad un sopralluogo, effettuato durante la primavera, abbiamo trovato un passaggio che dalla Ghiacciaia del Moncodeno permette di attraversare e raggiungere lo “zoccolo” a metà della sua altezza. L’avvicinamento è in uno scenario alpino assolutamente selvaggio ed inconsueto per le nostre montagne. Con due tiri da quaranta risaliamo lo zoccolo giungendo alla cengia erbosa prima del lungo traverso verso sinistra. La base del camino è molto aperta e si deve risalire un cono erboso ripido ed impegnativo. Il secondo ed il terzo tiro offrono un primo assaggio delle difficoltà che ci attendono. Due passaggi di VI°, uno dei quali richiede un “A0”: “Il passaggio è aereo ma si mantiene nel quarto grado” scrisse Cassin nel suo libro del ‘58 e questo rende l’idea di quanto grande fosse il suo talento a ventitré anni.
Avanziamo bene, proteggendo a friend e piazzando qualche chiodo strategico. La partenza del quarto tiro è però rocambolesca: ci si incastra “di corpo” in una spaccatura. Questo deve essere il tratto in cui probabilmente Cassin si appoggiò in piedi sulla testa di Comi perchè, una volta che Mattia si è incastrato, anche io ho dovuto allungarmi per sostenerne con le mani l’appoggio affinché riuscisse a spingersi oltre.
Superata la strettoia si affronta un passaggio tutt’altro che banale, in placca, che risale dapprima verso sinistra e poi traversa sotto uno strapiombo, verso destra, raggiungendo una piccola cresta rotta. Le corde hanno però cominciato a scorrere male, quando erano ormai quasi bloccate ho dovuto legarmi a metà infilando il resto nello zaino: qui il “ballo” si è fatto serio.
Avevamo atteso due settimane di bel tempo per affrontare la salita, credevamo che questo ci avrebbe dato l’opportunità di affrontare “l’orrido camino” in buone condizioni. Non potevamo fare sbaglio più grande. Il camino è infatti largo un metro e qualcosa ma si infila nella montagna a tratti anche oltre sette o otto metri. Al suo interno scorre una persistente aria gelida che, imbattendosi nel caldo atipico di questi giorni, crea un’intensa condensa che a volte appare visibile persino come vapore. La roccia trasuda, è fradicia e viscida come un sasso che in un fiume viene bagnato ad intermittenza dallo scorrere dell’acqua.
Avanziamo in opposizione superando grossi massi incastrati. Per uscire dal camino ci sono due tiri verticali ed il secondo è assolutamente terrificante. Mattia è uno straordinario caminista, con una grande esperienza nell’esplorazione speleo tanto in Grigna quanto nel Triangolo Lariano: è un “trattore” e quello è il suo “ambiente”, ma nonostante questo non l’avevo mai visto tanto al limite, tanto vicino ad essere soverchiato dalle difficoltà. Dà tutto ciò che ha …e quasi non basta.
Sul viscido piazziamo quante più protezioni possibili ma questo ruba tempo e la progressione si fa incerta, difficile e tremendamente lenta. Superiamo la quinta lunghezza ed attacchiamo la sesta. Mattia risale rocce rotte e si infila per quasi otto metri in una profonda forra nel cuore del camino. Sul fondo intravede una luce filtrare dall’alto. I racconti di Cassin parlano di un gioco di incastri tra massi uscendo poi da un “foro inattraversabile”. Lo spettacolo è tuttavia agghiacciante: l’unica certezza è il muschio fradicio!
Mattia ritorna al bordo del camino da dove riusciamo ad individuare i chiodi, artigianali ed ad anelli, della variante Mandelli che risale verticale fino ad un grosso sasso aggettante. La nostra sola via d’uscita è un “6c“ su roccia fradicia. Mattia dà il meglio di sè, integra con qualche chiodo nelle posizioni più scomode ed agguanta un vecchio “canapo”, abbandonato sotto il sasso chissà da quando. Il passaggio è assurdo ed esposto come niente fino a quel punto. Mattia è costretto a fidarsi del canapo per girarsi, uscire dall’opposizione sul viscido e rimontare il masso aggettante.
Superato il masso piazza un chiodo a sinistra di un chiodone già presente, aggiunge un friend e crea una solida sosta a tre punti. Le corde non scorrono e così, ancora una volta, raggiungo la verticale con metà delle corde nello zaino. Mattia si sporge oltre il sasso e mi urla “Fai quello che vuoi ma fallo in fretta!!”. Le alte temperature di questi giorni stanno per giocarci un altro brutto, brutto scherzo: sopra il lago si sono addensati grandi nuvoloni neri ed un temporale di calore avanza minaccioso all’orizzonte. Mi infilo in quella “melma viscida” mentre l’eco dei tuoni si fa sempre più vicino.
Tra i vecchi chiodi ad anello abbiamo piazzato un paio di chiodi nuovi. Vorrei schiodare facendo attenzione a non rovinare la roccia ma la situazione si fa pressante, li lascio lì e sbuffando passo oltre. Supero il masso e stravolto, in qualche modo, arrivo in sosta. Il nero si è infilato nella valle e punta dritto verso di noi.
A sinistra del camino c’è un chiodo che punta verso una sosta di quella che dovrebbe essere la variante Balatti o “Prigionieri dei Sogni”. La faccenda si sta facendo pressante. Lasciamo il chiodo ad U nella sosta ed iniziamo il primo dei due traversi che dovrebbero portarci verso la cresta. Mattia attacca il secondo tiro e a metà mi urla inquieto: “ARRIVA! Piazzo quante più protezioni posso! Arriva!!”. Il rumore della pioggia sugli alberi, un migliaio di metri più sotto, avanza inquietante accompagnato dal rumore dei tuoni e dal bagliori dei lampi.
Quando Mattia chiama la sosta siamo ormai investiti dalla pioggia. Davanti a me ho un tiro di trenta metri, tutto in orizzontale, tutto su placca ormai fradicia. In inverno ci siamo allenati spesso ad arrampicare sul bagnato, ma quello che ho davanti è qualcosa per cui non esiste allenamento. “Peccato, mancava così poco…”. Un attimo di profonda tristezza mi assale, non so come andrà a finire. Forse un rimorso o qualche rimpianto. Poi spingo i motori a tutta forza.
Parto, supero un chiodo e proseguo. Mattia ha fatto un gran lavoro sfruttando clessidre e piazzando i friend. Avanzo appoggiando con attenzione i piedi sul bagnato. Avanzo, avanzo… Poi stacco le corde da un rinvio su un nat. Questione di un istante: volo, vado giù. Precipito, precipito sull’Eghen.
Tutta la mia realtà si condensa in un urlo: “MATTIA!” . Pendolo cinque metri sotto una clessidra, la corda si blocca, sbatto, d’istinto afferro una presa, piazzo un piede in appoggio attendendo che la clessidra esploda e mi frani addosso prima che la corda torni lasca, prima di cadere di nuovo. Ma la clessidra tiene: sono appeso su un vuoto infinito sotto la cima del Pizzo d’Eghen, su una placca bagnata mentre i fulmini del temporale ci sono addosso. La vita è strana alle volte…
Non posso esitare. “RIPARTO” “Davide! Tutto bene?” “BLOCCA LA GIALLA! RECUPERA LA BLUE!” Non posso esitare, non posso pensare, devo reagire. Inizio a ringhiare come un animale nella pioggia. Risalgo, chiudo il traverso e rimonto le rocce rotte fino alla sosta sui mughi dove mi aspetta Mattia.
La pioggia si attenua, sembra darci tregua anche se all’orizzonte altre nuvole nere e più cattive si avvicinano veloci. Finalmente riusciamo ad infilarci i K-Way sopra i vestiti fradici: “Ho fatto un gran volo Mattia, ho fatto davvero un gran volo…”
Avanziamo tra i mughi e le rocce della cresta cercando di raggiungere la cima. Dobbiamo andarcene, dobbiamo andarcene in fretta! Accendiamo le frontali, il buio che ci circonda rende ancora più spaventosi i lampi viola che illuminano il cielo. Dalla cima dobbiamo scendere fino alla sella e risalire fino al Palone. L’aria è imbarazzantemente elettrica mentre ormai alla cieca avanziamo a zig zag attraverso ragguardevoli passaggi sul profondo buio: “Siamo fottuti, non c’è modo di farcela in queste condizioni…”
Mattia vuole insistere ma proseguire è ormai follia: “Dobbiamo nasconderci!!” Troviamo una piccola nicchia al riparo dal vento. Scaviamo con le mazzette quanto basta per poterci stare entrambi. Abbandoniamo tutto il materiale in una cavità qualche metro più in là e ci seppelliamo fradici nel nostro buco, avvolti stretti in una metallina. Restiamo lì, attendendo che il temporale passi portando con sé la notte, il buio ed il freddo.
Alle quattro ed un quarto la sveglia del mio cellulare, come il mattino precedente, inizia a suonare ironica. L’alba non è distante e la pioggia è finita. L’aria fredda risale la valle e si infila sotto la metallina ed i pantaloni bagnati. Stretti uno contro l’altro tremiamo come foglie ma iniziamo a sghignazzare: forse ce la si fa.
Il sole sorge ma attendiamo a lungo che si alzi e che si faccia caldo per uscire dal nostro loculo. Lenti iniziamo a sistemare le nostre cose. La giornata si annuncia luminosa e splendente. Nella notte avevo piazzato una bottiglietta per raccogliere dello stillicidio ma la cattura è stata magra e sconsolante. “Ironia: tutta quell’acqua presa e finiremo con il morire di sete…”
Carichiamo nello zaino i nostri stracci bagnati e ritiriamo demoliti verso la Bogani. A differenza di Cassin noi troviamo la “Capanna Monza” aperta e la famiglia Bendetti, gentile e premurosa come sempre, placa la nostra sete. Abbandonati su quella panca finalmente la nostra avventura si conclude: “Beh, siamo ancora qui a raccontarla…”
Certo, ogni volta che guarderò il Pizzo d’Eghen mi spunterà un sorriso compiaciuto all’angolo della bocca, tuttavia quello che Libéra ha scritto sulla quarta di copertina di “Dove la parete strapiomba” è un’assoluta verità. Confrontandoci con la grandezza di chi ci ha preceduto siamo davvero poca cosa, fanciulli, bambini viziati che giocano con gli affari seri degli adulti. Ridicolo il modo in cui in un’autoscatto ci illudiamo di essere forti facendo boccaccie appesi ad una sosta a fix.
“…troppe cose sono cambiate; non siamo cresciuti con la ferrea educazione data da una guerra e con la miseria che ne consegue. Non siamo abituati al sacrificio ed alla fatica e, se Cassin dava il merito di uscire da queste tremende prove al fatto che loro stessi fossero “più forti della tempesta”, non deve stupire se oggi ci si piega al minimo alito di vento. L’alpinismo è cambiato perché gli uomini sono cambiati”. Rossano Libéra.
Credo di non essermi mai spinto tanto oltre in vita mia e probabilmente ho solo sfiorato la realtà delle cose. Incredibile il sorriso che certi ricordi terrificanti riescono a suscitare, forse c’è una punta di follia in tutto questo. La tradizione recita “chi arrampica ai Corni di Canzo arrampica ovunque”, ma sto giro l’abbiamo davvero combinata grossa: ancora una volta è stato un privilegio arrampicare con il mio socio. Grazie Mattia.
Davide “Birillo” Valsecchi
Didascalie:
- Pizzo d’Eghen al mattino. Scatto alla base del Camino, al di sopra dello zoccolo.
- Pizzo D’Eghen, visto dal basso alle prime luci del mattino.
Il sole sorge alle sue spalle e la parete rimane buia fin quasi a mezzogiorno. - Arrampicando nel Camino della via Cassin. Lunghezza del Sasso aggettante prima del tiro crollato.
- Mattia e Birillo… il mattino dopo.