La parete occidentale del Sasso Cavallo

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[Gino Carugati] Il tetro muraglione livido non poté certo sospettare propositi eroici nei quattro individui che… dormivano beatamente ai suoi piedi, sdraiati sull’ultima pendice erbosa: quel mattino, le nostre anime di conquistatori non trovavano riflesso nei nostri atteggiamenti. Avevamo sbuffato pazientemente sui prati ripidi per quasi un’ora e, per tutta consolazione, giunti al nostro osservatorio – un cocuzzolo erboso a pochi passi dalla base della parete – ci eravamo trovati uniti in confortante concordia nel giudizio… e nella rassegnazione: «Inaccessibile!». Tuttavia avevamo anche tentato, senza fiducia e senza slancio, tanto per tranquillare la nostra coscienza alpinistica e, un appiglio dietro l’altro, eravamo riusciti a scalare forse quaranta metri di roccia: assai più di quanto avessimo sperato; ma dieci metri più su, la via sembrava inesorabilmente preclusa: davvero gli appigli erano troppo scarsi, quel giorno. Queste sgradevoli constatazioni, la giornataccia grigia e nebbiosa, il ricordo della notte passata senza eccessi di “comfort” in una grotta, sottoposti ad una cura idropatica non richiesta, dall’acqua che gocciava generosamente dalla grotta, erano proprio quel che ci voleva persuadere somnia; e per tre o quattro ore non si fece altro che dormire, quantunque una marea di nebbia umidiccia fosse salita ad avvolgerci da ogni parte. Poi pian piano, fermandoci di tratto in tratto, perdendo quanto più tempo fosse possibile, ce ne tornammo a Mandello, contenti e felici della nostra passeggiata, come se il fiasco non ci avesse riguardati direttamente…

Che un tentativo simile ci bastasse? Per tutti i santi dell’alpinismo, no! Un “apicco” di quattrocento metri, relegato a priori nella categoria dell’inaccessibile dalle centinaia di alpinisti che gli erano passati sotto, via, era troppo solleticante! Due mesi dopo, in una fredda alba autunnale, quando già nel lontano orizzonte il sole rosava la cerchia magica dei giganti alpini, noi giungevamo ad un minuscolo baitello non lontano dall’attacco delle rocce, decisi questa volta ad un serio e vigoroso “a fondo”.

Dopo aver camminato per mezza nottata ci concedemmo un paio d’ore di sonno e poi su, di nuovo, per quell’erto crinale erboso, che separa Val Meria da Val dell’Era e termina contro la gran parete del Sasso Cavallo, tagliato bruscamente dalla balza immane che, d’uno slancio solo, dalla radice alla vetta, si scaglia contro il cielo. Meno di mezz’ora ed eccoci al nostro osservatorio-dormitorio, dell’ultima volta. Ma quest’oggi non dormiremo! La giornata è meravigliosa, le speranze sono molte; senza perder tempo, ci mettiamo in cordata. La comitiva si è assottigliata, questa volta; la mia signora [Maria Carugati, ndr] e il mio cognato non hanno potuto essere della partita; con me non ho che un compagno di corda, il signor Giorgio Ripamonti di Mandello, e il fedele Martin, un simpatico montanaro che ci ha portato provviste e arnesi fin qui, e che ora, da compagno, diviene spettatore delle nostre gesta. Risalito l’ultimo tratto del crestone erboso, Giorgio si addossa alla parete quanto più può, al riparo dalle pietre; io, non senza emozione, inizio l’attacco. Nel primo tratto, che conosciamo già, ce la caviamo con disinvoltura; la roccia però si mostra subito scarsa d’appigli e poco solida; v’è anche una lastra – non proprio verticale e non proprio liscia, ma con appigli buoni per le lucertole – che va… trattata con delicatezza.

Quel che viene dopo è meno duro di quanto parrebbe; un leggero strapiombo, che sembrava dovesse intimarci il nec plus ultra, si vince senza difficoltà, grazie a un appiglio: uno solo, ma ben messo. Un primo chiodo da parete entra in funzione per rendermi più facile un passaggio; ma, poiché non è indispensabile, Giorgio lo toglie: non bisogna esser prodighi in chiodi, quest’oggi. Giorgio si incarica anche di mandare a valle, dietro di noi, ogni appiglio malsicuro: è una cascata a getto continuo; a un certo punto fa rovinar giù un tale ammasso di roba, che Martin, sdraiato a dormicchiare sull’erba, settanta metri sotto di noi, balza a sedere, credendo vederci fare una discesa per via aerea: poi, rassicurato, s’immerge ancora nella sua… meditazione. Fin qui siamo saliti seguendo a un dipresso la verticale; ma ora la roccia sopra di noi aggetta bruscamente: bisogna deviare. I miei carissimi amici e colleghi rag. Arturo Andreoletti e Umberto Fanton, rifacendo la nostra ascensione, traversarono assai più in basso e precisamente sotto la lastra di cui ho parlato; ma la variante, anche a parer loro, non è consigliabile. Cerco un passaggio immediatamente alla nostra destra, e lo trovo; tra i vari “traversi” che si contano nella salita, è questo il più elegante e il più esposto.

Immaginatevi un lastrone di roccia quasi verticale, assolutamente liscio, per una larghezza di due metri: gli sovrasta, a guisa di tetto, un forte strapiombo; ma la provvidenza ha segnato una minuscola fessura orizzontale tra lastrone e strapiombo: non vi entra neppure il mignolo, ma un chiodo ad anello sì. Poggiato sull’ultimo appiglio e strisciando le mani sulla roccia liscia, mi spingo in là col corpo quanto è possibile, tenuto vigorosamente alla corda da Giorgio; allungo il braccio destro lunghesso la fessura fin dove posso giungere, conficco il chiodo, mi abbranco allora all’anello colla sinistra, punto un piede contro la roccia e con uno slancio sono di là, ben saldo colla mano destra a un bell’appiglio, di quelli che si possono abbrancar bene. Superata un’altra lastra, qualche metro più in alto, con poche bracciate raggiungiamo una fascia erbosa, la prima tappa della nostra scalata al cielo.

Un terzo dell’ascensione, o poco meno, è compiuto: l’orologio segna un’ora assai prossima al mezzogiorno, e una colazione non guasta. Non ci decidiamo a riprendere la salita che dopo una siesta ben prolungata e dopo aver costruito un segnale di pietre, cui affidiamo i nostri nomi: un saluto urlato giù a Martin, che dorme e vigila con vece alterna e riprendiamo la salita. Di qui alla fascia erbosa superiore, due vie appaiono tentabili: l’una, deviando per parete a destra, sale per parete a raggiungere l’estremità destra della fascia; l’altra, tendendo un poco a sinistra, sale verso il centro dello spiazzo, per un canale poco marcato. Ci teniamo, dopo breve discussione, alla prima via, e sulla parete ripidissima, ma ricca d’appigli sicuri, guadagniamo rapidamente una quarantina di metri; ma ecco che cominciano i guai: la parete si drizza verticale, e gli appigli svaniscono; m’inerpico ancora penosamente, per qualche metro, fin dove la roccia si fa liscia come il palmo della mano; allora scendo di nuovo, passo davanti a Giorgio, rannicchiato in un anfratto della roccia, e tento di traversare a sinistra, per raggiungere l’altra via.

Ma non ho fatto tre metri, che delle spaventose placche verticali mi taglian la strada. È un momento angoscioso: forse la sconfitta? Risalgo fin dove poco prima mi ero fermato, riesco a guadagnare un altro mezzo metro, poi trovo modo di fissare un chiodo; giungo così ad afferrare un appiglio lontano, e da quello a salire per altri sette o otto metri; il ciglio dello spiazzo erboso è vicinissimo, ma c’è un’altra lastra, liscia così, che par piallata. Dopo molte ricerche, scopro una piccola fessura verticale, larga meno d’un dito; fisso un chiodo, mi vi appoggio, ne fisso un altro, e la lastra è passata: un’ultima elevazione, e lo spiazzo è raggiunto. In pochi istanti vien su anche Giorgio e tutti e due ci sdraiamo beatamente sull’erba rigogliosa: premio bene meritato dopo passi così indiavolati! Quei pochi metri sono stati certo l’osso più duro di tutta l’ascensione: e credo si possa consigliare senz’altro ai salitori futuri di questa ardua parete di tenersi all’altra via cui ho accennato; Andreoletti e Fanton, che la seguirono, non vi trovarono difficoltà gravi. Un bel riposo, qui ci spetta di diritto; scambiamo grida di saluto col mio cognato, che giunge in questo momento da Mandello a tener compagnia a Martin e costruiamo un secondo segnale; sostiamo ancora ad ammirare le lunghe folate di nebbia che lambiscono in fuga la parete, ora velando, ora disvelando l’abisso meraviglioso che si sprofonda ai nostri piedi, e finalmente leviamo il campo.

Seguiamo ora verso sinistra l’orlo superiore della fascia, sotto un grande strapiombo; il pendio erboso finisce contro una placca, che traversiamo: il passaggio è assai esposto, ma non difficile; passata la placca, e innalzandoci di qualche metro, giriamo alla base una piccola guglia quasi unita alla parete, e per un canaletto saliamo all’insellatura tra la guglia e il massiccio del monte; di là una grossa cengia che sale ripida verso destra e una placca di cinque o sei metri, non difficile, ci portano di nuovo nel cuore della parete.

Ora procediamo un poco a tastoni, perché la nebbia ha finito coll’avvolgerci completamente. Infiliamo un camino verticale, lo seguiamo finché è possibile, poi ne usciamo verso destra: qui, un altro camino, scabroso… Dopo pochi metri infatti, esso si restringe, riducendosi ad una semplice fessura; infilo il braccio quanto più posso nella crepa, e facendo forza con quello mi tengo aderente alla parete: un sistema che va proprio a puntino, quando i muscoli sono già stanchi per la lunga fatica!

Anche il caminetto è passato: ma non finirà più questa benedetta parete? Nossignori: c’è ancora una specie di cengia-camino, dove si sale ginocchioni, puntando la schiena contro un provvidenziale aggetto della roccia; poi una cengia vera e propria, ma larga un palmo e senza appigli per le mani… Oh, la nebbia si dirada, si fa trasparente: ancora un breve canaletto roccioso, che scaliamo in quattro salti, e poi dell’erba… Ma è la vetta! D’un tratto, come per incanto, la nebbia davanti a noi è sparita, e la gran mole bianca della Grigna ci appare improvvisa come una visione magica, abbagliante di sole. Gridiamo giù ai compagni la nostra vittoria, attraverso il grigio gorgo che mareggia sotto di noi: e dopo una brevissima sosta scendiamo alla bocchetta verso il Sasso dei Carbonari; di qui, prendiamo giù per la fosca, meravigliosa gola di Val Cassina, dove troviamo da fare un altro poco d’alpinismo… in scala ridotta. Poi, via di corsa per i prati fino alle prime baite, dove ci raggiungono Giuseppe e Martin, raggianti anche loro come noi. «È stata difficile, eh?». «Ah, proprio sì, di cuore».

Mezz’ora dopo prendevamo la via tediosa del ritorno. Oh! Il lungo tedio della mulattiera sdrucciolevole che scende all’Acqua Bianca! Si camminava come automi, storditi dalle scosse; pesavano addosso d’un tratto, per la monotonia della strada, il sonno e la stanchezza: che indegno epilogo a una giornata vittoriosa! Quando rientrammo in Mandello, sull’annottare, ci sentivamo completamente rimbecilliti: già, l’ho sempre detto, che l’alpinismo eleva lo spirito!

Gino Carugati – Rivista del Cai – 1911
(salita del 12 Novembre 1910)

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