Per tutti e per nessuno

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Ecco alcuni brani tratto dall’articolo “Per tutti e per nessuno ” (Rivista del Cai, 1934) di Eugenio Fasana. Da meditare, come sempre.

Dell’Illusione

«Se si pensa che i monti sono ineguaglianze della superficie terrestre le quali non assumono nemmeno l’importanza che hanno le rughe sui nostri volti, per cui l’alpinista che raggiunga una vetta si avvicinerebbe alla divinità quanto una formica, salendo su un sassolino, s’avvicina al sole, allora non resterebbe da dire altro che l’unico significato della montagna è di essere montagna. Ma se tutto nella natura alpina è silenzio, e l’armonia che noi crediamo di scoprirvi è inganno dei sensi esaltati, non è divina questa facoltà dell’alpinista che suscita dal nulla l’ebbrezza? Ricordo un delizioso episodio dei “Fioretti” in cui si vede San Francesco già quasi cieco chiedere conforto alla musica. Siccome frate Egidio non osava andare in cerca di una cetra per timore di uno scandalo, il Santo si procurò l’illusione della musica trasformando in un violino immaginario due pezzi di legno e mettendosi a fare il gesto del suonatore. Il suo volto si illuminò perché egli udiva nel suo segreto la musica divina dello spirito. Anche l’alpinismo, come ogni attività umana, contiene dunque la sua parte di illusione. Esso dà emozione di felicità, cioè un’illusione di felicità; e questa, a sua volta, insegna ad “andare al fuoco” e drammatizza la vicenda dello spirito in montagna con l’illusione della conquista, senza farci pensare che tutto è vano, che la meta ci sfuggirà sempre. Ma in ciò appunto sono anche la forza e il segreto delle virtù antiche. Il che torna a significare che se l’alpinismo ha molti pregi non è tanto nella conquista – in sé e per sé un po’ sterile o almeno imperfetta – quanto in tutte quelle attività che consentono il rischio e la speranza. Questo è nella sua ultima essenza il vero piacere dell’alpinismo: piacere intenso e prezioso, che rende la vita più bella e più degna di essere vissuta; poiché tutto il piano della natura intorno alla vita umana si aggira sopra la gran legge di distrazione, illusione e dimenticanza. Quanto più questa legge è svigorita, tanto più il mondo va in perdizione». 

Opinioni

Incontratisi due alpinisti di opposte tendenze, intavolarono questo dialoghetto alla socratica: «Credi tu che le bravure e gli acrobatismi siano le più alte manifestazioni dello spirito alpinistico?». «Per me, io credo che l’alpinismo obbiettivato nella tecnica anziché nell’uomo-alpinista, entra nello stato di pura accademia; per cui le bravure e gli acrobatismi sono le manifestazioni più alte dello spirito alpinistico simboleggiato nelle due moderne trinarchie del chiodo da roccia col moschettone e il martello, e della piccozza con l’arcirampone e il chiodo lungo da ghiaccio. Ma per il vero alpinista, le bravure non rappresentano che un fenomeno esterno e meccanico. Ora un fenomeno è, per il pubblico, il sommo del piacere estetico: sia un uomo che cammini sulla corda o un gorilla che accenda la pipa. Di qui l’ammirazione di molti. Pochi comprendono la bellezza, ma tutti comprendono la difficoltà; e l’ammirazione della folla non è per chi ha concepito la maggiore bellezza, ma per chi ha vinto la difficoltà maggiore». «Rispettabile opinione la tua: devi convenire però che l’alpinista non si produce per gli altri, non si offre ai plausi della folla, non lavora per la fiera. Così le imprese degli acrobati non sono più paragonabili alle imprese alpinistiche di quel che la smorfia di una scimmia – come dice Bergeret – possa assomigliare al sorriso della Gioconda». Questa battuta, detta col tono della persona sicura di non sbagliarsi mai, parve urtare un altro interlocutore che disse: «Vedo che qui, dove si esalta la vita “ascendente”, si parla con spregio dell’acrobata da palcoscenico, mentre anche il suo è gioco superiore, amore di lotta, sfida alla morte; gioco che richiede una somma incredibile di sforzi e di rischi per arrivare al più assoluto dominio dei nervi e dei muscoli, pena la vita. Ora, davanti a uno di questi uomini che cercano il rischio per provare il coraggio, fino alla più completa dedizione di sé, bisogna far silenzio e levarsi il cappello».

In corpore vili

C’è una linea di demarcazione, nota ai provetti alpinisti, che distingue i rischi ben definiti dai pericoli ordinariamente impreveduti di una data salita. Molti di noi li abbiamo provati su rocce difficili, su ghiaccio o neve; e ciò fu non senza utilità ai fini della nostra esperienza. Così un alpinista molto evoluto uscì a dire una volta: «Non per il gusto del pericolo, ma per averne la coscienza soggettiva, è bene che chi s’inizia all’alpinismo si sottoponga deliberatamente a queste prove». Disse uno dei presenti: «Ciò che lei afferma è alquanto sconcertante, e mi ricorda la storiella paradossale, narrata da Heine, di una scimmia seduta presso il focolare davanti a una marmitta nella quale cuoceva la propria coda. Essa seguiva, con evidente interesse, la bollitura della sua appendice, giacché pensava che la vera arte culinaria non consistesse soltanto nel cuocere oggettivamente, ma nell’avere la coscienza soggettiva della cottura». A tale proposito, si narra che Mevio e Caio alpinisti, scalando una parete giudicata esposta a cadute di sassi, non riuscissero a mettersi d’accordo su questo particolare, affermando il primo con ostinazione che nulla si dovesse temere, il contrario asserendo il secondo. A un certo punto, quando più alto era il fervore della disputa, un sasso curioso, sportosi un po’ troppo dal suo alloggiamento, perse l’equilibrio; ma prima di cadere in terra, pensò di fare una sosta sulla testa di Mevio alpinista. Vi fece anche un bernoccolo. «Ho sempre creduto», disse allora Caio, «che non fosse possibile, tra alpinisti, raggiungere un accordo sulla vessata questione dei pericoli oggettivi; ma credo che quando c’entrano di mezzo ragionamenti così contundenti sia molto più facile». «Che tu possa aver ragione mi duole assai, come vedi», rispose Mevio l’ostinato, soffregandosi quel grosso bitorzolo paonazzo che gli era spuntato a sommo della fronte. «Ma oramai, ecco qua: il sasso mi ha fatto la conoscenza soggettiva del pericolo. Mi è d’uopo dunque convenire, mio malgrado, che sei nel giusto. A calci, si riconosce il mulo».

La corsa alle vette

«Nei tempi in cui l’alpinismo era prerogativa di pochi, si diceva: “Ma badate, noi apriamo le porte, e tutto il mondo potrà entrare a sorprenderci. Non saremo più soli. E tutti i pericoli potranno entrare dalle porte spalancate”. Si diceva: “Il livello del buon gusto fatalmente si abbasserà”. Oggi si dice: “La gita di masse rappresenta, quasi sempre, uno dei più brutali tentativi di livellamento che si possano perpetrare a danno della personalità estetica e morale. Ecco ciò che guasta e forse uccide la poesia delle gite in montagna. Stimoliamo invece le masse a muoversi con facilitazioni d’ogni sorta; ma lasciamo all’individuo il ristoro della solitudine, la spontaneità del giudizio e dell’iniziativa, cose tutte che l’aggruppamento meccanizzato nega proprio quando se ne avrebbe più vivo il bisogno”. Da noi, ad onor del vero, questo problema estetico e morale si può dire risolto. Difatti ai nostri giorni, come non mai in passato, vediamo gran numero di operai, impiegati, piccoli professionisti, zelanti ed operosi, che, in virtù della passione per la montagna, ogni tanto si sdoppiano e san mettere la piccozza in resta e cavalcare l’affilato crinale di un monte. Anche la guida più zotica sente, in fondo in fondo, che il suo non è solo un mestiere, ma un modo di vivere due volte. “Chi qui soggiorna acquista quel che perde”, era il motto della antica Accademia dei Rozzi; e significava che chi s’intrattiene in divertimenti piacevoli e istruttivi, perde la rozzezza e acquista la virtù. Tale funzione levigatrice è anche dell’alpinismo».

Lo Stimolo Artificiale

In un rifugio alpino. «Si danno alpinisti», diceva uno, «che rivelano subito la loro origine, perché fanno della montagna con l’intemperanza snobistica di una moda. Evidentemente sono degli individui nati da padre “snobismo” e da mamma “vanità”. Ora l’alpinismo ha da essere un sentimento, non una vanità, come si dice della vera eleganza». «Si vede», sottolineò un altro, «che è poco naturale il loro sentimento per la necessità in cui si trovano di stimolarlo con qualche intemperanza. Ma gli effetti dello stimolo artificiale passano come gli effetti di un nervino». «Ho dunque ragione io di dire», proruppe un terzo, «che l’alpinismo è l’alpinismo, la moda è la moda e i bastardi non sono figli legittimi». «È inutile riscaldarsi», intervenne un quarto interlocutore che aveva fama di saggio. «Ciò è insieme vero e falso, perché in effetto la vanità, mischiandosi con le più nobili idee, presta loro un’ostinazione che altrimenti a tanta gente mancherebbe. Perciò un po’ di snobismo aiuta molto ad accostarsi alla montagna; e se di questi, alcuni resteranno, bene o male, quello che sono, altri diventeranno alpinisteggianti innocui, laddove un certo numero di essi, cimentandosi in qualche seria impresa, lasceranno brillare un po’ della loro “vera” anima, non di quella con cui posano davanti all’obiettivo fotografico della vita. E questo è già un bel fatto. Non c’è male al mondo che non contenga un po’ di bene».

Sì e no

1° alpinista. –  «Le altezze sono state create per rivolgere lo sguardo ad esse, non per guardare da esse: è un pensiero antialpinistico come quest’altro: si vedono grandi cose dalla valle, solo piccole cose dalla vetta; e ciò può voler dire che il mistero vuole sempre la sua parte. Difatti, con la conquista dei vertici alpini è finito, almeno da noi, il meraviglioso tempo delle leggende. L’alpinismo ha discacciato fate e diavoli, mostri e genii, da ogni luogo, da ogni recesso montano; perciò infierisce oggi la disoccupazione di queste classi che pure ebbero una loro funzione benefica sviluppando, nell’uomo che viveva ai piedi delle montagne o si attrezzava per le prime conquiste, il senso del fantastico. Vediamo le Dolomiti. C’è proprio da dire che, anche fra quei montanari, a tutto potere si sia perso un po’ il gusto del leggendario e del favoloso, se bisogna che scendano ogni notte, al chiaro di luna, la dolce Merisana, la coraggiosa Vinella, la tragica Moltina, l’eroica moglie dell’Arimanno, a rimproverare i pastori ladini di non credere più alle streghe e ai nani, a Re Laurino e alla Principessa della Luna, malata di nostalgia. Dobbiamo rallegrarcene? Non mi pare. “Conosciuto, non cresce, anzi si scema, il mondo”. Dallo stesso pensiero donde partiva il Leopardi, possiamo muovere anche noi per deplorare il tramonto delle antiche favole e leggende alpine”».
2° alpinista. – «A forza di favole e di personificazioni, i nostri avi avevano interrorita la montagna. L’alpinismo l’ha rifatta schietta e spirituale, mostrandocela nella sua verità. Tuttavia per il vero alpinista la grande montagna ha sempre il fascino delle cose che più si rivelano e più promettono nuove rivelazioni. Essa è tale che nessuno potrà mai dire di averla assorbita tutta. È, nella sua unità, inesauribile. È nutrimento per tutti gli spiriti. Insegna tutto e ispira a tutto».

Punto Limite

«Certe sensazioni di una salita che ci è sommamente piaciuta risultano così intimamente mescolate, così indissolubilmente unite e incastrate l’una nell’altra, da non distinguere più, quando ci si introspeziona, quale sia la parte di ciascuna di esse. Difatti, quando dico: “Conosco bene questa salita”, voglio significare che ne conosco bene la via, tutti i serpeggiamenti, tutte le svolte, tutti i suoi ostacoli e i suoi pericoli oggettivi; dimodoché, richiesto, saprei anche disegnarne il percorso minuziosamente. Ma pur dopo tale disegno, sono ben conscio di non aver detto tutto ciò che conosco intorno a questa salita: dentro di me sono rimaste le mie impressioni personali, incomunicabili, forse inutili, ma che non di meno contribuirono a formare la frase: “Conosco bene questa salita”».

Capelli bianchi 

«Nelle nostre scorribande, capita sempre di trovarci in una piazzetta di villaggio alpino. Il fondo di scena presenta spesso uno scorcio di case rustiche tagliate irregolarmente e, dietro, un monte che riempie tutto lo spazio libero con la sua mole formidabile. In un punto della piazzetta, che non importa precisare, sta seduta una vecchia guida, una famosa vecchia guida che guarda la montagna come fosse un’opera sua. Essa guarda assorta in uno spettacolo che noi non vediamo; ma per un alpinista, basta questa presenza perché la scena prenda subito un tono patetico. La vecchia guida ha scosso la testa; poi s’è messa a ripercorrere con gli occhi quelle magnifiche vie che ha tracciato sul corpo rugoso del gran monte, dove ci sono la sua vita, la sua lontana giovinezza e i suoi capelli bianchi, la sua fede energica e paziente. Per poco che ci pensi, molti emozionanti particolari gli ribalenano alla memoria, come al combattente le prime uscite della trincea sotto le raffiche. In quel punto là, il peso lo tirava giù e doveva reggersi forte alla roccia; più oltre una scarica di sassi gli era passata davanti fischiando; un certo giorno, sulla gran parete, stanco morto per il durissimo scalinare, si era d’un tratto sentito annichilire da quella cerchia di ghiacci inesorabili e minacciosi che gli cadevano addosso come se fosse lui a reggere tutto quel peso… Ricorda la vecchia guida, come una bontà infinita, le molte volte che è scampata dal pericolo; e a ricordare tutto ciò, sente un riposo e una contentezza che sono come una stanchezza ben distribuita per tutte le membra, una stanchezza ricca e umana. Ora la vecchia guida si è alzata. Qualche cosa di insolito si è messo nell’animo, come un viatico spirituale. Va: il suo passo è lento, ma sicuro. A vederlo campeggiare sulla piazzetta, pare che tutto sia dileguato d’intorno, e sia rimasto lui solo di fronte al monte che riempie lo spazio libero con la sua mole formidabile. Lui e la montagna: loro due, soli».

Ps: Un ringraziamento a Carlo Caccia per il suo lavoro di ricerca!

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