Mont Mangengenge

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Il richiamo della montagna o forse semplicemente una tradizione da rispettare. Già dall’aeroplano avevo addocchiato quella montagna isolata, quel promontorio che si innalza tra le colline del bacino del Congo. Mentalmente avevo cercato di orientarmi dall’alto studiando le distanze tra la città di Kinshasa, l’aeroporto e là dove immaginavo fosse la pediatria. Una volta a terra ho persino scoperto che quella è una montagna sacra, la meta di pellegrini e fedeli cristiani.

Così, ottenuto il permesso da Padre Hugo, eravamo in viaggio per il Monte Mangengenge, “la montagna che brilla” in lingala. Con la Jeep superiamo l’ampia e sconnessa strada che collega Kinshasa all’aereoporto internazionale. Quella strada è stata costruita negli anni’70 da Mobuto in occasione del mitico incontro di Box “Rumble in the Jungle”. Serviva ad accogliere Muhammad Ali (Cassius Clay), George Foreman ed i visitatori stranieri: da allora poco altro è stato fatto per mantenerne il buono stato.

Lasciata la strada ci infiliamo tra i villaggi avanzando a fatica lungo strade sabbiose dove la Jeep affonda e le ruote slittano a vuoto come su di una spiaggia. Spesso riusciamo ad avanzare a passo d’uomo solo perchè l’autista guadagna terreno zigzagando da fermo con lo sterzo.

Finalmente all’orizzonte appare la nostra montagna e, dopo qualche collina, riusciamo a raggiungerne le pendici. Da lontano la scogliera appariva di solida roccia ed invece è una strana conformazione di sabbia compatta che sembra resistere all’erosione in modo differente dal resto delle colline circostanti. Sembra roccia ma in realtà è possile scalfirla ed inciderla semplicemente con un unghia: ciò che ci apprestiamo a salire è un enorme massa di sabbia compatta immersa nella vegetazione.

Lungo la salita vi è una spartana via crucis dove semplici croci in ferro, spesso travolte dalla pioggia, segnano le stazioni per i pellegrini. Dove la montagna si fa più ripida il sentiero è scavato dall’acqua e si avanza in scoscesi canaloni di sabbia rossa.

Il panorama attorno a noi è sconfinato. Siamo lontani ormai dalla città e le pochissime piste che si vedono all’orizzonte sono tracciati in terra battuta e sentieri percorsi a piedi, qua e là si vedono piccoli villaggi con capanne in legno. Per Bruna, finalmente, è l’occasione di vedere l’Africa nella sua bellezza più sincera.

Nonostante l’afa il cielo è coperto dalle nuvole e questo ci risparmia dal sole Africano durante la salita. Dopo un ora abbondante siamo sulla cima dove una grande croce in cemento rappresenta il traguardo finale del pellegrinaggio. Sulla vetta ci sono quattro pellegrini che hanno trovato giacilio tra i cespugli passando la notte pregando.

Mi chiedono se vogliamo fermarci a pregare con loro. Con infinita faccia tosta rispondo loro gentilmente unendo platealmente le mani:”Ho già pregato cammindo fin quassù, grazie”. Alla mia risposta annuiscono e, parlottando tra loro in francese, sembrano dare credito alle mie parole: “Gli stranieri usano fare così: è un’altra educazione”. Chissà, forse hanno ragione loro e a modo mio anche i miei passi sono preghiere. Per gli Africani la religione è parte della vita, è quasi impossibile trovare qualcuno che, nel bene o nel male, non sia un fervente credente o un timorato del signore: qui la vita è troppo dura per privarsi della speranza che una fede infonde.

Un pellegrino ci scatta una foto e lasciamo qualche spiccio ai tre bambini che, armati di badile, pattugliano la salita aggiustandone i tratti erosi dalla pioggia. Mangengenge, la montagna che brilla, con i tuoi 718 metri di quota sei stata la cima di questo viaggio. Grazie per aver mostrato a Bruna il verde sconfinato di questa terra.

Davide Valsecchi

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