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eBook: La Pediatria nella Giungla

eBook: La Pediatria nella Giungla

Benvenuti nella Giungla. Io mi chiamo Davide Valsecchi, sono un’alpinista nato e cresciuto nel Triangolo Lariano, uno scavezzacollo che racconta le proprie avventure attraverso Internet o riviste di montagna.

Le cime del Karakorum in Pakistan,  gli scenari Himalayani di India e Cina, i vulcani della Tanzania ed il grande lago Tanganika: mi è capitato di scrivere in posti davvero strani, spesso terribilmente scomodi, ma attraverso le mie “sconsiderate avventure” ho sempre raccontato la bellezza selvaggia di quei luoghi.

Questo viaggio invece è stato totalmente diverso, un’avventura bella e dura come mai ne avevo affrontate. Questo libro è il diario dei giorni passati alla pediatria di Kimbondo, nella Repubblica Democratica del Congo. Racconti brevi, spesso scritti di getto a poche ore dagli eventi, carichi di stupore, di felicità ma anche di stanchezza, di tristezza e di sconforto.

Nella prima parte troverete i miei appunti e le mie ricerche compiute prima della partenza. Da buon alpinista ho cercato di scoprire il più possibile sul paese in cui stavo per recarmi, sui suoi guai storici e sulle condizioni ambientali. Il Congo, il Cuore di Tenebra, è uno tra i paesi africani più complessi e difficili, un paese il cui presente è incerto al pari del suo futuro.

Nella seconda parte invece sarete nella pediatria, immersi nei racconti scritti la notte quando, a fine giornata,  cercavo di mettere ordine negli eventi che mi avevano travolto durante il giorno. Caldo, fatica ed un umanità vibrante e vacillante che non si acquieta neppure al calare del sole.

La tragedia, costante e terribile, che aleggia inevitabilmente in un ospedale nel cuore dell’Africa contrapposta alla gioia ed alla speranza, al sorriso dei bambini ed alla volontà travolgente di chi da anni resiste e si batte contro le difficoltà, contro l’ignoranza, contro la malattia.

Questo libro è dedicato a Padre Hugo, il vero eroe di queste storie, lo spirito che anima Kimbondo. Un medico e prete cileno nel cuore dell’Africa. Un uomo la cui delicata forza e perseveranza hanno saputo stupirmi ed ispirarmi come pochi altri in vita mia.

Quando raggiungo la cima delle montagne e guardo l’orizzonte ho sempre quella strana sensazione: osservando il mondo da lassù quasi mi convinco che forse da qualche parte davvero esiste un Dio, uno spirito immane che anima e permea tutte le cose. Se un Dio simile esiste mi piacerebbe aiutasse quell’uomo coraggioso che in Africa si batte ogni giorno per difendere chi è senza difese, chi è abbandonato da tutti.

Che voi siate credenti o meno questa è la storia della pediatria nella giungla: tieni duro Padre Hugo, possano il cielo e gli uomini sostenere l’umanità dei tuoi gesti. Amen.

Davide Valsecchi

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Siete ancora lì?

Siete ancora lì?

Tornare a casa dal Congo è un viaggio duro. Per prima cosa si devono sbrigare tutte le pratiche all’aereoporto e l’impresa può essere più ardua del previsto dato che i “mundele”, i bianchi, da queste parti sono visti come piante da frutto o vacche da mungere. Un agente della dogana mi guarda, sorride compiaciuto e mi dice in inglese «Gli americani dicono sempre “In Dio noi crediamo”» e la sua ironia non è poi tanto sottile: la citazione è  infatti stampata a chiare lettere sul biglietto verde da 50 dollari che si ritrova ora ben stretto in mano. “Mundele, pesa mbongo!” poco conta essere volontari per un’ospedale-orfanotrofio “Mundele, donne-moi l’argent!”.

Ad Addis Abeba va anche peggio: dopo sei ore di volo ci ritroviamo nell’aereoporto circondati da connazionali di ritorno dalle vacanze. Spiace ammetterlo ma gli italiani in viaggio spesso sanno dare tutto il peggio di sè distinguendosi nei modi peggiori. “Quando eravamo nella caldara del Ngorongoro la nostra tenda era davvero pessima e nel bagno non c’era l’acqua calda per la doccia. Lo scorso anno in Kenia erano molto meglio attrezzati!” Si lamenta una signora dalla faccia irritante senza nemmeno rendersi conto di come stia bistrattando uno dei luoghi più misteriosi ed affascinanti del pianeta, una meraviglia ormai ridotta ad un triste Luna Park di lusso. Dal canto mio io ripenso al secchio giallo e blu con cui trasportavo l’acqua per lavare i bambini e, nemmeno troppo  silenziosamente, auguro alla vecchia di riportare in patria, oltre alla puzza sotto il naso, qualcosa di esotico come la “quarantana” o un paio di “pulci della sabbia” annidiate sotto le unghie dei piedi.

Finalmente a Malpensa il calvario finisce: a “recuperare” me e Bruna ci pensa Emanuele del team Flaghéé. Quando mettiamo piede in casa sono le sette del mattino e si concludono così le nostre ventiquattro ore di viaggio.

Crollo nel mio letto e la prima cosa che noto è il silenzio: salvo le fusa della piccola Nora, la mia gattina diventata sempre più grande, non c’è alcun rumore o alcun suono. Nelle ultime cinque settimane la notte era animata in modo costante dai suoni degli insetti, degli uccelli e degli altri animali. Il mio preferito era un’uccello il cui verso sembrava il suono del clacson di una macchina d’inizio novecento: peee peee. Di giorno poi era sempre un via vai costante di persone, di gente che urlava in francese o in lingala, di bimbi chiassosi o piangenti. Completamente al buio non sento niente: è come essere in una tetra campana di vetro isolata dal mondo. Una sensazione strana che piano piano sfuma mentre gli occhi si chiudono e morfeo mi abbraccia.

Siamo tornati e, lo confesso, siamo un po’ stanchi: serve un bagno caldo, un po’ di riposo e qualcosa di nostrano da mettere sotto i denti.

Per via della precaria connessione ad Internet ho potuto leggere, un po’ a fatica per la verità, solo parte dei messaggi che ci avete inviato (rimedierò con calma ora). Come sempre ho provato a raccontarvi ciò che avevo difronte anche se spesso, in questo viaggio, non era facile farlo. Spero di non essere stato troppo crudo o troppo brusco nel raccontarvi gli aspetti più duri di una realtà difficile e complessa come quella della pediatria. Ora che mi è più facile leggere mi piacerebbe, se vi và, sapere cosa ne pensate o cosa vi ha colpito di questo mondo distante che abbiamo provato a mostravi.

Fate con comodo, io per un po’ torno a dormire!
Ciao a tutti e grazie per averci accompagnato lungo la via.

Davide e Bruna

Le jardin de Mikoti

Le jardin de Mikoti

A guidare il gruppo c’è Ghilen: siamo una decina, camminiamo in fila indiana attraverso le sterpaglie e l’erba alta fino a raggiungere una polverosa strada di terra gialla. Una strada o quello che ne rimane visto che al centro della stretta carreggiata l’acqua e le grandi piogge hanno scavato un canion profondo quasi due metri.

Poi di nuovo ci infiliamo nella boscaglia. Sulla testa portano sacchetti e secchi carichi di cemento mentre nel mio zaino c’è acqua ed attrezzi. Sono tutti ragazzi cresciuti nella pediatria, tutti ormai ventenni hanno quasi quindici anni in meno di me e la loro pelle è “fredda” anche sotto il sole. Io, al contrario, avanzo grondando sudore come una fontana e l’umidità di questi giorni mi sta spezzando la schiena: sono stato un ventenne per molti anni ma sembra che ora mi sia arrivato il conto tutto di un botto.

Siamo in marcia per Mikoti, un piccolo appezzamento di terreno di proprietà della pediatria a circa un’ora di cammino. Qui grazie agli aiuti dei volontari italiani sono state costruite delle cisterne per raccogliere l’acqua ed irrigare i campi. La cisterna in muratura perde acqua, per questo i ragazzi impastano il cemento con la sabbia raccolta lungo la strada e si calano al suo interno per impermeabilizzarne le pareti.

Cammino attraverso le culture mentre grasse lucertole colorate saltano davanti ai miei piedi come scoiattoli volanti. Ci sono piante di citrioli, di pomodoro e di manioca: la terra qui non è fertile come a Kinta ma con impegno si sono ottenuti buoni risultati anche qui.

All’ora di pranzo cuciniamo una piccola polenta di mais e grigliamo alcuni pesci. La giornata è ancora lunga e finalmente il sole filtra attraverso le nuvole scure mostrando il cielo azzurro d’Africa. Non si sta poi male qui…

Davide Valsecchi

Un Nostromo nella giungla

Un Nostromo nella giungla

Visto che tra pochi giorni saremo in partenza io e Bruna stiamo ora passando piano piano il testimone della “Premier Chambre”. Bruna si occupa di aspetti organizzativi con infermieri e maman mentre io faccio quello che mi viene meglio: “il nostromo”.

Il nostromo è colui che su una nave fa eseguire gli ordini del capitano, che lancia gli uomini all’arrembaggio e si premura di sorvegliare la rotta: notoriamente è una figura dai modi spiccci, quasi grezzi, che deve dominare ed incitare la ciurma con la propria foga.

Così, da un paio di giorni, per la pediatria c’è un bianco con gli occhi azzurri che cammina in modo buffo indossando grossi scarponi ed urlando come un pazzo in una strana lingua che rassomiglia vagamente al francese, all’inglese ed al dialetto lombardo. Chiunque sia così sfortunato da capitare sul suo cammino viene arruolato in un improbabile esercito dedito a raccogliere cocci di vetro, pezzi di tolla ed immondizia in genere.

Ovunque nei paesi del terzo mondo l’immondizia è un problema concreto: questa gente non riesce a comprendere come “buttare le cose a caso dove capita” equivalga a scavarsi la fossa in una situazione di per sè già difficile. La “pulizia” è un degli obbiettivi primari di Padre Hugo ma nonostante gli sforzi c’è ancora molto da fare per correggere questo comportamento sbagliato, anche all’interno della pediatria. Sopratutto qui, dove in molti sono infetti, diventa un concetto importante ed un problema prioritario visto che un semplice coccio di vetro può diventare una concreta forma di contagio per i bambini che vanno scalzi o che giocano distratti.

Mentre coordinavo le grandi manovre sbraitando e gesticolando il piccolo Edoardo mi si è avvicinato mostrandomi ciò che aveva trovato tra le sterpaglie. Edoardo aveva con sè un uccellino probabilmente caduto dal nido e così, visto che qui non si abbandona nessuno, abbiamo portato il “pulcino” a Bruna e Natalia, una volontaria belga. Le due maman bianche, munite di un tollino, hanno iniziato a dare da bere alla nostra nuova maschotte.

Orbene. Vi sarete certamente accorti che solitamente non pubblico foto dei bambini. Purtroppo in passato è già successo che le immagini venissero usate, così come il nome della pediatria, per sostenere truffaldine raccolte fondi.  Spesso persino i Congolesi vengono alla pediatria cercando di farsi fotografare insieme a Padre Hugo o alla dottoressa Laura proprio per questo deplorevole fine. Al mio ritorno a casa vi indicherò i canali ufficiali sia per visionare filmati e fotografie, sia per avere informazioni su come aiutare la pediatria.

Tuttavia la piccola squadra che mi ha aiutato oggi merita un piccolo premio ed un po’ di notorietà. Ecco a voi il mio sgrangherato esercito, o perlomeno i valorosi che non si sono dati alla macchia prima che il lavoro fosse terminato:

Davide Valsecchi

La danse du singe

La danse du singe

Alla pediatria non c’è mai molto tempo per abbandonarsi alle tristezze: appena ti giri sei circondato da bambini mocciolosi e vocianti pronti a sommergerti e ad inzaccherarti con effluvi affettivi e non. Tuttavia gli ultimi giorni sono stati davvero impegnativi e tutti avevamo bisogno di staccare almeno un attimo. Padre Hugo, probabilmente un po’ preoccupato per noi, ha deciso di portare tutta la squadra in gita: “Io oggi ho tempo di andare al mondo: prendete qualcosa per la mangiata ed andiamo a vedere le scimmie”.

A poca distanza dalla pediatria, ad una ventina di minuti su strada sterrata, vi è invatti il santuario dei Bonobo, un parco che svolge il ruolo di ambulatorio veterinario creato dai belgi per la salvaguardia di una specie di scimmia antropomorfa fino a qualche anno fa in via di estinzione: i Bonobo.

Perdonatemi, ma sono un po’ stanco per i giri di parole e quindi lo dirò nella maniera più piatta possibile: i Bonobo sono “le scimmie che scopano”, ossia sono una delle poche specie sul pianeta che, come l’uomo, pratica il sesso sia per fini riproduttivi che ricreativi. Ad onor del vero va detto che sono anche piuttosto disinibiti sia nelle diverse pratiche che negli “incastri”: insomma, sono in via di estinzione ma se la spassano…

Al di là degli scherzi va osservato come tutto l’ambito sociale di queste scimmie ricalchi uno slogan in voga qualche anno fa: “fate l’amore e non la guerra”. Durante la nostra visita è capitato di vedere due scimmie azzuffarsi e, dopo un po’ che erano avvinghiate nella lotta, dimenticare il motivo del contendere ed abbandonarsi alle effusioni: “Già che siam qui stretti stretti…”

“Padre, passiamo per guardoni se rimaniamo qui ancora a lungo!!” Padre Hugo ride di gusto alle mie parole. Per lui questo posto è davvero particolare e fonte di riflessione: il parco ha infatti “romboanti sponsor” ed egli  ha ben presente come queste scimmie, prima che arrivassero le associazioni italiane ad aiutarlo, vivessero decisamente meglio dei suoi bambini e godessero di risorse ed attenzioni di gran lunga superiori. “A volte ci sono contraddizioni difficili da capire in questo mondo” mi dice il padre passeggiando ai bordi del parco.

Quello che va però osservato, e che spero possiate cogliere negli scatti che ho fatto, è quanto queste scimmie appaiano simili nelle forme e nei gesti agli esseri umani. Sopratutto i vecchi ed i giovani, coperti da una pelliccia più rada, appaiono come i nostri anziani o i nostri neonati. Questo rende ancora più curioso osservare come queste scimmie passino le giornate “limonando” allegramente e “dandosi da fare”.

A presto!

Davide Valsecchi

La fin de l’histoire

La fin de l’histoire

Mettetevi comodi, prendete il vostro tempo ed il vostro spazio prima di continuare a leggere. Questa è la fine della storia, un finale semplice, forse prevedibile e privo di colpi di scena. Ma la storia non può essere lasciata in sospeso, nascosta nella sue parti tristi. Va raccontata fino in fondo così come è giusto che sia la vita.

Siamo a cena e Padre Hugo è seduto difronte a me mentre Bruna traffica al lavandino. La piccola Bruna è debole, ha rifiutato il cibo e rigurgitato quel poco che eravamo riusciti a darle. “Questa sera conviene che la riportiamo alla camera 10. C’è il medico di guardia che la può assistere” Mi dice Padre Hugo. Era stato lui a dirci di prenderla in consegna nel momento più critico e mi è abbastanza chiaro perchè ora mi chieda diversamente. “Padre, Bruna è ancora furiosa con me per averla portata via da Winner quando è successo. Conviene che glielo dica tu questa volta.” Lui capisce, io chiamo Bruna e lui le racconta del medico di guardia, dell’ossigeno, delle medicine.

Il Padre è stato quanto più delicato possibile ma Bruna ha capito perfettamente la situazione e, malgrado tutto, è ormai rassegnata ad accettarla. Insieme abbiamo adagiato la piccola in una culla di plastica e, preso tutto il necessario, ci siamo incamminati nuovamente verso la stanza 10, la stanza dell’ossigeno.

Risalire le scale nel buio della notte con in braccio la piccola culla è quasi opprimente. Mi sento come se la stessi accompagnando al suo funerale e nell’oscurità sono spaventato dall’idea di arrivare in cima alla salita e trovarla ormai esanime. Vicino alla tettoia della chiesa una luce è ancora accesa e ci avviciniamo per controllare la piccola: trovarsi di fronte ad un crocefisso con una bimba morente tra le braccia è qualcosa davvero difficile da spiegare e che non dimenticherò.

Alla stanza 10 ci attende Edo, un giovane e volenteroso infermiere locale che subito visita la piccola. Dopo averle attaccato le cannule per l’ossigeno il saturimetro segna 46 d’ossigeno e 128 di pulsazioni, numeri che davano davvero poche speranze. Quando Edo ed il medico di turno smettono di parlare tra loro in francese passando al lingala capiamo che per me e Bruna è tempo di salutare la piccola ed in silenzio torniamo alla nostra stanza affrontando la notte.

Alle sette del mattino la sveglia di Bruna inizia a suonare ma lei si gira dall’altro lato del letto ignorandola. Non è da lei ma so cosa sta provando, so cosa sta attendendo. Per due settimane si è occupata di lei e negli ultimi giorni l’ha vegliata giorno e notte come forse solo una madre saprebbe fare. In cuor suo non vuole sapere e così mi infilo gli scarponi uscendo dalla stanza: tocca a me scoprire l’esito della notte.

Risaligo di nuovo la collina immaginando cosa dire, immaginando cosa fare. Quando entro nella stanza 10 le infermiere mi salutano senza dirmi alcunchè di particolare e, varcando la soglia della stanza, vedo la piccola ancora nel suo lettino. Mi avvicino, lei apre gli occhi e mi stringe la mano. Rimango solo un attimo ed esco in fretta per dirlo a Bruna. In quel mentre Padre Hugo celebra il funerale di un’altra bambina, mi fermo un attimo dietro la staccionata e l’osservo benedire un’altra piccola cassa.

Quando rientro nella stanza Bruna è già alzata e sistema i vestiti aspettandomi: “Forza pigrona, la piccola bastarda è ancora viva ed attende di essere sfamata!” Può non sembrare ma nelle mie parole, volutamente brusche, c’è tutto il mio affetto e l’orgoglio per quella piccola che non sembra avere intenzione di arrendersi. Bruna è come rianimata alla notizia e subito corre in cucina per iniziare a preparare i biberon e tutto il resto del necessario.

La piccola non si è arresa, ma quanto ancora può resistere? Quanto può continuare? Sono ormai sei giorni che combatte una lotta disperata: viste le poche speranze non è tempo forse di arrendersi, di acquietarsi? Questo mi domando sentendomi quasi responsabile del suo stato attuale. Tu sapresti quando arrenderti? Mi domando ancora. Probabilmente no, dalle quello che puoi e lascia che sia lei a scegliere: questa è la risposta che mi do.

Tra la gioia di tutti Edo riporta la piccola nella cucina dei volontari perchè si provi di nuovo a nutrirla e ad idratarla. Bruna la prende in braccio e, per quanto affaticata, la piccola è presente, reattiva, arrabbiata e combattiva come sempre. Anche Padre Hugo, terminato il funerale, ci raggiunge nella cucina ed è davvero felice di vedere ancora la sua “cochita”. Ci siamo io, Bruna, una volontaria italiana e due belgi oltre alle due maman che stanno cucinando. Stiamo facendo colazione e siamo tutti molto felici che la piccola sia ancora con noi.

E’ un momento sereno: abbiamo una giornata intera di fronte a noi e lei è ancora qui. Parlando con i belgi salgo in cima ad una sedia cercando un punto sulla grande mappa della cucina. Qualcuno versa il caffè caldo dai termos e qualcuno chiede del pane con la marmellata. Bruna si volta verso la piccola nella culla: “Oggi leggiamo le favole anche se il libro non ce l’abbiamo”. Poi si ferma un attimo, mi guarda, sussurra: “E’ morta”.

Smonto dalla sedia, mi avvicino, controllo il costato ed appoggio una mano. Gli occhi sono quieti, aperti e rivolti verso qualche altrove. La bocca è appena aperta ma il viso è disteso. Tutto è quieto, tutto è immobile. “Chiama Padre Hugo”. Lei esce e va nell’altra stanza a chiamare il padre. Io non ho bisogno di lui per sapere che la piccola non è più qui, ancora una volta volevo che Bruna si allontanasse un attimo, volevo proteggerla, darmi il tempo di sistemare la piccola.

Prendo le piccole braccia e le dispongo ai fianchi, distendo le gambe e raddrizzo la testa. Sistemo il lenzuolo come se dovesse dormire. Non le chiudo gli occhi ma mi soffermo a guardarli: è la prima volta che la vedo quieta, è la prima volta che non la vedo arrabbiata.

Piccola pazza, avevi lottato con tutte le forze per guadagnarti l’alba. Eri riuscita persino a tornare da noi quasi per salutarci. Chissà se nel chiasso festoso della cucina ti sei sentita felice, se ti sei sentita finalmente in famiglia e sei riuscita ad acquitare la rabbia che ti aveva fin qui sostenuto. L’ho guardata ed ho sorriso. Sei stata brava, ti sei battuta con tutte le tue forze e nessuno avrebbe potuto chiederti di più. La vita ti è sfuggita ma non ti ha sconfitto. Sei stata tanto brava e tanto forte piccola mia.

Padre Hugo arriva nella stanza e con lo stetoscopio ausculta il petto della piccola. Le chiude delicatamente gli occhi e le fa il segno della croce sulla fronte. Tutto è successo in fretta, troppo in fretta anche per uno come lui. Solo pochi minuti prima l’aveva vista viva ed in cuor suo aveva sperato per il meglio. Nella stanza tutti sono impietriti e le lacrime appaiono sugli occhi di tutti.

Per la prima volta vedo il padre inquieto mentre con una innecessaria fretta togliamo il sondino e la flebo. Lui l’avvolge in un lenzuolo e la stringe al petto. Mi parla in francese mentre lo accompagno alla piccola casetta mortuaria e quasi non si cura che il braccino della piccola macchi di sangue il suo camice bianco. Nella stanza c’è un dipinto sul muro fatto dai ragazzi con i colori a cera: “Vedi” mi dice mentre stringe la piccola “ho fatto disegnare gli angeli di colore perchè qui credevano fosserso solo bianchi”.

Padre Hugo affronta questa vita da oltre trent’anni e celebra un funerale ogni giorno eppure in quel momento riuscivo a sentire tutta la sua umanità, tutto il suo dolore. Gli anni e le avversità hanno irrobustito quest’uomo ma non l’hanno indurito: la piccola con lui, dopo tanta sofferenza, era ora davvero tra le braccia del Padre. Addio piccola Bruna.

Davide Valsecchi

Novantasei ore

Novantasei ore

Sono passate novantasei ore, quattro lunghi giorni di battaglia, due trasfusioni, ossigeno, flebo, cannule, preghiere e “bestemmie”: tutto per la Piccola Bruna che, finalmente, sembra inizi a tirare fuori la testa dalla fossa in cui sembrava essere già stata calata.

Con la piccola è un susseguirsi snervante di schiarite e tracolli che rendono difficile ogni previsione, insicura ogni speranza: la sera, tra la gioia di tutti, la piccola addentava una coscia di pollo e la mattina era di nuovo troppo debole per qualsiasi cosa.

L’unica costante cosa rimane sempre il suo caratteraccio: una rabbia figlia della vita disordinata e caotica in cui è stata trascinata prima di essere abbandonata. La giovane madre, poco più che maggiorenne, è infatti una ” Shegue”, una di quei ragazzi di strada che si riuniscono in bande vivendo alla giornata nelle periferia sub-urbana di Kinshasa.

La piccola Bruna, abituata a vagabondare con la madre, mangia ora solo quello che vede passare di bocca agli altri ed è quasi impossibile darle un pasto intero tanto è abituata a mangiare poco ed in modo incostante. Ad aggravare quest’atteggiamento c’è la malattia e l’enorme quantità di stress che sembra avere accumulato dopo l’abbandono: è colma di rabbia ed avida dell’affetto che le è stato negato.

Bruna ed io siamo un po’ stanchi ma abbiamo guadagnato quattro giorni ed anche Padre Hugo è molto confidente nonostante le incertezze. Per il padre la medicina è davvero una forma d’arte che egli esercita con una capacità straordinaria nonostante gli strumenti, a volte rudimentali, di cui dispone: “I computer sono una buona cosa ma qui non li abbiamo e nessuno li saprebbero usare. Un medico deve imparare ad usare bene gli occhi e sopratutto il naso, vedere i sintomi e sentire gli odori. Serve fare esperienza ed essere sempre nel dubbio. Pensare, pensare, pensare.”

Effettuare una trasfuzione ad una bimba che ha meno di un anno ed è tanto debole richiede grande competenza e rappresenta un grande rischio: sbagliando le quantità o le modalità di somministrazione del sangue si rischia infatti di scompensare il sistema circolatorio e di creare un collasso cardiaco: il cuore rischia letteralmente di non riuscire a pompare la nuova quantà di sangue in circolo e quindi di fermarsi inesorabilmente. Solo con il tempo Padre Hugo è riuscito a formare i suoi medici congolesi in queste pratiche tanto delicate e, a conferma degli ottimi risultati raggiunti, è in costruzione un nuovo padiglione dove poter ampliare e strutturare il centro trasfusionale.

In questa domenica minacciosa di pioggia finalmente godiamo di un attimo di pace: siamo riusciti, cosa rara, a pranzare tutti insieme e a starcene seduti per chiacchierare con un po’ di caffè in mano.

Adam e Patrizia, contrariamente alla piccola Bruna, sembrano essersi ormai quasi rimessi ed hanno riacquisito abbastanza peso e salute da poter presto tornare con gli altri bimbi della neonatologia.

Quella che inizia ora è la nostra ultima settimana di “ferma” alla pediatria e se avrò un po’ di tempo proverò a raccontarvi di Kinta, il piccolo villaggio che abbiamo visitato Mercoledì nell’interno del paese. C’è tanto di cui vorrei rendervi partecipi ma purtroppo, vista la situazione, faccio fatica a rubare tempo al riposo per scrivere come si deve tutti i giorni: dovrete forse aspettare il mio ritorno tra la quiete della nostra valle, che mi dicono ora innevata, per sapere molto di quello che accade qui.

Grazie per il supporto!

Davide Valsecchi

Il cielo starà a guardare

Il cielo starà a guardare

La piccola ora sta davvero male: è stesa nel piccolo lettino ed il dottore con l’aiuto di Bruna le infila nel braccio la flebo, lei resta immobile, assente, lontana. La situazione sta precipiando: i medici hanno deciso di farle una trasfusione di sangue come estremo tentativo per sostenerla ma nella pediatria non c’è sangue adatto per lei. Padre Hugo indossando il camice entra nella stanza furioso per il ritardo con cui l’hanno avvisato. Guarda la piccola un attimo e qualcosa passa nei suoi occhi: prende il biberon dal lettino, ne benedice l’acqua in latino e con questa battezza la piccola in spagnolo. Poi di nuovo esce di corsa e va a cercare il sangue per la trasfusione.

Il mio equilibrio si rompe di schianto. Una rabbia cieca quasi mi soffoca ed esco tra la polvere del piazzale. Non sono preghiere che salgono al cielo le mie: “Fanculo! Dove cazzo sei? Ci stanno massacrando quaggiù mentre tu ti fai i cazzi tuoi!” Questa volta tocca a me trattenere le lacrime mentre cerco qualcosa per soffiarmi il naso che inizia a colare: non voglio dare a questo cielo la soddisfazione di vedermi vinto.

Qualcosa è diverso nell’orizzonte questa sera, il tramonto non è come al solito gonfio di fiamme rosse e non c’è un sole incandescente che brilla sul giorno morente. Il cielo è colmo di nuvole bianche illuminate da una luce dorata su uno sfondo azzurro. Per un secondo mi sento smarrito, poi tiro fiato e rientro.

Bruna ha la piccola in braccio e mentre la culla le colano lungo il viso due silenziosi lacrimoni. Un ragazzino le è seduto accanto e fa suonare un piccolo carillon che sembra annunciare l’inevitabile. Come uno sciocco con gli occhi lucidi mi siedo accanto a Bruna ed infilo un dito tra le dita della piccola, lei stringe ma senza aprire gli occhi. Il tempo scorre immobile e tutti aspettiamo, ma il tempo passa e nulla accade. Solo il buio scende su ogni cosa, le lampadine illuminano la stanza e trasaliamo ogni volta che la corrente salta e restiamo nelle tenebre.

La piccola non muore, riapre lentamente gli occhi: è distante, lontana e stanca ma è ancora qui. Guardo quegli occhi e rivedo la piccola incazzosa di qualche giorno fa: c’è ancora spazio per dare battaglia. Bruna è solida ed è lei la mia speranza qui. Iniziamo a discutere sul da farsi, su come attrezzarci per la notte ed è allora che entra di nuovo Padre Hugo. Pensavo di dormire nella Premier Chambre ma il vecchio ci chiede qualcosa che non ci ha mai chiesto da quando siamo qui e a cui, solitamente, è profondamente contrario: “Portatela con voi. Prendete quel lettino e tenetela nella vostra stanza questa notte”.

Nemmeno io avrei solitamente accettato una cosa simile ma ora siamo di nuovo in corsa, di nuovo in movimento. Mi carico di tutto il necessario ed inizio ad organizzare il trasloco. La vita ha bisogno di una buona dose d’arroganza o non avrebbe senso il suo confrontarsi con tante avversità: “Il cielo faccia quello che vuole, noi faremo altrettanto!”.

Bruna è infaticabile, determinata con una delicatezza commovente ma tutto quello che posso fare è sostenerla. Attrezziamo la nostra stanza ed ogni mezzora pompiamo 10 millilitri di latte attraverso il sondino che dal naso scende allo stomaco: è una notte di calvario, fatta di mille risvegli preoccupati. Lei respira, stringe le ditina ed arriva finalmente la mattina.

Per amore o per rabbia la volontà degli uomini può trapassare la roccia, ma è una magia che accade di rado, una fatica che non può essere sostenuta a lungo. Questo il cielo lo sa e me lo ricorda in ogni occasione: serve un po’ di fortuna, un po’ di aiuto perchè anche il fuoco più grande in questa vastità buia appare poco più che una scintilla.

Padre Hugo bussa alla porta. Io ho finito tutta la mia rabbia e non ho nient’altro da spendere, lui invece sembra avere ancora intatta tutta la sua energia, tutta la sua fede. Il padre è felice di rivedere la piccola ed è riuscito finalmente a trovare il sangue per farle la trasfusione. La piccola è sopravvissuta alla notte e, grazie alla trasfusione, vivrà anche oggi e forse anche domani. Oltre nessuno può saperlo.

Sotto il cielo questa è la vita che scorre: alle volte è davvero difficile capirne il senso e trovare il proprio ruolo. Qualcuno è qui per orgoglio, qualcuno è qui per fede, qualcuno è qui per amore.

Davide Valsecchi

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