Roda di Vaèl – Parete Rossa

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[Alessandro Gogna – Rassegna Alpina Marzo/Aprile 1969] Nel trascorso inverno poverissimo di imprese alpinistiche, eccezionali o meno, ci è giunta desiderata la notizia della conquista invernale della via Concilio Vaticano Secondo, sulla Parete Rossa della Roda di Vael. Questa via ha appena sei anni di storia, eppure, molte sono state le avventure che vi sono state vissute. Già nel Natale 1962 i Colibrì, guidati da Peter Siegert, che pochi giorni dopo avrebbero dovuto concentrare l’attenzione dl tutti con la loro sfibrante impresa sulla Nord della Cima Grande di Lavaredo, avevano tentato la prima invernale (e prima ripetizione). Furono costretti a desistere e deviare sulla via Maestri, concludendo insieme con i monzesi Vasco Taldo e Nandino Nusdeo. Freddo intenso e scarsa attrezzatura sono stati i motivi della rinuncia.

La «prima» era stata compiuta dal 6 al 9 settembre 1962, ideata e condotta dal noto Bepi Defrancesch, con i suoi compagni Cesare Franceschetti, Quinto Romanin ed Emiliano Vuerich. La via si inserisce tra il classico itinerario «Buhl», di Lothar Brandler e Dietrich Hasse, del 1958, e il più artificiale itinerario diretto di Cesare Maestri e di Claudio Baldessari, del 1960. Fu immediatamente denominata la «superdirettissima», anche se battezzata «via del Concilio Vaticano Secondo», per continuare la tradizione della «Olympia ’60 » e di «Italia ’61» aperte sul Catinaccio e sul Piz Ciavazes. Nel 1963 Defrancesch avrebbe potuto continuare aprendo magari un nuovo itinerario del «Centenario del CAl», ma ha preferito aspettare il 1968, per il «Cinquantenario di Vittorio Veneto», sul Piccolo Vernel. Ormai tutte le vie della Parete Rossa erano state percorse d’inverno perfino la difficilissima Eisenstecken, vinta dagli altoatesini Holzer e Authier: Heini Holzer (lo «spazzacamino»), uno dei rappresentanti del fortissimo nucleo di alpinisti italiani di lingua tedesca, di cui Reinhold Messner e senza dubbio il nome più importante. Mancava solo la salita della «superdirettissima». Così, tanti sono i tentativi andati a male, d’estate e d’inverno. Claude Barbier torna indietro, ed anche Marco Dal Bianco.

I più accaniti sono Giorgio Brianzi di Cantù (da pochi giorni Accademico del CAI), e Franco Gastaldelli, detto «Califfo», di Milano. Moltissime volte si portano da Milano al rifugio Paolina. Poi all’attacco con il materiale, poi ritornano. Quando attaccano per la prima volta, al sesto tiro di corda crolla un intero terrazzino sotto i loro piedi. Rimangono fortunosamente appesi ai chiodi.

Ritornano ancora il 17 marzo 1968, con Paolo Armando e con me; bivacchiamo sulle amache dopo quattro lunghezze. Il giorno dopo ci spingiamo fino a due terzi della parete. Qui, dopo lunghe incertezze, decidiamo che le cose sarebbero ancora andate troppo per le lunghe. L’unico parere contrario è quello di Brianzi, che vorrebbe invece continuare. Così scendiamo, e traversiamo sulla via Maestri; altro bivacco, e poi giù per un diedro strapiombante, fino al tetto triangolare, tutto in artificiale, in discesa. Ormai per Giorgio Brianzi è un chiodo fisso, ed ha ragione.Troppo tempo, troppa fatica e denaro ha speso per quella via.

Il 14 giugno 1968, ritorna ancora, con il «Califfo». Questa è la volta buona per la prima ripetizione, insieme a loro però, ci sono anche due lecchesi, Aldo Anghileri e Piero Ravà, e due bolzanini, Dante Belli e Sereno Barbaceto. Con due bivacchi escono in vetta, in mezzo ad una tormenta di nevischio, e così la via che per sei anni non era stata ripetuta da nessuno, improvvisamente e stata salita da sei alpinisti.

Ma la lotta non è ancora finita. Fine dicembre 1968, il freddo eccezionale scoraggia i tentativi. Ma il 5 gennaio il tempo è ancora bello, e il freddo meno intenso. Il Califfo non è della partita perchè non è sufficientemente allenato. Compagno di Brianzi è Tiziano Nardella di Milano. I due stanno tre giorni in parete, fino al 7, costretti ad arrampicare sulla muraglia gialla e strapiombante con i guanti, ed a volte persino di notte, come alla fine del secondo giorno, per raggiungere una nicchia, l’unico posto buono per bivaccare.

Una partenza discreta la loro, senza informare alcuno, tranne un paio di amici; è il costume classico e po’ tramontato del vecchio alpinismo, schivo del clamore pubblicitario. Raggiunta l’alta val d’Ega hanno preso la seggiovia del Paolina, avvicinandosi ad una delle pareti più illustri e più «dolomitiche», cui le vicende hanno legato nomi grossi: Emilio Cornici, Toni Egger, per vincere la parete; Angelo Dibona, molti anni prima, per salire uno splendido itinerario, il solo allora possibile, tutto a destra delle placche gialle e rosse; e poi Lothar Brandler e Dietrich Hasse, e Cesare Maestri, e Otto Eisenstecken.

E ora Brianzi e Nardella, su questo appicco di 400 metri, su questa via a goccia d‘acqua, che possiamo collocare al limite delle possibilità dolomitiche, e nell‘ambito delle ascensioni classiche, indiscutibilmente fedele all’etica più pura, su cui i chiodi a pressione solo necessari e pochissimi, e molti e difficili sono i passaggi in arrampicata libera, le lunghezze «estreme». Essa soddisfa i conservatori che negano la validità delle sfilze di chiodi e nel contempo suscita il rispetto degli specialisti dell‘artificiale uno, due, e tre. Quindi il massimo di un genere. Brianzi e Nardella sono saliti in questo regno di placche e tetti gialli, incontrando neve su ogni terrazzino, e molto freddo, specie al mattino e di notte. All’uscita in vetta, verso le 16.30 del 7 gennaio, trovano ghiaccio e neve fresca, dove la parete perde la sua verticalità. Il ritorno non è stato drammatico, ma assai faticoso. I due nuotavano nella neve fresca, ed hanno impiegato sedici ore dalla vetta al rifugio. D’estate in due ore si può già essere con le gambe sotto un tavolo a bere birra a volontà.

Ad un certo momento decidono, nella nebbia più fitta, di scendere direttamente in basso, per guadagnare al più presto la carozzabile, 650 metri più in basso. Ma non è possibile scendere su quel terreno, sfondano fino alla gola, a volte sparendo improvvisamente per un buco sotto i piedi. Altro momento scoraggiante è stato quando i due, deciso di abbandonare tutto il materiale sotto un masso, incominciano a camminare, e dopo mezz’ora si ritrovano sotto lo stesso masso.

ALESSANDRO GOGNA

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